"EVEREEEEEEEEEEEST"
Negli anni ho accumulato
così tanti progetti di recensioni folli legate ad un solo argomento,
un solo autore, un solo genere, che oggi, davanti alla pagina bianca
di word, mi spaventa dover ammettere che si, dopo innumerevoli
tentativi, ne ho concluso uno. “Leggerò e vedrò tutto quel che
riguarda il disastro del 1996 sull'Everest edito in Italia”, me lo
ripetevo continuamente mentre scorrevano i titoli di coda di
“Everest”, nel settembre del 2015, folgorato come un San Paolo qualsiasi sulla
via di Damasco (solo che io a Damasco non ci stavo andando e il
massimo a cui aspirassi in quel momento era il letto di casa).
Si, sono stato aiutato dal
kolossal con protagonista Gyllenhall e soci che ha riportato in
libreria, come spesso accade con le uscite Hollywoodiane, libri che
non andavano in stampa ormai da più di 10 anni (è il caso di
"Everest, io c'ero" di Lene Gammelgaard), ma non è stato
facile credetemi.
“Lo sherpa” di Jamling
Tenzing Norgay, tanto per dirne uno, è fuori commercio da almeno un paio di lustri e la biografia di Scott Fischer, Mountain Madness, edita
dalla piccola Alpine Studio, così come “Everest 1996, Cronaca di
un salvataggio impossibile”, pubblicato da Vivalda editori non sono
esattamente bestseller da trovare in una qualsiasi Feltrinelli.
Aperta parentesi: l'ultimo libro citato è apparso in edicola con mesi di ritardo sull'uscita del film e sulle mie ricerche estenuanti provocandomi un quasi esaurimento nervoso quando l'edicolante mi ha chiesto se volevo quel libricino di cui gli avevano spedito inspiegabilmente quattro copie. Chiusa parentesi.
Aperta parentesi: l'ultimo libro citato è apparso in edicola con mesi di ritardo sull'uscita del film e sulle mie ricerche estenuanti provocandomi un quasi esaurimento nervoso quando l'edicolante mi ha chiesto se volevo quel libricino di cui gli avevano spedito inspiegabilmente quattro copie. Chiusa parentesi.
Considerate poi che un
film come "Terrore sull'Everest", primo e unico vero
adattamento cinematografico (in realtà film tv) di "Into Thin
Air" di Jon Krakauer datato 1998, è quasi introvabile in
italiano (a meno che non vogliate vederlo su Youtube...), mentre il
documentario IMAX “Everest”, anch'esso del 1998, è recuperabile
solo con sottotitoli da cercare accuratamente nel mare internettiano.
Insomma ci sono ricerche
ben più difficili e anche cose ben più importanti nella vita, me ne
rendo conto, ma lasciatemelo dire una volta sola e poi non se ne
parla più: sono orgoglioso di me stesso e della mia monomaniacale
impresa.
PS: le recensioni sono nell'ordine di lettura che ho seguito io, che non è per forza quello esatto o consigliato.
UN BREVISSIMO RESOCONTO DELLA VICENDA
Il gruppo Mountain Madness con in basso a sinistra Scott Fischer
Il Gruppo Adventure Consultants con in prima fila i defunti Doug Hansen (primo sulla sinistra), Andy Harris (al centro con cappellino bianco e tuta blu), Rob Hall (inconfondibile tuta viola) e Yasuko Namba (ultima sulla destra)
Nel maggio del 1996,
all'alba delle prime vere e proprie spedizioni commerciali che
promettevano di portare in vetta anche semianalfabeti
dell'arrampicata, due spedizioni di questo tipo (la Adventure
Consultants di Rob Hall e la Mountain Madness di Scott Fischer) più
altri gruppi minori di professionisti si ritrovarono a scalare
contemporaneamente l'Everest dalla facciata Sud.
