Quando a 16 anni mi
avvicinai lentamente al rock degli anni '90 mi colpirono due gruppi
in particolare: Oasis e Blur.
Non che fosse una cosa
strana, all'epoca il mondo, l'Italia, la provincia si divideva
(abbastanza assurdamente a pensarci ora) tra i fan dei fratelli
Gallagher e quelli di Damon Albarn e Co. (sisi Graham Coxon è
importante e blablabla, chissenefrega, un giorno ne parleremo).
Lo dico subito: io
parteggiavo per i Blur.
Mi sembravano più freschi
e innovativi e, al di là delle varie scopiazzature dei Gallagher (all'epoca era un
miracolo se conoscevo i Beatles), mi sembrava soprattutto che Damon
Albarn avesse il coraggio di cambiare.
Insomma, per quanto non ne
capissi veramente un cazzo, 13 pareva un album di un gruppo
completamente diverso da quello di The Great Escape (che all'epoca
adoravo) e in Think Tank il mutamento era ancora più accentuato.
Amavo i gruppi che non si
ripetevano mai (quel pazzo di Neil Young è ancora oggi uno dei miei
idoli) e gli Oasis erano l'esatto opposto.
Ascoltato il primo
incredibile Definitely Maybe mi sembrava di sentire sempre le stesse
10-12 canzoni: voce strascicata, chitarroni, ballatoni...due palle
che in Be Here Now duravano più di 70 minuti, decisamente troppo.
Poi crebbi (ah il passato
remoto che torna a galla quando leggi autori toscani...), la faida
Blur-Oasis si spense abbastanza velocemente così come era stata
montata dalla stampa britannica e io cominciai ad ascoltare
tutt'altro, fregandomene altamente dello scioglimento o quasi di
entrambi i gruppi, ma sempre attento a chi riusciva a non ripetersi.
Oggi, passati più di 10
anni, mi ritrovo a sentire per radio o nei miei raccoltoni di mp3
qualche canzone di Blur e Oasis e, pur con fastidio, devo ammettere
che i classici degli Oasis sono invecchiati meglio di quelli dei
Blur.
Si, il cambiamento, si, il
coraggio di affrontare nuove sfide e la forza di ripresentarsi con un
nuovo album in un'epoca che non è più la loro (l'ultimo The Magic
Whip datato aprile 2015), ma Wonderwall rimarrà un classico senza
tempo mentre Beetlebum può essere solo una canzone figlia degli anni
'90.
Tutto questo sproloquio
musicale-nostalgico per dire cosa?
Che forse Fabio Genovesi
qualche limite come scrittore ce l'ha.
I suoi personaggi dalla
parlata fin troppo semplice (in Esche vive era Fiorenzo, qui è
Mario), quelli troppo attaccati al Rock (ancora Fiorenzo confrontato
a Nello), quelli che finita l'università hanno perso completamente
la bussola (là Tiziana, qui Renato) e quelli che, nonostante tutto
l'autocontrollo imposto, vengono presi da passioni troppo forti
(nuovamente Tiziana confrontata a Roberta). Gli incipit nostalgici
ambientati in un passato che non è più e i finali non finali con i
personaggi lasciati a correre da soli.
Ma io non ho più 16 anni
e se tu scrittore hai uno stile immutato che ti permette di
scrivere una nuova storia dove, cambiando l'ordine degli addendi, il
risultato fantastico non cambia, beh, a me piaci comunque.
Basta che alla prossima
non mi presenti un Be Here Now.
VERSILIA ROCK CITY
ANNO: 2008
AUTORE: Fabio Genovesi
GENERE: Romanzo di
formazione (senza adolescenti)
VOTO: 8,5
Ho visto qualsiasi cazzata nei film di fantascienza.
Dagli alieni cattivi a
quelli buoni, dagli asteroidi che vengono fatti saltare per aria da
personaggi eroici a quelli che mettono finalmente fine alla vita
sulla Terra, dai cloni alle navicelle impazzite, dai viaggi nel tempo
a quelli nello spazio oltre la velocità della luce, dagli alieni che
cambiano sesso a quelli che cambiano forma e blablablabla.
