Questa recensione è stata scritta il 28 settembre 2011 e rivista completamente il 29 dicembre 2015
Avete presente
quei pasticci disegnati dai bimbi troppo piccoli pieni di righe,
pastelli, pennarelli, macchie, buchi e caccole?
C’è un fico
d’india immenso che ha conquistato la Terra.
Gli umani sono alti
35 cm.
I vulcani ipnotizzano gli esseri viventi e li
mangiano.
Enormi vegetali viaggiano per lo spazio su ancor più
grandi ragnatele.
Le piante sono tutte assassine.
La spiaggia è
Terra di Nessuno.
Nella Terra del Crepuscolo un pesce gigante è
il più grande saggio del mondo.
Esistono uomini pescatori
collegati con una coda a palme imponenti.
I vegetali hanno forma
di volatili.
La luna è piena d’ossigeno.
Le megatermiti sono
amiche degli umani.
Ci sono fiori giganteschi che si uniscono e
attraversano i mari per migrare.
I gatti vivono con le megatermiti
in un tunnel sotto un castello in rovina.
È abbastanza per
stimolare la vostra curiosità?
Sinceramente sono ancora un po’
stordito da questo “Il lungo meriggio della Terra”, Brian W.
Aldiss ci è o ci fa?
E Asimov con tutta la sua psicostoria, i
suoi imperi galattici, le sue città super evolute e i robot che fine
ha fatto?
Tutto buttato nel cesso.
Tra 4 miliardi e mezzo
d’anni (tanto ci impiegherà ancora il sole ad avvicinarsi alla sua
fine) saremo solo inutili cacchette (quasi) senza cervello alte
qualche pollice destinate a farci comandare da un fungo.
Che
tristezza.
O no?
Mah.
PS: Al di là
dei vari esseri giganteschi, enormi, imponenti ed immensi, il libro
risente della sua originale pubblicazione in 5 puntate con diverse
ripetizioni e altrettante contraddizioni da parte di Aldiss, che ci
mette pure del suo con una prosa a dir poco discutibile e diversi
interventi in prima persona per provare a spiegare ciò che sta
raccontando.
La copertina
dell'edizione in possesso è tra le più ignoranti e meno sensate
che io abbia mai visto (e si che compro Urania): non centra
assolutamente nulla con ciò che viene raccontato, ma proprio niente
niente. NIENTE.
HOTHOUSE o THE LONG AFTERNOON OF EARTH- IL LUNGO MERIGGIO DELLA TERRA
ANNO:1962
AUTORE: Brian W. Aldiss
GENERE: Fantascienza
VOTO: 5
Recensioni semiserie di ogni tipo: cinema, telefilm, libri, musica e tutto quel che mi passa per le mani
martedì 29 dicembre 2015
venerdì 18 dicembre 2015
FIGLI D'ARTE
Non penso sia semplice
essere figlio d'arte.
Si è vero, le strade sono
spalancate, conosci la gente giusta , il lancio nel mondo
editoriale-musicale-filmografico è già praticamente fatto senza il
minimo sforzo e il tuo primo libro-cd-film venderà comunque un sacco
sull'onda della curiosità della gente, ma poi?
Quanto credete possa
essere facile vivere da figlio di Bob Dylan, De Sica, Camus?
Giudicati non in base alle proprie qualità come chiunque altro, ma
rispetto alla bravura dei propri genitori e parenti che sono stati
mostri sacri nel proprio campo, vincitori di tonnellate di premi che
la stampa solitamente non confronta con nessuno per troppa
inarrivabilità.
Epperò tu sei il figlio,
vorrai mica evitarti un: “Il dono della scrittura evidentemente non
si trasmette da padre a figlio”, “Negli anni '60 suo padre
rivoluzionò la musica, oggi lui a malapena la comprende”, “Sarebbe
un grande regista se si riuscisse a non pensare per un attimo a tutto
ciò che fece suo padre nell'epoca del blablablablabla”.
In un mondo ideale anche
questa recensione non inizierebbe con tutta questa premessa, si
parlerebbe del romanzo di Joe Hill, autore trentacinquenne alle prese
con la sua prima opera e della sua somiglianza con certe cose di
Stephen King degli anni '80, anzi meglio, di Richard Bachman.
La scatola a forma di
cuore non è un capolavoro, ma è il classico libro che si fa
divorare in quattro giorni assillati dalla domanda che tutti i libri
del genere dovrebbero inculcare nella testa di ogni lettore: come
andrà a finire?
Si, i protagonisti sono
macchiette (il Jude Ozzyosbournesco su tutti), la maledizione sa di
un po' troppo sentita e anche sullo stile scorrevole a volte verrebbe
voglia di discutere: manca di profondità, ma anche dell'asciuttezza
necessaria a creare tensione (quella presente in Bachman per
intenderci) e quindi?
E quindi il primo romanzo
del figlio di Stephen King (eddai fatemelo dire almeno una volta!) è
semplicemente e solamente uno scritto sufficiente, niente di
memorabile, ma neanche qualcosa per cui lo si possa accusare di
chissà quali raccomandazioni.
D'altronde, se proprio
vogliamo dirla tutta, il padre sfondò veramente il mercato solo dal
secondo romanzo in poi e lo stupendo film di De Palma (Carrie) lo
aiutò non poco a farsi conoscere dal grandissimo pubblico quindi
aspettiamo fiduciosi, convinti che il mezzo flop di un Harry Potter
con le corna sia solo un dimenticabile incidente di percorso.
HEART-SHAPED BOX- LA
SCATOLA A FORMA DI CUORE
ANNO: 2007
AUTORE: Joe Hill
GENERE: Horror
VOTO: 6
lunedì 23 novembre 2015
IL GENIO, LE IDEE
Questa recensione è stata scritta il 16 aprile 2012 e completamente rivista il 23 novembre 2015
Non smetterò mai di declamare
il mio odio per i racconti.
Certo nella mia (pur breve) carriera
di lettore ci sono stati racconti che mi hanno affascinato,
spaventato, emozionato e divertito, ma un libro di racconti, in
particolare una raccolta assolutamente eterogenea di questi (ovvero
non legati da un filo conduttore), mi ha sempre lasciato un po’ con
l’amaro in bocca.
Storie bellissime bruciate in quattro pagine,
trame ridicole non adatte ad un romanzo riciclate malamente per
riempire poco spazio, avventure inutili usate da tappabuchi.
E
così pian piano le raccolte presenti in libreria, comprate perché
ritenute assolutamente straordinarie o semplicemente scritte da un
autore amato, hanno cominciato ad assumere la medesima funzione delle
avventure inutili. Non ho voglia di scervellarmi sul romanzo da 600
pagine che sto leggendo? Racconto. Sono in macchina e ho cinque
minuti liberi in cui aspetto qualcuno? Racconto. Ho appena finito un
romanzo, non ho ancora stranamente sonno e non sono in vena di
iniziarne un altro all’una di notte? Racconto.
La mia libreria
di Anobii (il social più morto che vivo che comunque mi piace sempre più di tutte le altre vaccate del momento) dice che Sessanta racconti di Dino Buzzati l’ho iniziato
il 6 gennaio e terminato a marzo inoltrato: 3 mesi di lettura a spizzichi e bocconi per un totale
di 500 e passa pagine sono tanti, se ne
renderebbe conto anche il gorilla del Crodino, ma non sono troppi se
si considera che il libro in questione raccoglie insieme una quantità
folle di capolavori e semicapolavori che meriterebbero di esser letti
nell’arco di una vita.
Perché si, Sessanta racconti diventa
oggi (ma molto probabilmente lo era già diventato il 6 gennaio con
la lettura de “I sette messaggeri”) la mia raccolta preferita e
uno dei libri più belli che io abbia mai letto.
Il libro di
Buzzati (summa da lui composta di altre tre raccolte più un’altra
ventina di scritti) è sorpresa, spavento, meraviglia, terrore,
fascino, stile, idee, idee, idee.
Se un buon scrittore di fantascienza (lasciam perdere i mediocri) avesse oggi la metà
delle idee e dello stile di Buzzati (il libro è del 1958, ci tengo a
dirlo) sarebbe considerato un genio senza se e senza ma.
Non
voglio star qui a elencare racconti su racconti su racconti perché
molto probabilmente finirei per citarne 57-58 su 60 se non tutti
quanti, ma una semplice sbirciatina al primo (I sette messaggeri) e
all’ultimo (La corazzata Tod) dovrebbero bastare ad un lettore
medio di fantasy, fantascienza, Poe, Lovecraft ed affini a leccarsi
le dita fino a consumarsele, altro che Fonzies.
Sessanta racconti
è un capolavoro.
E io amo Dino Buzzati.
SESSANTA RACCONTI
ANNO: 1958
AUTORE: Dino Buzzati
GENERE: Racconti
VOTO: 10
Di che si parla
Buzzati Dino,
Fantasy,
Libro,
Racconti
giovedì 12 novembre 2015
GIOCHIAMO A CHI CE L'HA PIÙ LUNGO
GIANFILIPPO: La mia mamma fa un lavoro bellissimo!
SALVATORE: La mia uno ancora più bello.
GIANFILIPPO: La mia lavora alla NASA.
SALVATORE: La mia fa l'astronauta.
GIANFILIPPO: Allora la mia è andata su Marte.
SALVATORE: La mia ha visto gli alieni.
GIANFILIPPO: La mia li ha visti due volte e ci ha anche parlato.
SALVATORE (tutto rosso in viso e arrabbiatissimo): Allora la mia ci ha parlato e poi ne ha uccisi 4 e poi con il suo cannone spaziale ha distrutto tutto il pianeta ed è tornata volando senza l'astronave perché lei vola e poi ha anche catturato un cane alieno e adesso lo tengo in casa ed è verde e viola e mangia il ferro!
GIANFILIPPO:...............
Ecco immaginatevi un uomo del genere a scrivere un fantasy.
Pensatelo seduto lì alla sua scrivania che si fa venire una, due, tre, cento, mille idee e decide che il suo dev'essere un fantasy assolutamente diverso da tutto e da tutti.
Gli elfi sono buoni e pacifici e vivono nei boschi?
Bene, io li faccio cattivi, scuri, infidi, traditori e sotterranei.
Gli elfi hanno una vista eccezionale?
I miei hanno gli infrarossi quindi vedono anche al buio e comunicano per lo più a gesti.
Gli elfi sono eccellenti combattenti?
I miei sono i migliori tra i migliori, temutissimi da tutti e il mio protagonista è il non plus ultra degli Elfi Oscuri, nessuno può sconfiggere le sue eccezionali scimitarre (e io vi tedierò con le loro descrizioni imbarazzanti per tutta la durata del libro) e ha gli occhi color lavanda!
Si, COLOR LAVANDA! E adesso provate a scrivere qualcosa di meglio!
Il dilemma di Drizzt è il fantasy per eccellenza, come tutti quelli che non apprezzano il genere senza averlo mai letto se lo immaginano e come ogni appassionato di elfi, orchi, maghi e nani che ami la bella scrittura teme che possa essere: grandi idee (talvolta al limite dell'assurdo) gettate in cespugli di ortiche pieni di cacche di cane.