Il 10 maggio 1996, nel
corso dell'ascensione alla vetta dal campo IV, l'affollamento e i
fraintendimenti tra gli sherpa delle due spedizioni provocarono un
enorme ingorgo nei pressi del passaggio più delicato, chiamato
Hillary Step; il fatto, unito alla scarsa preparazione di alcuni
clienti, fece ritardare la salita a buona parte del gruppo, che fu
colto da una tempesta durante la discesa. Tra il 10 e l'11 maggio del
1996 sulla facciata Sud dell'Everest morirono 5 persone (a cui si
sommano normalmente il membro della spedizione Taiwanese Chen Yu Nan
morto il 9 maggio e i tre militari indiani morti sulla facciata Nord)
per motivi diversi:
- Rob Hall: assideramento durante la discesa, ritardata a causa della perdita di coscienza dell'ultimo cliente ad arrivare in vetta con un ritardo di due ore sul programma, Doug Hansen;
- Doug Hansen: perdita di coscienza e conseguente caduta;
- Andrew Harris: seconda guida del gruppo di Rob Hall, tenta il salvataggio di quest'ultimo, ma muore nel tentativo (riesce comunque ad arrivare a Rob prima di cadere nell'incoscienza e precipitare);
- Scott Fischer: possibile embolia cerebrale durante la discesa;
- Yasuko Namba: assideramento durante la discesa dopo essersi persa nella tormenta insieme a Neil Beidleman, Klev Schoening, Charlotte Fox, Tim Madsen, Sandy Hill Pittman, Lene Gammelgaard, Mike Groom e Beck Weathers.
Sulla wikipedia inglese
potete tranquillamente trovare informazioni più dettagliate, ma
credo che per comprendere tutto ciò di cui parlo nelle recensioni
seguenti possa bastare questo breve riassunto.
ARIA SOTTILE
Lo scritto di Jon Krakauer
è il vero punto di partenza. Nonostante la mia fissa sia iniziata
con il film di Kormàkur, ciò che ha dato il La a tutta questa serie
di saggi-film-documentari è stato il libro-reportage dell'autore
alpinista americano che nel 1996 faceva parte della Adventure Consultants guidata da Rob Hall. Il Nostro scalava come inviato di Outside, rivista alpinistica per la quale
avrebbe dovuto scrivere un articolo sulla nascita delle spedizioni
commerciali sull'Everest.
Al di là degli infiniti dettagli pre-partenza per l'Himalaya ciò che conta qui è:
com'è Into Thin Air?
Il libro di Krakauer è
sicuramente il migliore del lotto preso in esame.
Sarebbe stato facile
riportare semplicemente le proprie esperienze personali su carta (come fecero
pressoché tutti i sopravvissuti), ma Jon provò con Into Thin Air a
far chiarezza su quella che all'epoca fu la più grande tragedia
avvenuta sulla montagna più alta del mondo.
La cosa gli costò
pericolose antipatie personali e accuse di vario tipo, non sempre a
torto, ma lo scrittore dell'Oregon ha sempre difeso con le unghie e
con i denti il suo grande lavoro di ricerca teso a dare un senso a
quelle morti che anni dopo pesavano ancora sui suoi ricordi e sulla
sua coscienza (leggendo capirete bene il motivo).
La semplice domanda
iniziale posta ai vari scalatori: “Perché volete scalare
l'Everest?” mostra una serie di risposte che all'autore sembrano
non andare giù in nessuno modo convincendolo, ancor prima dell'evento tragico, che le spedizioni commerciali abbiano qualcosa di intrinsecamente sbagliato.
Motivazioni nulle,
strumenti inadatti, tempi ristretti e clienti, troppi clienti, impreparati. Per
Krakauer i nove morti del 10-11 maggio 1996 non ebbero una sola causa
e nel suo saggio avvincente come un romanzo si sente tutta
la nostra impotenza di fronte ad una natura troppo grande per
essere imbrigliata in programmi di scalata e stupide frenesie da
piccolo uomo incapace di accettare i propri limiti.
PREGI: Si fa leggere come uno stupendo romanzo d'avventura e allo stesso tempo fornisce tutti i dati raccolti per provare a fare chiarezza sulla vicenda.
DIFETTI: A volte Krakauer si fa trascinare dall'esperienza personale al punto da dare giudizi troppo personali su alcuni dei partecipanti, così come in Into The Wild dell'anno precedente, succedeva con le scelte di McCandless. É il caso di Anatolij Bukreev, scalatore ben più affermato, che viene in un qualche modo incolpato per certe scelte troppo azzardate che avrebbero contribuito alla tragedia.