Potrei andare avanti per
ore ad annoiarvi di vaccate fantascientifiche che non stanno né in
cielo né in Terra, di idee assurde che nessuna persona sana di mente
avrebbe partorito e a cui comunque sono stato dietro, sforzandomi di
calarmi nell'irrealtà della situazione pur di gustarmi quel film (o
quel libro).
Non ho mai fatto caso più
di tanto alla provata scientificità di una vicenda perché per me
non è quella a rendere importante una storia di fantascienza. Per
quale motivo avrebbero aggiunto il suffisso fanta? Dove sta la
fantasia in un libro di Arthur C. Clarke in cui ad ogni minimo
spostamento nello spazio-tempo ci si affanna a spiegare come sia
potuto scientificamente accadere? E soprattutto: a cosa serve la
sospensione dell'incredulità?
Date le premesse di cui
sopra, The Martian non avrebbe dovuto piacermi.
E invece.
E invece mi ha fatto
letteralmente cagare.
Presentato come uno dei
film fantascientifici più rigorosamente scientifici degli ultimi
anni, con budget faraonico, regista delle grandi occasioni
(nonostante Scott sia bollito da troppi anni a questa parte e chi non
ci crede si guardi Exodus- Dei e Re e stia zitto per sempre) e cast
di tutto rispetto, The Martian parte subito con il botto con una
scena iniziale che fa davvero sperare per il meglio.
C'è adrenalina, c'è una
grande fotografia e una scena vagamente confusa in cui si capisce ben
poco di cosa sta esattamente accadendo a chi, ma è tutto voluto.
Dopo la partenza della navicella da Marte (siamo nei primissimi
minuti) la vicenda comincia davvero a delinearsi e, incredibile a
dirsi, si cominciano a vedere le prime crepe: i personaggi sulla
Terra.
Non c'è uomo non
astronauta in questo film di terra rossa e patate coltivate in modo
biologico (ci arriveremo) che non vi sembrerà un'idiota o una
macchietta: c'è il supermegacapo della Nasa col tono profondo di
voce che decide tutto lui, ma si fa mettere i piedi in testa da
chiunque, c'è Boromir che per una volta non muore perché proprio
non gli è possibile morire mentre non fa nulla per tutto il film,
c'è un giappu-americano ciccione che dà sempre i tempi di consegna
del suo lavoro come se fosse un italiano, viene quindi ripreso dal
capo e si corregge dicendo che ce la farà anche nella metà della
metà del tempo perché tanto evidentemente ha licenziato gli
italiani e ha assunto dei cinesi che lavorano giorno e notte, c'è
una donna bionda che sta al computer e nota cose sugli schermi (solo
lei in mezzo a centinaia di altri subumani di cui si vedono solo i
capelli) e un nero a cui è riuscito bene il ruolo dello schiavo un
paio d'anni fa e non si sa come si è ritrovato qui a fare il
direttore della missione su Marte che però, ancora troppo preso dal
ruolo dello schiavo, si diverte ad avere illuminazioni e
scarabocchiare quadri del pianeta rosso che trova in giro per gli
uffici.
E L'Oscar per chi sta meglio seduto con la bocca aperta va a....
E poi c'è lui: il nero
simpatico.
Quello che se fossimo
stati negli anni '80 di sicuro ci trovavi Eddie Murphy a ridere come un semo, ma siccome siamo nel 2015 e ai neri simpatici nei film non ci
crede più neanche Eddy Murphy stesso, ci hanno messo uno qualsiasi
di cui non voglio neanche andare a vedere il nome, lo chiameremo nero
simpatico.
Si da il caso che da
qualche anno a questa parte vadano di moda i nerd, non che abbia
qualcosa in contrario per carità, io lo sono fin troppo, ma la cosa
sembra ormai un po' sfuggita di mano: dalla moda alle serie tv tutto
è simpaticamente ed insopportabilmente nerd.
Quindi il nero simpatico è
anche nerd, ma essendo un nero simpatico è anche strafatto (di
caffeina o altro, non lo sapremo mai con esattezza) e alla prima
occasione lo vediamo entrare in scena come i peggiori personaggi dei
più brutti film di fantascienza anni '90 che vi vengono in mente. Il
nero simpatico dorme, inciampa, si mette al computer, beve il caffè,
finisce il caffè, vuole altro caffè, inciampa di nuovo, cade, si
mette al supercomputerone della Nasa che è proprio proprio grande
grande e con un portatile risolve un problema incredibile che
migliaia di Nasisti erano ormai con le cervella fuse a forza di
ragionarci. Non contento va dal capo che ha la voce sempre più
grossa, lo piglia per il culo e con un bicchiere vuoto gli dimostra
la sua grande teoria a cui nessuno è arrivato nel giro di mesi e
mesi. Ovviamente tutto in simpatia tra versi insopportabili e
scenette che neanche Benny Hill all'ospizio.