Il primo libro della Trilogia degli Elfi Oscuri (un'altra trilogia iniziata, voglio morire...) è talmente denso di particolari, nuove razze, nuovi mondi e storie parallele appena accennate che nelle prime 50 pagine viene davvero voglia di lanciarlo in quei cespugli, frastornato dall'incapacità di comprendere tre parole su quattro di quel che viene raccontato.
La vicenda comincia ad essere davvero chiara intorno a pagina 60 e nel giro di altre 40 pagine si è già arrivati a comprendere il finale-non finale di questa prima parte, cosa assolutamente deprecabile per qualsiasi genere ma a cui gli amanti di Brooks, Goodkind, Jordan & co. dovrebbero essere avvezzi.
Tra l'illuminazione e il finale rimangono un 200 pagine di battaglie descritte in malo modo, ripetizioni disturbanti (tanto per dire, il nome Zak viene ripetuto 20 volte in due pagine) e tanta tanta fantasia che permette al romanzo di arrivare ad una risicata sufficienza, o forse no.
Certo, se a sentire le altre recensioni questo è il migliore del lotto c'è da mettersi le mani nei capelli.
La speranza è che Salvatore (autore tra il '90 e oggi di un'altra cinquantina di libri ambientati più o meno nello stesso universo fantastico) abbia imparato qualcosa negli anni e si sa, chi vive sperando, muore nelle ortiche.
HOMELAND
ANNO: 1990
AUTORE: R.A. Salvatore
GENERE: Fantasy
VOTO: 5+
PS: Rivedendo la copertina in questo momento mi dovrei fare due domande sulla mia salute mentale il giorno in cui decisi di iniziarlo...
martedì 27 ottobre 2015
SULLA (PRESUNTA) FORZA DEL CAMBIAMENTO
Non che fosse una cosa
strana, all'epoca il mondo, l'Italia, la provincia si divideva
(abbastanza assurdamente a pensarci ora) tra i fan dei fratelli
Gallagher e quelli di Damon Albarn e Co. (sisi Graham Coxon è
importante e blablabla, chissenefrega, un giorno ne parleremo).
Lo dico subito: io
parteggiavo per i Blur.
Mi sembravano più freschi
e innovativi e, al di là delle varie scopiazzature dei Gallagher (all'epoca era un
miracolo se conoscevo i Beatles), mi sembrava soprattutto che Damon
Albarn avesse il coraggio di cambiare.
Insomma, per quanto non ne
capissi veramente un cazzo, 13 pareva un album di un gruppo
completamente diverso da quello di The Great Escape (che all'epoca
adoravo) e in Think Tank il mutamento era ancora più accentuato.
Amavo i gruppi che non si
ripetevano mai (quel pazzo di Neil Young è ancora oggi uno dei miei
idoli) e gli Oasis erano l'esatto opposto.
Ascoltato il primo
incredibile Definitely Maybe mi sembrava di sentire sempre le stesse
10-12 canzoni: voce strascicata, chitarroni, ballatoni...due palle
che in Be Here Now duravano più di 70 minuti, decisamente troppo.
Poi crebbi (ah il passato
remoto che torna a galla quando leggi autori toscani...), la faida
Blur-Oasis si spense abbastanza velocemente così come era stata
montata dalla stampa britannica e io cominciai ad ascoltare
tutt'altro, fregandomene altamente dello scioglimento o quasi di
entrambi i gruppi, ma sempre attento a chi riusciva a non ripetersi.
Oggi, passati più di 10
anni, mi ritrovo a sentire per radio o nei miei raccoltoni di mp3
qualche canzone di Blur e Oasis e, pur con fastidio, devo ammettere
che i classici degli Oasis sono invecchiati meglio di quelli dei
Blur.
Si, il cambiamento, si, il
coraggio di affrontare nuove sfide e la forza di ripresentarsi con un
nuovo album in un'epoca che non è più la loro (l'ultimo The Magic
Whip datato aprile 2015), ma Wonderwall rimarrà un classico senza
tempo mentre Beetlebum può essere solo una canzone figlia degli anni
'90.
Tutto questo sproloquio
musicale-nostalgico per dire cosa?
Che forse Fabio Genovesi
qualche limite come scrittore ce l'ha.
I suoi personaggi dalla
parlata fin troppo semplice (in Esche vive era Fiorenzo, qui è
Mario), quelli troppo attaccati al Rock (ancora Fiorenzo confrontato
a Nello), quelli che finita l'università hanno perso completamente
la bussola (là Tiziana, qui Renato) e quelli che, nonostante tutto
l'autocontrollo imposto, vengono presi da passioni troppo forti
(nuovamente Tiziana confrontata a Roberta). Gli incipit nostalgici
ambientati in un passato che non è più e i finali non finali con i
personaggi lasciati a correre da soli.
Ma io non ho più 16 anni
e se tu scrittore hai uno stile immutato che ti permette di
scrivere una nuova storia dove, cambiando l'ordine degli addendi, il
risultato fantastico non cambia, beh, a me piaci comunque.
Basta che alla prossima
non mi presenti un Be Here Now.
VERSILIA ROCK CITY
AUTORE: Fabio Genovesi
GENERE: Romanzo di formazione (senza adolescenti)
VOTO: 8,5
Di che si parla
Commedia,
Drammatico,
Formazione,
Genovesi Fabio,
Libro
martedì 6 ottobre 2015
SCIENTIFICITÀ E UMORISMO DI MERDA
Ho visto qualsiasi cazzata nei film di fantascienza.
Dagli alieni cattivi a
quelli buoni, dagli asteroidi che vengono fatti saltare per aria da
personaggi eroici a quelli che mettono finalmente fine alla vita
sulla Terra, dai cloni alle navicelle impazzite, dai viaggi nel tempo
a quelli nello spazio oltre la velocità della luce, dagli alieni che
cambiano sesso a quelli che cambiano forma e blablablabla.
Potrei andare avanti per
ore ad annoiarvi di vaccate fantascientifiche che non stanno né in
cielo né in Terra, di idee assurde che nessuna persona sana di mente
avrebbe partorito e a cui comunque sono stato dietro, sforzandomi di
calarmi nell'irrealtà della situazione pur di gustarmi quel film (o
quel libro).
Non ho mai fatto caso più
di tanto alla provata scientificità di una vicenda perché per me
non è quella a rendere importante una storia di fantascienza. Per
quale motivo avrebbero aggiunto il suffisso fanta? Dove sta la
fantasia in un libro di Arthur C. Clarke in cui ad ogni minimo
spostamento nello spazio-tempo ci si affanna a spiegare come sia
potuto scientificamente accadere? E soprattutto: a cosa serve la
sospensione dell'incredulità?
Date le premesse di cui
sopra, The Martian non avrebbe dovuto piacermi.
E invece.
E invece mi ha fatto
letteralmente cagare.
Presentato come uno dei
film fantascientifici più rigorosamente scientifici degli ultimi
anni, con budget faraonico, regista delle grandi occasioni
(nonostante Scott sia bollito da troppi anni a questa parte e chi non
ci crede si guardi Exodus- Dei e Re e stia zitto per sempre) e cast
di tutto rispetto, The Martian parte subito con il botto con una
scena iniziale che fa davvero sperare per il meglio.
C'è adrenalina, c'è una
grande fotografia e una scena vagamente confusa in cui si capisce ben
poco di cosa sta esattamente accadendo a chi, ma è tutto voluto.
Dopo la partenza della navicella da Marte (siamo nei primissimi
minuti) la vicenda comincia davvero a delinearsi e, incredibile a
dirsi, si cominciano a vedere le prime crepe: i personaggi sulla
Terra.
Non c'è uomo non
astronauta in questo film di terra rossa e patate coltivate in modo
biologico (ci arriveremo) che non vi sembrerà un'idiota o una
macchietta: c'è il supermegacapo della Nasa col tono profondo di
voce che decide tutto lui, ma si fa mettere i piedi in testa da
chiunque, c'è Boromir che per una volta non muore perché proprio
non gli è possibile morire mentre non fa nulla per tutto il film,
c'è un giappu-americano ciccione che dà sempre i tempi di consegna
del suo lavoro come se fosse un italiano, viene quindi ripreso dal
capo e si corregge dicendo che ce la farà anche nella metà della
metà del tempo perché tanto evidentemente ha licenziato gli
italiani e ha assunto dei cinesi che lavorano giorno e notte, c'è
una donna bionda che sta al computer e nota cose sugli schermi (solo
lei in mezzo a centinaia di altri subumani di cui si vedono solo i
capelli) e un nero a cui è riuscito bene il ruolo dello schiavo un
paio d'anni fa e non si sa come si è ritrovato qui a fare il
direttore della missione su Marte che però, ancora troppo preso dal
ruolo dello schiavo, si diverte ad avere illuminazioni e
scarabocchiare quadri del pianeta rosso che trova in giro per gli
uffici.
E L'Oscar per chi sta meglio seduto con la bocca aperta va a....
E poi c'è lui: il nero
simpatico.
Quello che se fossimo
stati negli anni '80 di sicuro ci trovavi Eddie Murphy a ridere come un semo, ma siccome siamo nel 2015 e ai neri simpatici nei film non ci
crede più neanche Eddy Murphy stesso, ci hanno messo uno qualsiasi
di cui non voglio neanche andare a vedere il nome, lo chiameremo nero
simpatico.
Si da il caso che da
qualche anno a questa parte vadano di moda i nerd, non che abbia
qualcosa in contrario per carità, io lo sono fin troppo, ma la cosa
sembra ormai un po' sfuggita di mano: dalla moda alle serie tv tutto
è simpaticamente ed insopportabilmente nerd.
Quindi il nero simpatico è
anche nerd, ma essendo un nero simpatico è anche strafatto (di
caffeina o altro, non lo sapremo mai con esattezza) e alla prima
occasione lo vediamo entrare in scena come i peggiori personaggi dei
più brutti film di fantascienza anni '90 che vi vengono in mente. Il
nero simpatico dorme, inciampa, si mette al computer, beve il caffè,
finisce il caffè, vuole altro caffè, inciampa di nuovo, cade, si
mette al supercomputerone della Nasa che è proprio proprio grande
grande e con un portatile risolve un problema incredibile che
migliaia di Nasisti erano ormai con le cervella fuse a forza di
ragionarci. Non contento va dal capo che ha la voce sempre più
grossa, lo piglia per il culo e con un bicchiere vuoto gli dimostra
la sua grande teoria a cui nessuno è arrivato nel giro di mesi e
mesi. Ovviamente tutto in simpatia tra versi insopportabili e
scenette che neanche Benny Hill all'ospizio.
Oh si è nerd, guardate quanto è nerd quando si mette in piedi sul letto con la scala per andare a scarabocchiare là in alto! ed è pure scientifico, lo scrive pure... SCIENCE!
Ma ritorniamo su
Marte.