L'altro giudizio troppo di parte riguarda le spedizioni commerciali, evidentemente osteggiante da Jon fin dalle prime pagine, nonostante la meravigliosa sensazione di trovarsi lì in quel momento proprio grazie ad esse. Insomma effetto Jurassic Park- Alan Grant, Ellie Sattler: grazie per averci regalato questo sogno, ma c'è qualcosa che non va.
INTO THIN AIR- ARIA SOTTILE
ANNO: 1997
AUTORE: Jon Krakauer
GENERE: Saggio
VOTO: 8,5
EVEREST 1996, CRONACA DI UN SALVATAGGIO IMPOSSIBILE
Il libro di Anatolij
Bukreev, scritto in collaborazione con Gary Weston DeWalt (regista e
scrittore) per la poca padronanza dell'inglese da parte
dell'alpinista Kazako, è il secondo e più importante passo per
capirci qualcosa dell'intera vicenda.
Il saggio nasce
esplicitamente come risposta ad Aria Sottile che, come accennato,
faceva rientrare Anatolij Bukreev tra i colpevoli dell'intero
disastro.
Chiariamo subito una cosa
che molti tralasciano: Krakauer non accusa Bukreev di essere l'unico
colpevole e in almeno due occasioni ricorda che senza l'intervento
dello scalatore russo i morti sarebbero stati molti di più. Detto
questo è vero che lo scrittore americano, non potendo prendersela
più di tanto con le guide morte e i relativi clienti, trova in
Anatolij uno dei pochi veri responsabili sopravvissuti.
E in cosa consiste la
colpa? Essenzialmente nel non aver voluto scalare l'Everest con
l'ossigeno, scelta che ha portato di conseguenza la veloce ascesa e
discesa di Bukreev dalla cima e quindi il non aver seguito da vicino
i clienti della sua spedizione (tra cui, bisogna ricordare, non c'è
stato un solo morto ad eccezione della guida Scott Fischer).
Ma la domanda è sempre la
stessa: com'è Everest 1996?
Detto in una parola è
noioso.
Il libro di Anatolij è
una continua, imperterrita, infinita risposta al libro di Krakauer,
una giustificazione qui e una giustificazione là, un “Mi dissero
di far così” e “Mi dissero di far cosà” che alla centesima
pagina comincia a diventare a dir poco ripetitivo.
Incredibilmente (o forse
giustamente) anche la parte più attesa, quella del “salvataggio
impossibile”, è resa dallo scalatore sovietico come un “andava
fatto così”, che ci svela per un secondo la pasta di cui era fatto
questo superuomo delle montagne (andatevi pure a leggere le
biografie su internet se volete sapere quanto era considerato come
alpinista a livello internazionale).
A differenza di Into Thin
Air, Everest 1996 manca della ricerca giornalistica esaustiva di
Krakauer e il libro sembra risentirne nel momento in cui Bukreev
cerca di difendersi dalle accuse riportando le conversazioni avute
con Scott Fischer di cui egli è il solo e unico testimone.
A partire da questo libro
si scatenò una diatriba tra Krakauer e Gary Weston DeWalt (Bukreev
morì nel dicembre 1997 durante una scalata sull'Annapurna, pochi
mesi dopo l'uscita di “Everest 1996”) che continua assurdamente
ancora oggi. Ai due saggi sono stati aggiunti negli anni, con sprezzo
del ridicolo, postfazioni e postpostfazioni in cui gli autori si
rispondono a colpi di “Io ho le prove” e “Io ne ho di più” e
la cosa sembra aver avuto una nuova sferzata di energia con l'uscita
del film Everest per cui Krakauer ha deciso bene di commentare con il
solo: “Non è andata così, Anatolij non ha fatto questo e quello
blablabla”.
Della serie: non sappiamo
quando fermarci.