Oh si è nerd, guardate quanto è nerd quando si mette in piedi sul letto con la scala per andare a scarabocchiare là in alto! ed è pure scientifico, lo scrive pure... SCIENCE!
Ma ritorniamo su
Marte.
A milioni di chilometri di
distanza e a un'ora circa dalle vicende del nero simpatico (che
grazie a Dio compare solo dopo la prima metà del film), dove ci sarà
sempre e solo Matt Damon, un botanico astronauta della Nasa.
Un botanico.
Matt Damon si estrae del
metallo dalla pancia e si cuce, Matt Damon mangia e ragiona, Matt
Damon disseppelisce vecchie navicelle spaziali, Matt Damon costruisce
cose, Matt Damon guida, caga e dorme, Matt Damon ha le intuizioni e
Matt Damon crea l'acqua. Poi non contento Matt Damon trova delle
patate sottovuoto lasciate lì per il giorno del Ringraziamento
(boh...), le pianta, ci mette della cacca umana liofilizzata come
concime e le fa crescere.
Nel frattempo Matt Damon
(lo chiameremo d'ora in poi McGyver perché mi sembra più giusto)
ascolta dell'orrenda discomusic e non si perde mai d'animo nemmeno
nelle sfighe più tremende, arrivando ad urlare per ben tre volte
“God” quando qualcosa andrà talmente storto da esser ormai più
di là che di qua.
Quindi Santo McGyver si
riprende dalla batosta perché lui è un vero americano intelligente
che risolve tutto con il suo megacervello (altro che computer Nasa e
neri simpatici) e riesce, con una superdieta a base di caccapatate e
medicine come condimento, ad andare avanti ancora per un'altra ora di
film.
E gli astronauti ex
compagni di Mc? No, non me li sono dimenticati.
Gli amici stronzi che lo
hanno abbandonato per sbaglio hanno una parte fondamentale nel film e
incredibilmente paiono anche i personaggi meglio scritti dell'intera
sceneggiatura: parlano come persone dotate di un cervello, si muovono
senza inciampare e ragionano quasi normalmente. Tolto un momento di
follia generale in cui la canzone Starman di David Bowie dà il via
ad una serie di scenette dementi riguardanti l'intero cast (mi vedo
anche Scott divertito mentre si mangia le caccole nascondendosi
dietro la camera mentre a me viene un ictus per la rabbia), i
loro rimangono i momenti migliori di un film che fa della
scientificità e dell'umorismo di merda il suo punto forte.
Non mancheranno poi:
personaggi dalla voce
profonda che dicono guardando in camera: “a meno che qualcosa non
vada storto”, cambio scena e disastro totale;
Computer con lo
schermo spesso mezzo metro al servizio della Nasa;
Michael Peña, insopportabile anche se interpretasse un personaggio muto;
Cinesi con segreti
militari che, dopo 10 secondi di indecisione, ostentano il loro
“volemose bene” come neanche la Ferilli quando pubblicizza i
divani;
finali con gente che
vola come Iron Man.
The Martian vorrebbe
mettere l'intelligenza umana e il ragionamento davanti a quel
coraggio e quell'eroismo insano alla base di tutti i capisaldi della
fantascienza degli anni '90 (Indipendence Day, tanto per dirne uno) e
finisce per sembrare invece un Armageddon fuori tempo massimo, con
situazioni e personaggi tipicamente Novantiani che fanno da sfondo a
un McGyver dello spazio, come non se ne vedevano da S.O.S. Naufragio
nello spazio del 1964.
E insomma si, The Martian mi ha fatto veramente cagare.
E il problema è che non ho nemmeno le patate da coltivare.
THE MARTIAN –
SOPRAVVISSUTO_THE MARTIAN
REGIA: Ridley Scott
ANNO: 2015
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4,5