A milioni di chilometri di
distanza e a un'ora circa dalle vicende del nero simpatico (che
grazie a Dio compare solo dopo la prima metà del film), dove ci sarà
sempre e solo Matt Damon, un botanico astronauta della Nasa.
Un botanico.
Matt Damon si estrae del
metallo dalla pancia e si cuce, Matt Damon mangia e ragiona, Matt
Damon disseppelisce vecchie navicelle spaziali, Matt Damon costruisce
cose, Matt Damon guida, caga e dorme, Matt Damon ha le intuizioni e
Matt Damon crea l'acqua. Poi non contento Matt Damon trova delle
patate sottovuoto lasciate lì per il giorno del Ringraziamento
(boh...), le pianta, ci mette della cacca umana liofilizzata come
concime e le fa crescere.
Nel frattempo Matt Damon
(lo chiameremo d'ora in poi McGyver perché mi sembra più giusto)
ascolta dell'orrenda discomusic e non si perde mai d'animo nemmeno
nelle sfighe più tremende, arrivando ad urlare per ben tre volte
“God” quando qualcosa andrà talmente storto da esser ormai più
di là che di qua.
Quindi Santo McGyver si
riprende dalla batosta perché lui è un vero americano intelligente
che risolve tutto con il suo megacervello (altro che computer Nasa e
neri simpatici) e riesce, con una superdieta a base di caccapatate e
medicine come condimento, ad andare avanti ancora per un'altra ora di
film.
E gli astronauti ex
compagni di Mc? No, non me li sono dimenticati.
Gli amici stronzi che lo
hanno abbandonato per sbaglio hanno una parte fondamentale nel film e
incredibilmente paiono anche i personaggi meglio scritti dell'intera
sceneggiatura: parlano come persone dotate di un cervello, si muovono
senza inciampare e ragionano quasi normalmente. Tolto un momento di
follia generale in cui la canzone Starman di David Bowie dà il via
ad una serie di scenette dementi riguardanti l'intero cast (mi vedo
anche Scott divertito mentre si mangia le caccole nascondendosi
dietro la camera mentre a me viene un ictus per la rabbia), i
loro rimangono i momenti migliori di un film che fa della
scientificità e dell'umorismo di merda il suo punto forte.
Non mancheranno poi:
- personaggi dalla voce profonda che dicono guardando in camera: “a meno che qualcosa non vada storto”, cambio scena e disastro totale;
- Computer con lo schermo spesso mezzo metro al servizio della Nasa;
- Michael Peña, insopportabile anche se interpretasse un personaggio muto;
- Cinesi con segreti militari che, dopo 10 secondi di indecisione, ostentano il loro “volemose bene” come neanche la Ferilli quando pubblicizza i divani;
- finali con gente che vola come Iron Man.
E insomma si, The Martian mi ha fatto veramente cagare.
E il problema è che non ho nemmeno le patate da coltivare.
THE MARTIAN – SOPRAVVISSUTO_THE MARTIAN
REGIA: Ridley Scott
ANNO: 2015
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4,5
venerdì 25 settembre 2015
BUIO TOTALE
Questa recensione è stata scritta il 20 febbraio 2012 e rivista completamente il 25 settembre 2015
Uomini che, con la finezza e la perizia di un bambino di 4 anni impegnato a disegnare il ritratto della propria mamma (solitamente un tondo con due puntini per gli occhi e una righetta per la bocca…aggiungiamoci un punto per il naso), costruiscono i personaggi dai nomi improbabili di un romanzo probabile solo (forse) sul piano scientifico.
Uno scritto che vorrebbe essere fantascientificamente sconvolgente ma che si mostra in realtà come un incrocio mal riuscito tra un apocalittico, un giallo (abbandonato a metà) e un post-apocalittico dove la tensione non ha un climax ascendente: semplicemente ad un certo punto esplode in picchi irreali per poi riaffondare al di sotto della Fossa delle Marianne.
“Crepuscolo” in particolare, ci tengo a ribadirlo, è una nota dolente fatta di banalità sconcertanti e svolte impreviste quanto l’uovo di Pasqua a Pasqua, ma l’intero romanzo soffre di un impianto narrativo costruito (perdonatemi l’eufemismo) con quel buco del corpo maschile che non è la narice o l’orecchio (e non parlo dell’ombelico).
Asimov e Silverberg saltano continuamente a piè pari interi passaggi di narrazione per poi farne un sunto mal riuscito nelle pagine successive e si ritrovano chissà come sul finale con un centinaio di cose da chiarire (Amgando?) che non verranno mai chiarite, con una decina di personaggi eliminati per pure esigenze di copione o semplicemente scomparsi, ma soprattutto con due protagonisti di cui non sanno che farsene.
Non anticiperò nulla, ma quale senso ha la svolta finale?
Non poteva qualche anima di buon cuore far presente al Basettone e a Silverberg che c’è una differenza sostanziale tra un finale aperto e un non finale tranciato a metà con la grazia di un’ascia male affilata?
Da cosa è dettata la scelta di Theremon e Siferra?
È come se domani, che ne so, Berlusconi diventasse segretario del Pd perché ha scoperto che i Comunisti non mangiano i bambini.
Vi sembra ragionevole?
Se si comprate Notturno, non ve ne pentirete.
PS: Evito di commentare gli ammiccamenti al lettore con la storia di un pianeta con un unico sole perché sono una brava persona e perché in fondo il paragrafo post apocalittico ambientato sull'autostrada qualche brivido me l'ha regalato.
NIGHTFALL- NOTTURNO
ANNO: 1990
AUTORE: I. Asimov, R. Silverberg
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4
Chiariamo subito: le prime
150 pagine di Notturno sono tra le peggiori pirlate fantascientifiche
che io abbia mai letto, visto e immaginato.
Non per colpa di chissà quale traduzione orripilante (vedi Urania), taglio becero (vedi Urania) o edizione con le pagine di carta igienica gialla che si staccano dalla copertina mentre leggi (vedi… Urania).
Semplicemente la prima lunga parte intitolata “Crepuscolo” è l’antilibro, “Il manuale per come non scrivere un libro di fantascienza”, il “Plan 9 From Outer Space” della narrativa fantascientifica.
Lasciate perdere la questione “racconto allungato” che lo riguarda (operazione già fin troppo discutibile), quel che non va in Notturno è qualcosa di molto più grave della famosa “buona idea sfruttata male”.
“Crepuscolo” (e in larga parte l’intero tomo) è a tutti gli effetti un concentrato di banali errori dilettantistici che ti potresti aspettare dal signor Pinco Pallo alle prese con il suo primo romanzo, non da due scrittori di fantascienza affermati di cui uno è considerato (a ragione) uno dei Padri fondatori.
Qui si parla di 150 pagine colme di personaggi insignificanti che parlano e si muovono come marionette scassate su di una scenografia fatta con la cartapesta e il vinavil stile “recita di Natale all’asilo” (nemmeno all’oratorio), una scenografia che talvolta traballa a tal punto da far venire serissimi dubbi al lettore sui suoi presunti scrittori.
Uomini, questi ultimi, che
si premurano in una breve introduzione di chiarire che non verranno
usate strane parole inventate per questo pianeta alieno, ma che, dopo
poche pagine, si ritrovano a scrivere di un bar dove vengono serviti
cocktail impronunciabili ispirati ai nomi dei cinque soli che
illuminano questo immenso cartapestaio che è Kalgash.Non per colpa di chissà quale traduzione orripilante (vedi Urania), taglio becero (vedi Urania) o edizione con le pagine di carta igienica gialla che si staccano dalla copertina mentre leggi (vedi… Urania).
Semplicemente la prima lunga parte intitolata “Crepuscolo” è l’antilibro, “Il manuale per come non scrivere un libro di fantascienza”, il “Plan 9 From Outer Space” della narrativa fantascientifica.
Lasciate perdere la questione “racconto allungato” che lo riguarda (operazione già fin troppo discutibile), quel che non va in Notturno è qualcosa di molto più grave della famosa “buona idea sfruttata male”.
“Crepuscolo” (e in larga parte l’intero tomo) è a tutti gli effetti un concentrato di banali errori dilettantistici che ti potresti aspettare dal signor Pinco Pallo alle prese con il suo primo romanzo, non da due scrittori di fantascienza affermati di cui uno è considerato (a ragione) uno dei Padri fondatori.
Qui si parla di 150 pagine colme di personaggi insignificanti che parlano e si muovono come marionette scassate su di una scenografia fatta con la cartapesta e il vinavil stile “recita di Natale all’asilo” (nemmeno all’oratorio), una scenografia che talvolta traballa a tal punto da far venire serissimi dubbi al lettore sui suoi presunti scrittori.
Uomini che, con la finezza e la perizia di un bambino di 4 anni impegnato a disegnare il ritratto della propria mamma (solitamente un tondo con due puntini per gli occhi e una righetta per la bocca…aggiungiamoci un punto per il naso), costruiscono i personaggi dai nomi improbabili di un romanzo probabile solo (forse) sul piano scientifico.
Uno scritto che vorrebbe essere fantascientificamente sconvolgente ma che si mostra in realtà come un incrocio mal riuscito tra un apocalittico, un giallo (abbandonato a metà) e un post-apocalittico dove la tensione non ha un climax ascendente: semplicemente ad un certo punto esplode in picchi irreali per poi riaffondare al di sotto della Fossa delle Marianne.
“Crepuscolo” in particolare, ci tengo a ribadirlo, è una nota dolente fatta di banalità sconcertanti e svolte impreviste quanto l’uovo di Pasqua a Pasqua, ma l’intero romanzo soffre di un impianto narrativo costruito (perdonatemi l’eufemismo) con quel buco del corpo maschile che non è la narice o l’orecchio (e non parlo dell’ombelico).
Asimov e Silverberg saltano continuamente a piè pari interi passaggi di narrazione per poi farne un sunto mal riuscito nelle pagine successive e si ritrovano chissà come sul finale con un centinaio di cose da chiarire (Amgando?) che non verranno mai chiarite, con una decina di personaggi eliminati per pure esigenze di copione o semplicemente scomparsi, ma soprattutto con due protagonisti di cui non sanno che farsene.
Non anticiperò nulla, ma quale senso ha la svolta finale?
Non poteva qualche anima di buon cuore far presente al Basettone e a Silverberg che c’è una differenza sostanziale tra un finale aperto e un non finale tranciato a metà con la grazia di un’ascia male affilata?
Da cosa è dettata la scelta di Theremon e Siferra?
È come se domani, che ne so, Berlusconi diventasse segretario del Pd perché ha scoperto che i Comunisti non mangiano i bambini.
Vi sembra ragionevole?
Se si comprate Notturno, non ve ne pentirete.
PS: Evito di commentare gli ammiccamenti al lettore con la storia di un pianeta con un unico sole perché sono una brava persona e perché in fondo il paragrafo post apocalittico ambientato sull'autostrada qualche brivido me l'ha regalato.