PREGI: Fornisce un punto di vista diverso sull'intera vicenda, quello di uno scalatore professionista che vede il mestiere della guida non come un babysitter capace di portare il cliente sulla cima della montagna passo passo, ma come un allenatore in grado di spronare e aiutare nei momenti di vero bisogno, facendo capire che se non ce la si fa da soli, non si è adatti. L'intera vicenda ha anche un lato sentimentale molto più sentito dato che la disperazione e il senso di colpa per la morte dell'amico Scott Fischer da parte di Anatolij traspare da ogni pagina.
DIFETTI: Rispetto al libro di Krakauer è scritto in modo approssimativo e ripetitivo.
THE CLIMB: TRAGIC AMBITIONS ON EVEREST- EVEREST 1996: CRONACA DI UN SALVATAGGIO IMPOSSIBILE
ANNO: 1997
AUTORE: Anatolij Bukreev;
Gary Weston DeWalt
GENERE: Saggio
VOTO: 5,5
A UN SOFFIO DALLA FINE
Il libro di Beck Weathers,
scritto insieme a Stephen G. Michaud, è sicuramente quello che si
differenzia maggiormente da tutti gli altri per quello di cui si
parla.
Nonostante il titolo
(quello italiano, che quello inglese è ovviamente diverso) “A un
soffio dalla fine” parla ben poco della tragedia sull'Everest del
1996: sono scarse le pagine dedicate alla “resurrezione” di Beck
e le uniche inedite riguardano la notte d'inferno successiva al suo
salvataggio, abbandonato, nuovamente, come un morto all'interno di
una tenda nel bel mezzo della tempesta.
Per il resto Beck Weathers
ci presenta qui la sua sincera autobiografia, con alcuni interventi
scritti della moglie e un ottimismo sul futuro che sembra tanto
dettato da una forte processo di psicoanalisi.
La depressione, il
tentativo di sconfiggerla con la montagna e con prove fisiche sempre
più azzardate, l'allontanamento dalla famiglia, il dramma
dell'Everest e il ritorno ad una sorta di normalità senza un
braccio, il naso e gran parte delle dita dell'altra mano.
La parte più interessante
è sicuramente quella riguardante le avventure di Beck precedenti
all'Everest: è l'unico libro che ci presenta le grandi escursioni
guidate (tanto disprezzate da Krakauer, Bukreev e più recentemente anche dal famoso alpinista Simone Moro che le ha accusate di trasformare l'Everest in un'immensa Gardaland) dal punto di vista
di un cliente “normale”, come potremmo essere noi un domani.
Beck Weathers nel corso di
non troppe pagine ammette le sue fragilità, i suoi errori e il ruolo
fondamentale della moglie Peach in tutta la sua vita e nella sua "seconda nascita" (così la definisce egli stesso), senza dimenticare un ringraziamento infinito al pilota
colonnello Madan K.C. che all'epoca effettuò il salvataggio in
elicottero alla più alta quota mai raggiunta.
Insomma una buona
autobiografia di una persona piuttosto media sconvolta da un unico
grande evento troppo grande per essere raccontato.
PREGI: Brevità e punto di vista di un cliente delle grandi spedizioni commerciali.
DIFETTI: Non c'è quasi nulla sulla vicenda dell'Everest nel 1996
LEFT FOR DEAD. MY JOURNEY HOME FROM EVEREST- A UN SOFFIO DALLA FINE
ANNO: 2000
AUTORE: Beck Weathers &
Stephen G. Michaud
GENERE: Autobiografia
VOTO: 6
EVEREST, IO C'ERO o IL MIO EVEREST
Mentre leggevo “Everest, io c'ero” riuscivo a chiedermi solo una cosa: questa donna fa la motivatrice?
E se si, che cazzo sto
leggendo in questo momento? Un resoconto della tragedia dell'Everest
nel 1996 o un libro su come affrontare le avversità secondo un suo
metodo personale (uguale a quello di millemila altri, ma che poi
sicuramente lei ti dirà che solo il suo blablablabla).
Il libro di Lene
Gammelgaard non è scritto male sia chiaro.
E, tra le altre cose,
racconta nel dettaglio come sia riuscito a sopravvivere il numeroso
gruppo disperso per un'intera notte durante la discesa dalla vetta.
Si parla di persone
abbracciate durante la tormenta per tenersi calde, di tentativi più
o meno riusciti per rimanere svegli e non crollare in un sonno fatale
e di una tormenta di neve e gelo che in nessun libro letto è resa
così bene.
E prima di tutto ciò Lene
Gammelgaard è una delle pochissime a parlarci degli sherpa (l'altro
è proprio uno sherpa, ma lo vedremo più avanti) del loro enorme
valore per gli scalatori, delle loro pratiche religiose e dell'uomo
bianco che, per la prima volta, viene qui rappresentato con tutti i
suoi difetti di arroganza e supponenza.
Scritto come un diario,
“Everest, io c'ero”, non è giornalisticamente preciso come Aria
Sottile e nemmeno religioso come lo sarà Lo Sherpa, ma mette al
centro della vicenda una donna forte che sembra riuscire a dar forza
a tutti quelli che la circondano.
E la risposta è che si,
oggi Lene Gammelgaard fa la motivatrice (oltre che la
psicoterapeuta).
PREGI: Il punto di vista della vicenda rispetto a Krakauer è molto più umano, capace di mostrare le debolezze dell'uomo bianco e tutte le sue arroganti imprudenze.
DIFETTI: Lene Gammelgaard scrive come una mental coach della peggior specie (Roberto Re docet). Ci parla dei suoi mantra per affrontare la montagna e vincere e, non contenta, si dipinge come una sorta di fricchettona che si diverte a girare per il mondo in cerca di avventure. Insomma va bene tutto, ma sembra di leggere di un'universitaria torinese con la frangetta in gita in Nepal.
CLIMBING HIGH. A WOMAN'S ACCOUNT ON SURVIVING THE EVEREST TRAGEDY- EVEREST IO C'ERO
ANNO: 1999
AUTORE: Lene Gammelgaard
GENERE: Saggio
VOTO: 6
MOUNTAIN MADNESS
Se ci fosse un premio “miglior sorpresa del blocco Everest 1996” (cosa che evidentemente non c'è ed esiste solo nella mia mente bacata), andrebbe sicuramente a Mountain Madness.
Trovato per puro caso
nello scaffale sportivo di una nota catena di librerie a metà del
suo prezzo, Mountain Madness è la biografia di Scott Fischer, una
delle due guide principali per le spedizioni di cui si parla ormai da
troppe righe in questa megarecensione.
Scritta in modo piacevole
e suddivisa per grandi episodi nella vita dello scalatore
statunitense, è la biografia che ognuno vorrebbe vedere scritta per
sé alla propria morte (ma anche prima, che se no fai la fine di Niccolò Fabi in "Rosso").
La penna è quella di un
amico che senza dubbio tende a lodare troppo vizi e virtù di un
Ammericano con la A maiuscola (energia, voglia di arrivare,
spregiudicatezza blablabla), ma capace di trasmettere davvero quella
voglia di vivere e di coinvolgere tutti che Scott Fischer possedeva.
É vero, come si legge da
più parti su internet, che la morte di Scott può essere presa solo
come una diretta conseguenza della sua incoscienza che l'ha portato
più di una volta a rischiare la vita, ma come scrive anche Lene
Gammelgaard nel suo libro, era ovvio che Fischer morisse in montagna,
sfortuna vuole che fosse proprio durante quella spedizione.
La biografia di Scott è
di quelle da raccontare ai propri figli, completamente diversa da
quella di un uomo medio come Beck Weathers (quale lui stesso si
definisce), piena di avventura, di azzardi, di rischi non sempre
completamente ripagati e in definitiva piena.
L'uomo che appare dipinto
in tutti gli altri libri come un coglione pieno di sé (tranne che da
Lene Gammelgaard che ne fa un ritratto da innamorata), è qui un
avventuriero capace di sorridere di fronte ad ogni avversità, un
esperto alpinista che è diventato tale grazie ad una serie di cadute
e infortuni che avrebbero steso a terra anche un elefante e
soprattutto un uomo nato per scalare le montagne che non ha fatto
altro nella vita che seguire il suo istinto e non arrendersi di
fronte a nulla.
PREGI: La biografia è scritta incredibilmente bene e l'edizione italiana merita anche solo per l'impaginazione elegante e la cura nei piccoli dettagli. É anche l'unico libro dei sei ad essere realmente emozionante.