NIGHTFALL- NOTTURNO
ANNO: 1990
AUTORE: I. Asimov, R. Silverberg
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4
Di che si parla
Asimov I.,
Fantascienza,
Libro,
Silverberg R.
mercoledì 9 settembre 2015
SUL FATTO DI ESSERE CARINI
Pensate alla ragazza carina della compagnia che avete conosciuto l'altra sera/l'altro anno/l'altro secolo, qualcuno se la ricorda? Si, vi ricordate quella figa e quella bruttissima, quella col cervello fino, quella col culo grosso e quell'altra che di grosse aveva solo le tette, ma quella carina chi era? Aveva un bel viso certo, ma un po' anonimo, aveva dei begli occhi, ma un po' slavati, non era grassa e non era neanche magra e si vestiva sicuramente meglio della tettona dalla scollatura imbarazzante, ma sembrava appena uscita dalla Benetton con il primo maglioncino tinta unita consigliato dalla commessa. Insomma era solo carina e ve la siete dimenticata.
Ora provate a ripensare all'ultima commedia romantica americana che avete visto al cinema. Vi siete fatti due mezze risate, avete pensato per un attimo "quello/a potrei essere io", avete immaginato la vostra vita come se viveste in un film Hollywoodiano quindi siete usciti dal cinema e avete detto: "Carino". E due giorni dopo ve lo siete scordato, trama, attori, titolo e persino quella battuta che vi era sembrata tanto carina.
Tra l'altro su Virgin Radio mentre tornavate c'era quella canzone che faceva..com'è che faceva? Ve la ricordavate fino a mezz'ora fa, eppure era così carina..boh, non importa, la ripasseranno.
Carina era la vostra compagna di classe alle superiori che ha trovato un ragazzo solo all'università (carino anche lui, sia chiaro).
Carina era quella maglietta che avete visto in quel negozio carino che ha chiuso due anni fa da cui non avete mai comprato nulla.
Carini erano quella cover, quelle scarpe, quell'auto, quella casa, quell'armadio, quel lenzuolo, quel gioco e tutto ciò che non avete mai avuto o comunque voluto davvero.
Insomma lo avrete capito: Mali minori è un libro carino.
Si lascia leggere con piacere e alcune delle brevissime storielle che lo compongono suscitano persino una risata, un'occhio lucido (ma non due) e un bel po' di immedesimazione che non fa mai male, ma è difficile spingersi oltre quel maledetto aggettivo di cui è pieno il mondo.
Carino, ed è presto dimenticato.
MALI MINORI
ANNO: 2014
AUTORE: Simone Lenzi
GENERE: Racconti
VOTO: 6,5
mercoledì 26 agosto 2015
4 PINNE ALL'ORIZZONTE: I MARSUINI
Questa recensione è stata scritta il 23 maggio 2012 e rivista completamente il 26 agosto 2015
A rileggere il retro di copertina mi chiedo perché.
Navi che spariscono, giornalisti curiosi, pirateria, turbolenze atmosferiche...niente che mi ispiri fiducia.
I leggendari mostri marini? Si forse quelli possono anche andare, sono attrazioni da baraccone fantascientifico per bambini di 10 anni certo, ma fingiamo che il mio acquisto sia dovuto a questi simpatici mostri e non al meraviglioso titolo italiano: Dove sparivano le navi. Ah beh…potevano chiamarlo direttamente I mostri marini. Seconda pagina, titolo originale: The Sea Beasts.
Ora capisco tutto.
Gli Urania si dividono solitamente in tre categorie:
- I capolavori dei grandi maestri della fantascienza: stampati, ristampati e riristampati in diverse collane Uranianane addirittura con qualche aggiornamento alle scandalose prime traduzioni. Rappresentano un 20% delle uscite;
- I romanzi con idee geniali messe su carta da veri e propri cani della fantascienza (lasciamo stare la Letteratura), incapaci di mettere in fila 10 parole senza dar vita a veri e propri disastri letterari, capaci di far impallidire anche il neosindaco Moccia. Siamo sul 30%.
- Il resto delle grandi scelte della redazione di Urania (non vantatevi quindi di averne trovato e letto uno, non sono una rarità per quanto sia bello collezionare spazzatura) sono i libri come Dove sparivano le navi. Non capolavori. Non grandi idee. Semplicemente libri assolutamente, completamente, immancabilmente da usare, per esser fini, mentre si legge un altro Urania seduti in quello stanzino contenente la doccia. Sul water, che poi magari pensate al bidè o a qualche altro strano aggeggio che avete in bagno.
Dove sparivano le navi è cellulosa rubata alle piante inutilmente, è fantascienza senza scienza, ma anche senza fanta, è romanzo senza alcuna idea, né senso di esistere.
Il romanzo (raccontino) di Bertram Chandler vede comparire nell’ordine balene incazzuse, marsuini (non state a lambiccarvi il cervello per 3 giorni come ho fatto io, sono delfini) intelligenti, giornaliste acidelle che per l’occasione predicano il “sei l’ultimo uomo sulla Terra, quindi ti voglio”, marinai con problemi familiari che si risolvono in rapporti con giornaliste acidelle, macchinisti pelati che tengono sotto schiavitù 5 persone per settimane con una sola pistola, predicatori rimbecilliti che credono nella rinascita di Dio attraverso i marsuini, orche ancor più incazzuse e assassine delle balene e, last but not least, uomini-scimmia intelligenti.
Se non vi basta per starne alla larga pensate ad un delfino con in testa un elmetto sormontato da una spada.
E non voglio dire altro.
Perché alla fantaschifezze non c’è mai fine, ma alla mia pazienza si.
THE SEA BEASTS- DOVE SPARIVANO LE NAVI
ANNO: 1971
AUTORE: A. Bertram Chandler
GENERE: Fantascienza
VOTO: 2
Navi che spariscono, giornalisti curiosi, pirateria, turbolenze atmosferiche...niente che mi ispiri fiducia.
I leggendari mostri marini? Si forse quelli possono anche andare, sono attrazioni da baraccone fantascientifico per bambini di 10 anni certo, ma fingiamo che il mio acquisto sia dovuto a questi simpatici mostri e non al meraviglioso titolo italiano: Dove sparivano le navi. Ah beh…potevano chiamarlo direttamente I mostri marini. Seconda pagina, titolo originale: The Sea Beasts.
Ora capisco tutto.
Gli Urania si dividono solitamente in tre categorie:
- I capolavori dei grandi maestri della fantascienza: stampati, ristampati e riristampati in diverse collane Uranianane addirittura con qualche aggiornamento alle scandalose prime traduzioni. Rappresentano un 20% delle uscite;
- I romanzi con idee geniali messe su carta da veri e propri cani della fantascienza (lasciamo stare la Letteratura), incapaci di mettere in fila 10 parole senza dar vita a veri e propri disastri letterari, capaci di far impallidire anche il neosindaco Moccia. Siamo sul 30%.
- Il resto delle grandi scelte della redazione di Urania (non vantatevi quindi di averne trovato e letto uno, non sono una rarità per quanto sia bello collezionare spazzatura) sono i libri come Dove sparivano le navi. Non capolavori. Non grandi idee. Semplicemente libri assolutamente, completamente, immancabilmente da usare, per esser fini, mentre si legge un altro Urania seduti in quello stanzino contenente la doccia. Sul water, che poi magari pensate al bidè o a qualche altro strano aggeggio che avete in bagno.
Dove sparivano le navi è cellulosa rubata alle piante inutilmente, è fantascienza senza scienza, ma anche senza fanta, è romanzo senza alcuna idea, né senso di esistere.
Il romanzo (raccontino) di Bertram Chandler vede comparire nell’ordine balene incazzuse, marsuini (non state a lambiccarvi il cervello per 3 giorni come ho fatto io, sono delfini) intelligenti, giornaliste acidelle che per l’occasione predicano il “sei l’ultimo uomo sulla Terra, quindi ti voglio”, marinai con problemi familiari che si risolvono in rapporti con giornaliste acidelle, macchinisti pelati che tengono sotto schiavitù 5 persone per settimane con una sola pistola, predicatori rimbecilliti che credono nella rinascita di Dio attraverso i marsuini, orche ancor più incazzuse e assassine delle balene e, last but not least, uomini-scimmia intelligenti.
Se non vi basta per starne alla larga pensate ad un delfino con in testa un elmetto sormontato da una spada.
E non voglio dire altro.
Perché alla fantaschifezze non c’è mai fine, ma alla mia pazienza si.
THE SEA BEASTS- DOVE SPARIVANO LE NAVI
ANNO: 1971
AUTORE: A. Bertram Chandler
GENERE: Fantascienza
VOTO: 2
venerdì 7 agosto 2015
NON RICORDARSI
Una volta, intorno ai 15
anni, ricordo di aver chiesto a mio fratello (gran lettore all'epoca,
ben prima che io iniziassi anche solo vagamente ad appassionarmi alla
faccenda) se avesse letto un tale libro. Non ricordo più il titolo,
forse si trattava di qualcosa di Benni che mi era stato assegnato
come "compito estivo" o forse era tutt'altro, non saprei e
sinceramente non ha niente a che fare con ciò di cui vorrei scrivere
quindi anche chissenefrega, figurarsi se vado a perdere righe e righe
di recensione per dirvi qual era il titolo, che poi mi pare non fosse
neanche per le vacanze estive, forse era solo un romanzo che mi ero
ritrovato per le mani e quindi gli avevo chiesto se per caso lui
l'avesse letto e...stop! Torniamo a noi.
Quel che conta di tutta
questa storiella (era un tomo gigante di King?) fu la risposta che mi
diede: "Si l'ho letto, ma non ricordo un granchè.." Ecco
forse mio fratello non usò la parola granchè, in effetti a pensarci
non credo di aver mai sentito nessuno usare molto la parola "granchè”
e mi pare strano anche metterla per iscritto dato che word me la
sottolinea pure in rosso (ah ma ti sbagli word delle mie palle, sul
dizionario esiste e io mi ci riempio la bocca e le pagine di granchè!
Granchè granchè, granchè!), comunque il succo era quello, non si
ricordava di un libro che aveva letto.
All'epoca mi chiesi come
fosse possibile.
Leggevo a dir tanto 4-5
libri l'anno, vaccate horror se la scuola non mi costringeva a
prendere in mano Calvino o Benni (magari era di Calvino che gli avevo
chiesto..), e mi sembrò semplicemente assurdo che non si ricordasse
qualcosa che aveva sicuramente comprato di sua spontanea volontà
(perché prima che lui cominciasse a comprar libri ricordo solo il
volume coi funghi velenosi in casa) e letto (sorvoliamo sul fatto che
io ho letto una decima parte dei libri da me comprati e conoscendo abbastanza mio fratello sono sicuro che anche lui sia
afflitto dalla stessa malattia).
Pensai, e ancora adesso un
po' ne son convinto nonostante la conclusione lontanissima di questa
recensione-delirio, che fosse un modo scaltrissimo per liberarsi di
me, non che avesse più 16 anni, ma già all'epoca ero un bel
rompipalle se mi ci mettevo (e anche se stavo tranquillo) e non credo che lui avesse sempre voglia
di ascoltarmi e annuire e provare a consigliarmi Ben Harper invece di
sentire quella porcata di Peace Sells but who's Buying dei Megadeth
(statene lontani, maledette enciclopedie musicali della Giunti coi
loro consigli strampalati).