DIFETTI: Birkby a volte si fa prendere la mano e sorvola su alcuni difetti di Scott, etichettandoli come semplici lati del suo carattere. Un unico capitolo è dedicato alla tragedia del 1996 e vive, per forza di cose, di ricordi e documentazioni altrui, non essendo l'autore presente al momento della scalata.
MOUNTAIN MADNESS, SCOTT FISCHER, MONT EVEREST & A LIFE LIVED ON HIGH- MOUNTAIN MADNESS
AUTORE: Robert Birkby
GENERE: Biografia
VOTO: 8
“Lo sherpa” è
l'ultimo libro di cui sono venuto in possesso (ne ho trovata una
copia usata dopo estenuanti ricerche dato che è fuori catalogo) ed è
anche il più particolare del lotto.
Nonostante in Italia venga
presentato come il racconto del capo degli Sherpa della spedizione
del 1996, il saggio di Norgay ha poco a vedere con la stessa, dato
che lo sherpa non è stato coinvolto direttamente nella tragedia.
Semplicemente, senza andare a scomodare la solita storia che potete
trovare riassunta nell'incipit, Tenzing si trovava sull'Everest con
una terza spedizione nello stesso momento in cui i gruppi di Rob Hall
e Scott Fischer decisero di attaccare la vetta. Questo portò
inevitabilmente al coinvolgimento del gruppo di Tenzing, sulla
montagna per filmare un documentario per la IMAX, che si diede da
fare in ogni modo per le operazioni di salvataggio.
La realtà, quella non
scritta sulla copertina strillante de Lo Sherpa, è che il libro
parla di tutt'altro.
Racconta la storia di
Jamling Tenzing Norgay, figlio del famoso Tenzing Norgay che nel 1953
scalò per primo la vetta dell'Everest con lo scalatore Edmund
Hillary, della sua voglia di ripetere le gesta del padre, della sua
prima e unica avventura sul Sagaramatha (il nome nepalese
dell'Everest) e del suo riavvicinamento alla religione buddista.
Nato in Nepal, ma laureato
negli Stati Uniti, Norgay si presenta all'inizio del libro come un
orientale che ha perso molto dei suoi usi e costumi e che, durante la
vicenda, cercherà di riappropriarsene poco alla volta, anche senza
volerlo.
“Lo Sherpa” parla
molto di religione buddista, cosa di cui ammetto sapevo ben poco e
molto poco degli aspetti tecnici della scalata a cui si preferiscono
brevi racconti su momenti religiosamente fondamentali.
Ci sono le profezie
infauste, i comportamenti blasfemi dell'uomo bianco sulla montagna
sacra (qui vengono a galla atteggiamenti a dir poco discutibili delle
compagnie di Rob Hall e Scott Fischer a cui stranamente nessun altro
fa riferimento) e il lento riavvicinarsi di Norgay allo spirito di
suo padre e alla sua religione d'origine.
I capitoli sono sempre
divisi a metà con un interessante parallelo tra la scalata di
Jamling e quella, molto più difficoltosa e interessante, del padre.
Non è un libro
avventuroso e nemmeno un preciso reportage giornalistico, nel mezzo
si impantana in una serie di descrizioni e precisazioni buddiste di
cui si potrebbe fare anche a meno (anche perché ci sono non poche
ripetizioni degli stessi concetti), ma “Lo sherpa” fornisce un
punto di vista più sincero e meno occidentale di quello che
significavano le spedizioni commerciali nel 1996 e di quella che fu
una delle più grandi imprese nel 1953, quella scalata del monte
Everest che ad oggi, dopo 50 anni di scalate e su 7 miliardi di persone, è riuscita solo a 4000 superumani.
TOUCHING MY FATHER'S SOUL: A SHERPA'S JOURNEY TO THE TOP OF EVEREST- LO SHERPA
ANNO: 2001
AUTORE: Jamling Tenzing
Norgay & Broughton Coburn
GENERE: saggio
VOTO: 6,5
Sulla cima dell'Everest è
il classico raccoltone Newton Compton con dentro di tutto un po'.