Poi arrivò la mia follia
per i libri.
Passai da quei 4-5
romanzetti striminziti a 40-50 libri l'anno con dentro qualsiasi cosa
mi capitasse per le mani, dal grande classicone sfracella-testicoli
dell' '800 all'Urania tradotto male, da King a Yates, Steinbeck,
Moore, Martin, Simmons, Barth e chi più ne ha più ne metta.
Per un anno o due, memore
di quella risposta, tenni a mente più o meno tutto: forse non
ricordavo per filo e per segno ogni cosa passata sotto gli
occhi (tipo i libri di chimica o di matematica non ho mai saputo di
cosa parlassero), ma conoscevo abbastanza bene tutti i romanzi in cui
mi imbattevo.
Infine un giorno la mia mente sovraccarica di minchiate fantascientifiche da 4 soldi e grandi capolavori che quasi non capivo cominciò
a vacillare, perdevo pezzi per strada e se mi chiedevi di quel primo
romanzo di King letto 4 anni prima facevo davvero fatica anche solo a
raccontarlo a grandissime linee. Mi resi conto solo allora che forse
mio fratello quel giorno non voleva semplicemente che mi levassi di
torno, forse, e dico forse, davvero non si ricordava di quel
maledetto libro dal titolo dimenticato.
Per ovviare alla perdita
di memoria da accumulo cominciai a scrivere le recensioni dei libri
appena finiti finché la cosa non mi procurò più fastidio che
piacere: in fondo non avevo un fratello minore a cui raccontarli
quindi perché avrei dovuto scrivere tutta quella roba? Per me
stesso? Perché in effetti alla fin fine mi divertiva farlo finché
non diventava un obbligo?
Forse si.
Oggi, passata una quantità
indecente di anni dalla mia prima recensione, mi rendo conto che
ancora accumulo i libri finiti sul tavolo in attesa di una
recensione, anche minuscola, per sapere di cosa parlano quando ormai
li avrò dimenticati (e perché si, mi piace).
Oggi, e questo "oggi"
non è in senso figurativo, ma è proprio oggi, 1 agosto 2015, mi
ritrovo a scrivere di un libro letto due mesi fa di Steinbeck, un
autore che amo follemente e di cui sto provando da anni a leggere
tutto quel che ha scritto in ordine rigorosamente cronologico (perché
sono matto, ma questo ormai dovrebbe esservi chiaro), senza
ricordarmi quasi nulla di quel che stava sulle sue pagine.
Già dal primo racconto mi
ero reso conto di avere di fronte una copia sbiadita dello scrittore
grandioso di Furore e La valle dell'Eden, nemmeno all'altezza di quei
primi piccoli passi che sono La santa rossa e I pascoli del cielo, ma
oggi mi accorgo che La valle lunga è davvero ben poca cosa se, a
distanza di poco meno di 60 giorni dalla sua lettura, non ricordo
quasi nulla di quanto Steinbeck volesse dirmi.
Certo, "La Fuga"
e "Il cavallino rosso" potrebbero stare benissimo a fianco
di un capolavoro come "Uomini e topi", ma i restanti 12
racconti sembrano davvero essere messi li quasi per caso, raccolti
senza un ordine ben preciso (com'era invece in I Pascoli del cielo)
sperando in una forza d'insieme che neanche si intravede.
Su quello che viene
definito da Steinbeck il suo terzo tentativo di racconto-dramma, Che
splendida ardi, in chiusura del tomo, sarebbe meglio sorvolare per
non cadere in giudizi impietosi: invecchiato male è la prima e unica
cosa che mi viene in mente.
Avrei potuto dirvi molto
più semplicemente che de "La valle lunga" ricordo solo i
due racconti citati per la bellezza e "Che splendida ardi"
per la bruttezza, ma forse nessuno avrebbe capito l'unica cosa che
per me ha un senso di tutta questa recensione: quel che non ricordo è
inutile (come quel cazzo di libro di cui chiesi a mio fratello).
THE LONG VALLEY- LA VALLE LUNGA
AUTORE: John Steinbeck
ANNO: 1938
GENERE: Racconti
VOTO: 5
martedì 28 luglio 2015
DI PROMESSE CHE CADONO A PEZZI
C'è qualcosa che non va
in Vernon God Little.
Non è l'incipit. Dbc
Pierre parte come un Ciao truccato degli anni '90 e nel giro di 50
pagine ha già bruciato tutti i posti di blocco: famiglia, coetanei,
comunità, polizia e stato del Texas, niente viene risparmiato dalla
sua penna giovane e caustica.
Vernon God Little
sopravvive all'interno di una società talmente annoiata e decadente
da rendere un massacro a là "Columbine High School" un
motivo di arricchimento per tutti gli abitanti del piccolo paese e
l'autore inglese, attraverso gli occhi dell'emarginato adolescente,
ci fa comprendere tutta la follia di un mondo occidentale
completamente alla deriva.
Quando la spinta iniziale
sembra esaurirsi, l'autore, come in un qualsiasi episodio di Fast &
Furious, svela i serbatoi con il Nos e si sposta a velocità doppia
in un Messico fatto di luoghi comuni, ma anche di tanta speranza per
un ragazzo la cui confusa innocenza continua a far sorridere anche
dopo 200 pagine, nonostante qualche esagerazione di troppo.
A questo punto Pierre
sembra perdere contatto con il romanzo di formazione inizialmente
promesso: ci si sposta prima in ambito giudiziario e poi
definitivamente nel dramma più puro: la scrittura perde mordente
(per quanto la cosa sia giustificata a livello narrativo, non la si
comprende) e il Ciao perde velocità fino a smontarsi in mille pezzi,
troppo usurato per poter fare anche solo un metro in più.
Siamo all'epilogo e
nonostante le aspettative tradite quasi ci si adatta ad un finale del
genere: forse è giusto che vada così, in un mondo così sbagliato
non potrebbe finire altrimenti e il tocco di reality infilato a forza
sembra quasi voler infastidire e allungare il brodo
involontariamente.
E quando ormai ti stai già
bevendo le tue lacrime amare lo vedi arrivare di corsa da lontano,
grosso, muscoloso e mai stanco, il Deus Ex Machina prende al volo il
Ciao e lo lancia oltre la linea d'arrivo sfasciandolo del tutto,
facendogli perdere anche quell'ultimo guizzo di bellezza nostalgica
pur di fargli vincere una gara ormai persa.
La disonestà, ecco che
cosa non va.
VERNON GOD LITTLE
AUTORE: Dbc Pierre
ANNO: 2003
GENERE: Romanzo di formazione
VOTO: 5
giovedì 16 luglio 2015
LACIO DROM
Era il primo o il secondo
anno di università quello in cui, al milionesimo viaggio in treno
tra Alessandria e Torino, vidi per la prima volta una stradina che
costeggiava il 90% dei binari tra la cittadina in cui tutti
vorrebbero essere milanesi e quella che i milanesi li piglia per il
culo.
Decisi che dovevo
percorrerla a piedi.
Non che avessi qualche
motivo in particolare per farlo o la mia vita stesse andando
particolarmente male (a quale ragazzo sano di mente potrebbe andar
male la vita al primo anno di università?), semplicemente mi andava.
Passò un'estate, due,
tre, quattrocinqueseisette e anche otto e alla nona (no, facciamo
alla decima) finalmente e vergognosamente mi decisi: misi lo zaino in
spalla e arrivai a metà percorso prima di abbandonarmi allo
sconforto e tornare a casa con un risentimento verso me stesso che
faticai a mandare giù per mesi interi.
Averci messo un'eternità
a decidermi e aver abbandonato a metà strada un percorso di soli 90
km mi fa incazzare, vergognare e anche un po' ridere a dire la
verità. Ma davvero poco a dirla tutta.
Passa un altro anno e la
camminata non è dimenticata, ma messa in un angolino nascosto, al
buio, dove posso dimenticarla con piacere, quasi senza accorgermene.
Poi pochi giorni fa in
libreria, insieme all'unico vero grande amico rimasto dai tempi
dell'università, quello che anche se non lo vedi per due anni sei
capace di parlare ancora per 3 ore come se non fosse passato un
giorno dai tempi in cui la musica, il cinema, gli USA e i grandi
sogni erano tutto, andiamo verso lo scaffale della narrativa di
viaggio. Ne siamo appassionati entrambi e il grande on the road negli
Stati Uniti di cui entrambi vaneggiavamo all'università alla fine
lui è riuscito a farlo. Beato lui, coglione io.
L'uomo che fece il giro
del mondo a piedi è il libro che attira la nostra attenzione quasi
subito: in fondo siamo ancora gli stessi pirla sognatori di allora,
con un lavoro che ci fa più o meno schifo ma ci consente di vivere e
una voglia di andarsene da questo stato farlocco che ancora adesso
conteniamo senza sapere bene il perché.
Passano due, tre giorni,
il tempo di finire lo Stephen King più recente e mi butto sul
racconto di Dave Kunst e del suo giro intorno al mondo iniziato nel
1970 con il fratello John.
Ed è subito voglia di
rimettersi in viaggio.
Il libro di Kunst non è
assolutamente un libro perfetto, risente della visione USAcentrica
del suo autore (sul finale si parla addirittura di una classifica
immaginaria stilata dai sue fratelli su quanto fossero arretrati gli
stati attraversati rispetto alla loro nazione d'origine) e del
passaggio di ben 45 anni dall'impresa che entrò direttamente nel
guinness dei primati (ad oggi non sono nemmeno dieci le persone ad
aver circumnavigato il mondo a piedi, ma ai tempi Dave fu il primo e
solo), ma è uno dei pochi resoconti di viaggio letti nella mia vita
capace di tenerti incollato alla pagina senza troppe iperboli e
grandi insegnamenti di vita.
Kunst (insieme al
giornalista e scrittore Clinton Trowbridge) non segue una linea retta
fatta di date e avvenimenti, ma sembra lasciarsi andare ad un flusso
di ricordi che riempiono le pagine con naturalezza, senza annoiare e
senza nemmeno accelerare troppo quel viaggio che ha occupato quattro
lunghissimi anni della sua vita.
Si sente nelle sue parole
quella sorta di nostalgia e orgoglio che traspare solo dalle voci di
chi è riuscito a compiere il proprio sogno nella vita: quello del
camminatore del Minnesota, arrivato quasi all'improvviso in un giorno
qualunque di una normalissima vita di provincia, era di compiere il
giro del mondo a piedi e, nonostante una serie di imprevisti a dir
poco spaventosi (compresa la morte del fratello a metà percorso
raccontata nel primo capitolo) e un'attrezzatura che oggi farebbe
ridere letteralmente i polli (scordatevi scarpe da ginnastica,
abbigliamento tecnico, tende iperleggere, bevande iperenergetiche o
chissà che altro, qui si parla di scarpe da passeggio, un cappello a
tesa larga, camicia da Indiana Jones, Coca Cola e un carro trainato
da un mulo), lui ci è riuscito.