In realtà mi sono
limitato a leggere la lunga introduzione e le parti riguardanti il
disastro del 1996 tra cui i due racconti di Anatoli Boukreev e Beck
Weathers (niente di nuovo che non avessi visto nei loro libri) e
l'inedito “Incubo” di Matt Dickinson.
Per tutto il resto ci sarà
tempo e modo (ho già un'idea di quando leggerlo e come accorparlo ad
un altro libro sull'Everest).
Di Matt Dickinson esiste
un libro non tradotto in italiano che racconta per intero la sua
vicenda e che ho disperatamente cercato di recuperare fino a che non
ho compreso, grazie al racconto in questione, che il suo saggio
riguarda la facciata Nord dell'Everest, quella in cui, nello stesso
tragico giorno della scomparsa di Fischer e di altre 5 persone,
morirono 3 scalatori.
Altra facciata, altro
disastro. Sarà per un altra volta.
In ogni caso il breve
racconto di Dickinson racconta uno dei momenti di estrema difficoltà
durante la scalata e non è affatto male per come rende la tensione
della situazione.
THE MAMMOTH BOOK OF EVEREST- SULLA CIMA DELL'EVEREST
ANNO: 2015
AUTORE: Curato da Jon E. Lewis
GENERE: saggio
VOTO: n.d.Continua...
1 commento:
Ciao!
oltre ai libri "dedicati" all'argomento Everest e tragedia del 1996 è interessante leggere anche il commento di Ed Viestrus, noto scalatore statunitense ( molto forte per la verità, compagno di scalate sia Hall che di Fischer e loro amico, il primo americano a scalare tutti e 14 gli ottomila e senza ossigeno). Nel 1996 si trovava anche lui sulla montagna, nella squadra IMAX di Breashears, come attore e scalatore nel documentario che la squadra stava realizzando, e ha partecipato alla operazioni di aiuto dei superstiti, come raccontato da Krakauer nel suo libro.
Viestrus ne parla dettagliatamente nel suo libro "In vetta senza scorciatoie", e nel libro che dedica all'Annapurna (l'ultimo ottomila che ha conquistato) "La montagna più difficile" parla diffusamente di Anatolij Bukreev (Bukreev morì proprio sull'Annapurna, durante il tentativo di scalata invernale con Simone Moro il 25 dicembre del 1997). Per conoscere veramente e bene lo scalatore kazako Viestrus consiglia di leggere il libro "Above the clouds" (al momento non mi ricordo come è stato tradotto in italiano). A differenza di The climb , questo è stato scritto postumo dalla fidanzata di Bukreev, sulla base dei diari dello scalatore. Secondo Viestrus il libro di DeWalt presenta diversi limiti: il fatto che De Walt non fosse uno scalatore esperto e, soprattutto, che fra i due ci fosse un'importante barriera linguistica, in quanto Bukreev non parlava bene l'inglese e De Walt non conosceva il russo, per cui a volte secondo Viestrus nel libro The climb alla fine emerge una caricatura di Bukreev, come uno scalatore fortissimo, ma insensibile e incapace di esprimersi. In Above the cloud invece emerge l'aspetto più umano e sensibile di Bukreev, poetico anche ("Le montagne non sono un campo sportivo nel quale soddisfo le mie ambizioni. Sono cattedrali in cui pratico la mia fede"). Allo stesso modo anche Moro nel suo libro dà un'immagine del tutto diversa dello scalatore kazako da quella dipinta da Krakauer. Insomma... .. tutto questo per dire che volendo si può allargare ancora di più la tua maratona speciale sull'Everest e i fatti del 1996. Intanto ringrazio per preziosa segnalazione del libro su Fischer che sto cercando perché sono molto curiosa di leggere. Personaggio per me "magnetico" fin dalla lettura (ormai di 15 anni fa ) di Aria Sottile. (condivido opinione sul libro della Gammelgard .... che du palle questa motivatrice!! superbo invece l'aspetto spirituale di "Lo sherpa"). Complimenti per l'egregio lavoro svolto!!! Ora passo a leggere la sezione sui film ! (per me processo inverso: sempre diffidato dei film ho letto molto.... di recente ho visto in DVD Everest e di lì ho cercato il film IMAX ). Alessia
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