E io ancora non ho
percorso quei 90 km.
PS: Il libro è edito da
Edizioni dei cammini, una casa editrice fondata piuttosto
recentemente che, come da nome, si dedica al camminare. Fatti i
complimenti per l'idea, le splendide copertine e l'impaginazione (non
scontati), mi rimane solo un piccolo rimprovero per alcuni refusi
letteralmente da urlo: un "havrebbe" da manicomio è quello
che mi è rimasto più impresso, ma l'augurio è quello di avere
tanti lunghissimi anni in cui migliorare anche in queste piccole
cose. Si meritano tutta la fortuna possibile, per l'idea sicuramente,
ma anche per il coraggio avuto nel metterla in pratica in questi
tempi bui per l'Italia libraria e non solo.
THE MAN WHO WALKED AROUND THE WORLD: A TRUE STORY- L'UOMO CHE FECE IL GIRO DEL MONDO A PIEDI
AUTORE: Dave Kunst
ANNO:2015
GENERE: Biografia
VOTO: 7,5
domenica 14 giugno 2015
RIGURGITI GIURASSICI
Avrei voluto scrivere una
recensione nostalgica che iniziava con la prima volta in cui vidi
Jurassic Park. Era il 1993, io avevo 7 anni e la gente in coda al
cinema era talmente tanta da sfociare fuori dalle porte e allargarsi
sulla strada adiacente fino a bloccarla completamente.
Ci ho provato e riprovato
almeno quattro volte, ma la cosa non ha funzionato: una volta non c'è
abbastanza effetto nostalgia e un'altra sembra di leggere l'incipit
di un romanzetto rosa dell' '800, alla quinta comprendo che non è
quello il punto.
Sto pensando a quanto mi
ha fatto incazzare Jurassic World.
Vorrei pensare a Jurassic
Park, all'infanzia, ai cinema di città di un tempo con 700 poltrone
tutte follemente occupate e alla gente seduta sui gradini al centro,
ma sinceramente non ci riesco.
Penso a Jurassic World.
Rivedo davanti ai miei
occhi i commenti positivi sul film letti in rete e le videorecensioni
entusiastiche che spuntano come funghi e mi chiedo se per caso non hanno
sbagliato sala.
Magari credono di essere
andati a vedere Jurassic World e sono finiti nella sala di Mad Max a
sbavare su deserti apocalittici e chitarristi indemoniati.
O forse avevano bisogno di
far prendere aria alle corde vocali e han pensato di parlare bene
dell'ultimo film giurassico senza saper esattamente cosa stavano
dicendo. Consiglio dei gargarismi in bagno col colluttorio se proprio
non avete di meglio da fare.
Perché la verità è che
non voglio credere che a qualcuno sia piaciuto questo obbrobrio.
Jurassic World (e non
Jurassik World, come ho visto scritto da più parti...) è il trionfo
degli sceneggiatori idioti di Hollywood.
Quelli che riprendono in
mano un'idea di 20 anni fa perché hanno buchi neri al posto del
cervello.
Quelli che fanno correre
le donne sui tacchi per chilometri perché vuoi mica metter le
scarpe da ginnastica ad una fica come Bryce Dallas Howard.
Quelli che scrivono di
cattivi dallo spessore pari ad un foglio di carta carbone e, non
contenti, li fanno morire appena diventano un filo più interessanti
perché tanto sono cattivi e i cattivi devono morire (mica come i
bambini, i bambini sono buoni e si salvano. SEMPRE).
Quelli che scrivono trame
viste, riviste e straviste e se per caso qualcuno glielo fa notare
rispondono che sono omaggi, citazioni, richiami.
Cazzate.
La verità è che Jurassic
World è un film senza idee se non quella grandiosa (e vecchia di 25
anni) di avere un parco pieno zeppo di dinosauri. E, per una volta,
di visitatori.
Non è un caso che le
scene migliori siano proprio quelle che riguardano le attrazioni. Fa
sorridere vedere bambini in groppa a piccoli triceratopi e i vaghi
accenni alle escursioni in canoa in mezzo alla palude giurassica o le
tanto spoilerate girosfere fanno effettivamente sognare come se si
fosse ancora nel 1993.
Solo che siamo nel 2015 e
Colin Trevorrow e Derek Connolly non sono Steven Spielberg, David
Koepp e Michael Crichton.
Vorrebbero esserlo certo,
ci mettono i bambini, le inquadrature-meraviglia e tanta tanta tanta
cgi fatta talmente tanto bene da non riconoscere gli animatronics
dagli effetti computerizzati, solo che non lo sono.
E si vede.
C'era davvero bisogno di
disegnare un dinosauro nuovo di pacca (giustificato persino con uno
spiegone che neanche i cattivi peggiori di 007) per stupire un
pubblico ormai abituato ai dinosauri “classici”? Con le centinaia
(se non migliaia) di specie ormai scientificamente riconosciute era
il caso di creare un mostro tipicamente Hollywoodiano che si comporta
come l'imitazione pacchiana del Predator che lottava contro
Schwarzenegger negli anni '80? Si, pacchiana. Perché almeno Predator
era un alieno e aveva tutti le sue ragioni per essere brutto e
invisibile, ma che ragione ha l'Indominous di avere questi unghioni
ridicoli? Per lasciare i segni sui muri? Ma che è? Un graffitaro?
E dell'innamoramento
stratelefonato e wozzappato dei protagonisti dopo cinque minuti di
film ne vogliamo parlare?
E la colonna sonora di
Michael Giacchino che nei momenti più sbagliati si diverte a
riprendere il tema originale come farebbe il peggior dj paraculo di
provincia? Per tanto così chiamiamo un vocalist e facciamogli
urlare: “LA VOGLIAMO LASCIARE UNA LACRIMUCCIA QUI? ILLUMINAAAAAA!”
Jurassic World vorrebbe
essere un seguito vero e proprio del primo e unico meraviglioso film
di Spielberg e non è che una pallida imitazione che non ha capito
nulla di quel che funzionava in quel film.
Non gli scontri
Godzilleschi tra T-Rex e Indominous che si tirano testate e morsi
manco fossimo davanti alla tv con Giacomo Ciccio Valenti che commenta
il wrestling, non i raptor più o meno addomesticati che fanno le
faccine e collaborano con gli altri dinosauri (no comment su questo
che mi vien voglia di urlare) e nemmeno le corse in moto a capo di un
branco di velociraptor (e hanno avuto pure il coraggio di metterlo in
un trailer...).
Jurassic Park era pura
meraviglia.
Quella delle attrazioni di
cui ho parlato precedentemente, quella che poteva esserci nella prima
scena del mosasauro se non fosse stata spoilerata selvaggiamente dai
trailer o quella che può farti risvegliare alla fine del film con
protagonista il T-Rex.
Meraviglia.
Spielberg pensaci tu.
JURASSIC WORLD
REGIA: Colin Trevorrow
ANNO: 2015
GENERE: Fantascienza
VOTO: 5
lunedì 8 giugno 2015
È LA STORIA, NON COLUI CHE LA RACCONTA.
Dimentico spesso quanto
King possa essere avvinghiante.
Anche dopo aver letto
qualcosa come una trentina di romanzi e un paio di raccolte di
racconti, ogni volta che prendo in mano un suo libro il pensiero è
sempre lo stesso: questa volta non ci riuscirai.
Non riuscirai a tenermi
sveglio la notte come feci con It a 16 anni, sette ore a leggere col
lumicino pur di levarmi di dosso gli incubi che mi assalivano
ogni volta che chiudevo occhio o andavo in cantina a prendere una
bottiglia di vino per mio padre.
Non riuscirai a farmi
portare in giro nei posti più improbabili e scomodi (sul tram, in
spiaggia, a casa della fidanzatina) un libro della mole de L'ombra
dello scorpione in versione integrale (per chi non lo sapesse più di
1000 pagine scritte in caratteri simpaticamente microscopici nella
sua versione """tascabile""") pur di
non lasciare da soli i miei eroi durante la fine del mondo.
Non riuscirai a tenermi un
giorno intero inchiodato a letto credendo di essere nel Miglio Verde
nella speranza che John Coffey si salvi.
E non riuscirai nemmeno a
farmi leggere un racconto dietro l'altro ripetendomi continuamente
"Ancora uno piccolo e poi la smetto..."
E invece no.
A 68 anni King, in piena
crisi bulimica da scrittore compulsivo (ormai pubblica almeno due
romanzi l'anno più una raccolta di racconti, qualcosa che a ben
pensarci dovrebbe ispirare uno dei suoi horror), è ancora
capace di prendermi di peso e portarmi in un altro mondo senza
nemmeno tanti sforzi.
Gli
bastano due capitoli nostalgici sull'ennesima infanzia passata nel
Maine, questa volta all'interno di una felice e numerosa famigliola
religiosa, ed eccomi li a portarmi a spasso Revival dappertutto. In
edizione rigida. Con 470 pagine. Al lavoro, in macchina, nel tascone
dei pantaloni corti mentre vado in giro. Insomma, di nuovo.
Non dirò che Revival è
un capolavoro.
Sono anni che, pur non
leggendo tutto quel che King pubblica (per stargli dietro dovrei
leggere solo più lui, e non mi va ancora di diventare pazzo), il Re
dell'horror non scrive un vero e proprio capolavoro; forse i tempi di
It, L'ombra dello scorpione, Pet Sematary, Cuori in Atlantide,
Stagioni diverse e Il miglio verde sono passati per sempre o forse
semplicemente sono io ad essere diventato troppo esigente.
Niente capolavori quindi,
ma libri più o meno buoni a seconda delle stagioni.
Duma Key, tanto per dirne
uno recente, ma non recentissimo, era una mezza ciofeca nonostante la
buona idea di partenza. Pareva il libro di uno scrittore anziano che
vive su un'isola scema del Pacifico, col cappellino di paglia in
testa e poche gioiose idee che gli rimbalzano nel cervello rugoso senza saper
dove andare. Non il massimo, ecco.
22/11/63 invece era un
buon romanzo. Con una parte centrale decisamente inferiore
all'incipit e al finale (uno dei pochi riusciti nella lungherrima
carriera e quindi già solo da ricordare per quello), ma comunque
molto buono.
E poi c'è Revival.
Che è meglio di 22/11/63
e quasi allo stesso livello di quel Cuori in Atlantide che metto
tranquillamente tra i migliori.
Perché c'è un'ottima
idea di partenza, ma soprattutto perché c'è uno sviluppo degno del
King degli anni migliori. Si parte da uno dei pezzi forti del nostro
(l'infanzia, un'età magica che solo lui sa descrivere così
meravigliosamente), per attraversare poi la vita intera del
protagonista per spizzichi e bocconi. Un assaggio di adolescenza, un
salto nei 40, un ritorno ai 30 e poi via via lentamente verso i 50 e
infine i 60. Revival pare più una biografia che un romanzo qualsiasi
e arriva al succo soltanto nelle ultimissime pagine, prendendosela
con calma sugli aspetti della vita più reali e accelerando su quelli
più soprannaturali, quasi a voler far sembrare questi ultimi lampi e
tuoni che irrompono nella nostra esistenza di sole e nubi.
Con gli anni King sembra
aver abbandonato ormai del tutto ogni orpello che non abbia a che
fare con la vera e propria storia che sta raccontando e quindi la
narrazione prosegue ancora più spedita del solito, fino ad arrivare
al finale burrascoso che tutti attendono.
Che non è un brutto
finale.
Mi piace scrivere
recensioni e, di conseguenza, mi piace leggerne. Sarei un coglione a
non farlo. E sarei anche un pirla che pretende di essere letto senza
leggere niente di quel che gli altri scrivono. Questo per dire che ho
letto ben più di una recensione che parlava di una seconda metà del
libro deludente e soprattutto del solito finale imbarazzante a là
King. E per una volta, o forse per l'ennesima, non sono d'accordo.
Il finale soprannaturale
di Revival, esattamente come quello di 22/11/63, è fatto di poche
pagine. Pochi brevi accenni ad un orrore che l'occhio umano non può
sopportare e che lo scrittore del Maine, a quasi 70 anni, riesce
ancora a descrivere incutendo terrore. É vero che il romanzo sembra
accumulare dettagli su dettagli per poi smontarsi in poche semplici
righe, ma è anche vero che qui, come in 22/11/63 e come nel 90% dei
romanzi del Nostro, quello che davvero conta è il finale che viene
dopo, quello che riguarda la vita vera. Quella di un uomo dell'età di
Stephen stesso che è passato non casualmente attraverso la droga, la
musica rock e la morte di molti dei suoi cari (e indirettamente anche
attraverso un incidente automobilistico, cosa che King non dimentica
mai di inserire nei suoi romanzi da 15 anni a questa parte), per
arrivare ad un'anzianità fatta di tanti ricordi.
Stupendi, brutti, belli e
orrendi.
Ma tutti profondamente
Kinghiani.
E quindi urliamolo ancora
una volta.
W il Re.
W colui che la racconta.
REVIVAL
AUTORE: Stephen King
ANNO: 2014
GENERE: Horror, Drammatico
VOTO: 8
Di che si parla
Drammatico,
Horror,
King Stephen,
Libro
domenica 31 maggio 2015
HORROR IPERREALISTA
Questa recensione è stata scritta l'11 ottobre 2011 e rivista completamente il 31 maggio 2015
REVOLUTIONARY ROAD
AUTORE: Richard Yates
ANNO: 1961
GENERE: Drammatico, Letteratura americana
VOTO: 10
Se fossi un ragazzo che rilegge i libri, in questo
momento sarei di nuovo a pagina 1 di Revolutionary Road.
Mi farei
riavvolgere dal lento e agile fluire di parole di Yates, mi
reimmergerei nel sobborgo americano da “Edward mani di forbice”
in cui si trasferiscono i suoi protagonisti, mi intrufolerei di nuovo
tra le vite piatte dei Wheeler per trovarvi indizi per niente
nascosti della tragedia imminente.
Revolutionary Road è il libro
che consiglieresti a tutti, ma finisci per non consigliare a
nessuno.
Mi spaventerebbe sentir di persone che ne parlano come di
un libro in cui non accade nulla, di altre che proprio non lo
capiscono, di altre ancora schierate dalla parte di April, di Frank o
dei Campbell.
Mi terrorizzerebbe pensare di essere l’unico a
spaventarsi per un libro simile, a inquietarsi al punto da domandarsi
quanto Frank o quanta April c’è dentro di me.
Voglio rimanere
in un paesello di periferia a svolgere “il lavoro più cretino che
ci sia?”
Voglio fuggire in Europa senza nessuna sicurezza sul
futuro, ma con tanta potenziale libertà?
Ed è un Givings quel
mio amico incapace di non mascherare tutto sotto un sorriso idiota? O
è un Campbell che si costringe a lavorare come un mulo e ad essere
efficiente per illudersi di essere ancora abile a qualcosa? O ancora
è un Givings Junior, pazzo ma in grado di squarciare il velo di una
realtà illusa ed illusoria?
Revolutionary Road, pur con tutti i
suoi 50 anni sulle spalle, è talmente iperrealistico da essere
spaventoso, come quelle foto di famiglia in cui tutti i parenti
sorridono, ma tu sai che di li ad un mese uno di loro sarà morto,
consumato da un orribile cancro o trovato appeso ad un cappio nella
vasca da bagno.
PS: Avendo visto il film tratto dall’opera cinque
anni fa, ed avendo provato le stesse sensazioni che mi ha dato Yates,
posso tranquillamente dire che la trasposizione di Mendes con Di
Caprio e la Winslet (perfetti) è a dir poco stupenda. La scrittura
di Yates è cinematografica con tutti i suoi cambi di piano, le sue
zoomate e i suoi piani lunghi, ma solo un regista e uno sceneggiatore
con una gran sensibilità e due grandi attori a disposizione (oltre
ad ottimi comprimari come Kathy Bathes) poteva mettere su schermo in
modo così credibile e vero un’opera simile.
PPS: ancora una volta un plauso all’edizione
Minimum Fax, collana: I quindici. Dopo “L’opera galleggiante”
di Barth è questo il secondo libro della stessa collana che possiedo
e oltre ad avere un formato oggettivamente bello (cosa che ho
imparato ad apprezzare dopo anni e anni di tascabili stampati su
carta igienica) contiene all’interno 4 o 5 speciali davvero gustosi
sull’opera e sull’autore.
REVOLUTIONARY ROAD
AUTORE: Richard Yates
ANNO: 1961
GENERE: Drammatico, Letteratura americana
VOTO: 10
giovedì 21 maggio 2015
WILL FERRELL NON FA RIDERE
Cose che mi fanno ridere:
i Griffin, Seth Rogen, Edgar Wright, i Fucktotum.
Cose che non mi fanno
ridere: Big Bang Theory, Will Ferrell, Zelig, Douglas Adams.
Ora che sapete tutto ciò
siete pronti a leggere.
Un attimo, no, se Will
Ferrell ti ha fatto ridere, ti fa ridere o pensi che ti potrà far
ridere in futuro puoi anche fermarti qui. Io e te, te che ridi per
quest'uomo qui sotto, non andremo mai d'accordo, quindi tanto vale
che la smetti pure di leggere, di seguirmi e, se vogliamo proprio
dirla tutta, anche di andare al cinema. Sei una brutta persona, è
ora che qualcuno te lo dica.
Eccoci, possiamo
cominciare.
Venere sulla conchiglia è
considerato dai più come uno dei libri fondamentali da leggere per
chi è appassionato di fantascienza. Non che il romanzetto di Philip
Jose Farmer (nella mia edizione Urania del 1720 rilegato in cartaculo
ancora sotto pseudonimo Kilgore Trout) sia stato una pedina
fondamentale per la creazione di nuovi mondi (Dune), per le visioni
future (Asimov) o per la quantità di idee messe giù in fretta,
furia e droga e poi scopiazzate da tutti (Philip K. Dick), è che
semplicemente è considerato un punto di svolta.
Si ma riguardo a cosa per
Dio?
Un attimo di calma.
Prendete un superclassico
della fantascienza come Dune e andate a leggervi le parti che
riguardano la religione o il sesso: vi ritroverete sotto gli occhi
tanti e tali giri di parole da farvi venire il mal di testa, la
nausea e anche un po' di mal di pancia. Siamo sicuri che Herbert
vivesse sul nostro mondo per pensare anche solo alla metà delle
follie che va descrivendo per tutto il romanzo e i suoi seguiti
riguardo i due argomenti citati?
E avete mai trovato una
scena d'amore che non sia una fregnaccia da romanzetto rosa fatta di
sguardi e candide carezze in Asimov?
E in Whyndam non vi sembra
che manchi solo una donnina che dice “Mio eroe!!!” cadendo fra le
braccia del suo amato? (Si, lo so, i suoi libri femministi e
blablabla, ma non sto parlando di quello).
Ecco qual è la svolta di
Philip Jose Farmer nel 1974: introdurre il sesso e la religione nella
fantascienza e senza nessuna remora fare del grasso e grosso umorismo
su di essi, fregandosene del lettore medio del genere (ancora legato
all'immaginario lucido e muscoloso di Conan) e anche del buon costume
dell'epoca.
Solo che c'è un problema:
Venere sulla conchiglia non fa ridere, per niente direi.
E vorrebbe farlo
purtroppo.
Lo scrittore americano
assomiglia molto di più a Douglas Adams che ai Griffin e fa di tutto
per pasticciare una storia che, sulla carta, potrebbe anche sembrare
interessante.
Non starò a parlarvi dei
viaggi del Vagabondo Spaziale e dei suoi incontri con alieni a forma
di piramide e dirigibile (sigh) o della volta in cui si è fatto
piantare una coda sul sedere per poi ritrovarsi a far sesso in modi
bizzarri con la Regina del pianeta (ehm...) perché il riassunto
potrebbe essere più lungo del romanzo stesso. Vi basti sapere che
Venere sulla conchiglia è un pasticcio di miniavventure che non si
accontenta di volervi far ridere nei modi più beceri (a volte sembra
di leggere le freddure che andavano tanto di moda in quegli anni),
ma vuole anche farvi riflettere sui problemi della società di allora
(che poi, a dirla tutta, sono gli stessi di quella attuale). Ci
saranno chiari riferimenti alla stupidità degli uomini rispetto alle
donne e monarchi idioti, Dei che vanno a prendersi il caffè e non
tornano più indietro e razze che puliscono l'universo dai loro
microbi. E ovviamente ci sarà sesso per tutti i gusti.
Solo che non riderete.
A meno che non vi piaccia
Will Ferrell.
AUTORE: Philip Jose Farmer
ANNO: 1974
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4,5
Di che si parla
Fantascienza,
Farmer Philip Jose,
Libro
martedì 28 aprile 2015
PAPÀ CASTORO RACCONTACI UNA STORIA!
Questa recensione è stata scritta originariamente il 28 ottobre 2011 e rivista completamente il 27 marzo 2015
Mi avvicino a Corona con entusiasmo: quel montanaro
visto qualche volta in tv mi ispira simpatia e saggezza, mi racconta una
vita di altri tempi e di altri luoghi, mi suggerisce natura e
libertà.
Trovato un suo libretto usato ad un prezzo ridicolo, lo prendo al volo e lo metto a decantare in libreria per qualche mese fino al giorno in cui decido che è venuto il suo momento.
Trovato un suo libretto usato ad un prezzo ridicolo, lo prendo al volo e lo metto a decantare in libreria per qualche mese fino al giorno in cui decido che è venuto il suo momento.
Sarà ancora capace il mio intuito librario (mi
suggeriscono acquisto compulsivo) di stupirmi?
Da Mauro Corona scrittore mi aspetto uno stile asciutto ma incantatore, voglio consigli e strigliate sull’abuso della natura, pretendo grandi insegnamenti.
Quel che mi ritrovo nelle prime 100 pagine sono raccontini di quinta elementare scritti da un uomo che sembra aver vissuto per 100 anni nella sua valle: ci sono personaggi che appaiono e scompaiono nel giro di mezza paginetta, tanti accenni ad una gioventù da bimbo di montagna e soprattutto punti, virgole e “e” come se piovesse. Dove sono scomparsi i “punti e virgola” e i due punti e le subordinate? E i grandi insegnamenti?
Proseguo a singhiozzi; per una persona che odia i romanzi a episodi e le grandi raccolte di racconti, queste storielle da 1 pagina e mezza sono una tortura infinita: “C’è Tizio, c’è Caio, Tizio e Caio hanno fatto questo e quello”.
Poi pian piano lo scrittore ertano sembra finalmente ingranare la marcia, i racconti si fanno più lunghi, le storie più vicine, più reali, più sagge e più “Papàcastoresche”.
Le ultime 100 pagine scorrono via come l’olio tra racconti di scalate fallite e cave di marmo abitate da dannati di pietra.
L’impressione finale è quella di un oratore straordinario limitato dalla sua stessa concezione dello scrivere: “Scrivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro”.
Saggezza, alcool, umiltà, natura, ingenuità, montagna e giovinezza.
Vorrei solo più sostanza.
Ci proverò ancora, Corona sa farsi voler bene.
Da Mauro Corona scrittore mi aspetto uno stile asciutto ma incantatore, voglio consigli e strigliate sull’abuso della natura, pretendo grandi insegnamenti.
Quel che mi ritrovo nelle prime 100 pagine sono raccontini di quinta elementare scritti da un uomo che sembra aver vissuto per 100 anni nella sua valle: ci sono personaggi che appaiono e scompaiono nel giro di mezza paginetta, tanti accenni ad una gioventù da bimbo di montagna e soprattutto punti, virgole e “e” come se piovesse. Dove sono scomparsi i “punti e virgola” e i due punti e le subordinate? E i grandi insegnamenti?
Proseguo a singhiozzi; per una persona che odia i romanzi a episodi e le grandi raccolte di racconti, queste storielle da 1 pagina e mezza sono una tortura infinita: “C’è Tizio, c’è Caio, Tizio e Caio hanno fatto questo e quello”.
Poi pian piano lo scrittore ertano sembra finalmente ingranare la marcia, i racconti si fanno più lunghi, le storie più vicine, più reali, più sagge e più “Papàcastoresche”.
Le ultime 100 pagine scorrono via come l’olio tra racconti di scalate fallite e cave di marmo abitate da dannati di pietra.
L’impressione finale è quella di un oratore straordinario limitato dalla sua stessa concezione dello scrivere: “Scrivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro”.
Saggezza, alcool, umiltà, natura, ingenuità, montagna e giovinezza.
Vorrei solo più sostanza.
Ci proverò ancora, Corona sa farsi voler bene.
NEL LEGNO E NELLA PIETRA
AUTORE: Mauro Corona
ANNO: 2003
GENERE: Racconti, autobiografico
VOTO: 6
giovedì 16 aprile 2015
UN MARE DI RICORDI
Se L'ultima estate al
bagno Delfino fosse solo un romanzo di formazione lo amerei a
prescindere, ma siccome è un romanzo di formazione ambientato in un
paesino di mare italiano semplicemente lo adoro.
Ci sarebbero troppi
risvolti biografici da scodellare per comprendere questo mio amore
incondizionato, ma l'unica cosa che davvero conta è che i miei
amici, i miei veri amici, quelli con cui ho vissuto i momenti più
esilaranti, imbarazzanti, ubriacanti, amoreggianti, anti, anti, anti,
sono quelli che da sempre ritrovo al mare, nella stessa spiaggia da più di 15 anni.
La mia prima cotta, il mio
primo amore, la mia prima sbronza, il mio primo bagno di notte, il
mio più grande rimpianto, la mia prima stronzata, il mio migliore
amico, fatevi venire in mente qualsiasi cosa può segnare la vita di
un non più troppo ragazzo e io l'avrò fatta lì, in quel desolato
paese ligure di mare in cui torno ogni estate.
Nonostante L'ultima estate
al bagno Delfino sia ambientato in una zona che conosco poco o nulla,
una località balneare non meglio precisata della riviera romagnola,
tutto quello che Panzavolta racconta sembra riferirsi ai luoghi e
alle avventure della mia gioventù.
Certo, forse non mi è mai
capitato di veder finire in una simile tragedia uno scherzo da
ragazzini incoscienti (nonostante più d'uno avrebbe potuto finire
anche peggio a ripensarci) e le nostre partitelle coi bagni vicini o
le compagnie “avversarie” possono essere finite al massimo in una piccola
rissa da spiaggia, ma il clima che lo scrittore romagnolo ricrea
nelle pagine del romanzo è esattamente quello che ho vissuto durante
la mia adolescenza.
Il finale brusco che
Claudio dà alle vicende adolescenziali dei ragazzi è quello che
ormai ho imparato a conoscere bene in questo tipo di romanzi, un
finale che io per fortuna non ho conosciuto andando incontro ad un
lento sfumare di quegli anni che stanno facendo spazio a quello che ne
L'ultima estate al bagno Delfino è una vita adulta colma di
nostalgia e sensi di colpa mai espressi.
Maledetti libri
verità.
L'ULTIMA ESTATE AL BAGNO DELFINO
AUTORE: Claudio Panzavolta
ANNO: 2014
GENERE: Romanzo di formazione
VOTO: 8
venerdì 20 marzo 2015
NUOVE ADOLESCENZE
Un romanzo di formazione, più di un libro di fantascienza, più di una biografia, più di una saga familiare, è come viene scritto.
Insomma, diciamoci la verità, il passaggio dall'adolescenza alla vita adulta di un ragazzo (o di un gruppo di ragazzi) avviene nel 99% dei casi librari con la morte di un amico. Si, d'accordo, non sono tutti così e c'è chi parla della fuga dalla società e c'è chi parla del rapporto coi parenti e c'è anche chi racconta semplicemente della vita di tutti i giorni di un sedicenne, ma in generale c'è la morte di mezzo, perché la morte fa crescere e chiunque non se ne sia ancora accorto molto probabilmente non ha ancora superato i 16 anni.
E quindi, una volta che conosco in anticipo ciò che sto per leggere, per quale motivo dovrei riprendere in mano un altro libro simile?
Perché un romanzo di formazione ti può riportare a comprendere cose che ti sono sfuggite a quell'età o che ti sono passate davanti senza che nemmeno te ne accorgessi e soprattutto perché un ottimo romanzo di questo genere è capace di riportarti davvero indietro nel tempo, nella tua testa di cazzo da sedicenne con i tuoi vestiti brutti, la parlata gggiovane e il comportamento del peggior minchione che tu abbia mai conosciuto: te stesso a 16 anni.
Se sei adulto.
Se sei adolescente invece può farti sentire a casa e meno solo al mondo e farti comprendere ciò che alla tua età non puoi capire da solo e che nessun adulto verrà a dirti in faccia. Cosa esattamente? Non chiedetelo a me.
Solo che è difficile trovare un buon romanzo di formazione.
Avendone letti tanti posso tranquillamente dire che troppi sono romanzi adulti per adulti con insegnamenti da adulti che si mascherano da formazione con la stessa scaltrezza con cui tu da bambino ti vestivi da pirata: ti mettevi la bandana e il copriocchio e sotto avevi i jeans e le Nike. Potevi anche far credere ad un bambino della tua età che eri un vero pirata così come lui era un buon Batman coi suoi pettorali di plastica da uomo pipistrello, però dai, siamo seri, eri anche un bel bimbetto, ma non eri un pirata. E men che meno lui era Batman, con quegli occhialetti tondi dalle lenti spesse tre dita e il caschetto che neanche Nino D'Angelo ai tempi d'oro.
Invece Esche vive è un vero pirata, pardon un vero libro di formazione.
Scritto da una persona che sa come si sente e si esprime un diciannovenne del 2015, pur con tutti i regionalismi del caso, ma soprattutto da un uomo che è consapevole di cosa sono i trent'anni oggi, una sorta di adolescenza tirata troppo per le lunghe, incapaci di dare le stesse emozioni dei sedici anni eppure ancora troppo lontani da quella vita adulta che spaventa con il suo gretto materialismo e i suoi sogni infranti.
Forse Genovesi non riesce ad entrare nella testa di tre generazioni diverse (Mirko il Campioncino, ancora in fase preadolescenziale, spesso sembra un personaggio fin troppo forzato), ma la scrittura ingenua di un diciannovenne e quella brillante e ancora piena di speranza di una trentenne bastano per mettere Esche vive tra i migliori romanzi di formazione che io abbia letto.
Genovesi parla di quella provincialità che sicuramente piacerà di più a chi il paesino di campagna l'ha vissuto, ma che non può non colpire tutti quei sedicenni (ed ex sedicenni) che in fondo si sentono soli e incompresi anche all'interno della grande città.
Delusioni, personaggi da paese, amori adolescenziali, traumi infantili, adulti ossessionati, vecchi con la testa dura, band di metallo duro, amori intergenerazionali, ma soprattutto tanta, tanta, tantissima speranza.
Perché in fondo il romanzo di formazione è come viene scritto, ma se non sai cosa raccontare puoi anche smettere subito.
ESCHE VIVE
AUTORE: Fabio Genovesi
ANNO: 2013
GENERE: Romanzo di formazione
VOTO: 8,5
mercoledì 11 marzo 2015
LA CASERMA IN CUCINA
In mezzo a chef stellati
ridotti a far la pubblicità delle patatine, napoletani grandi e
grossi che rimettono in sesto ristoranti che il giorno dopo ci vai e
sono uguali a prima, inglesi che cucinano un bel piatto di pasta al
sugo "all'italiana" piazzandoci sopra le due temutissime
polpette e altri inglesi che sbraitano e gesticolano manco fossero a
Little Italy, c'è Anthony Bourdain, un cuoco americano non proprio
qualsiasi, ma quasi, che ha passato metà della sua vita a bere e a
drogarsi e l'altra metà a bere e cucinare.
Bourdain è il classico
cuoco che non vorresti vedere in cucina a cucinare la tua bistecca:
te lo immagini lì con la sigaretta in bocca, più impegnato a
controllare quanto whisky gli rimane nella bottiglia che ad osservare
la giusta cottura del tuo manzo.
E lui in Kitchen
Confidential lo ammette: le cucine, quelle vere, quelle dei
ristoranti di fascia medio-alta (per quelle basse guardatevi qualche
puntata farlocca di Cucine da incubo USA) in pieno centro a New York
con 300 coperti e prezzi non proprio alla mano sono un vero e proprio
macello. Ci sono insulti, sguatteri sudamericani mal pagati, sangue,
fumo, alcool, risse e persino sesso.
Dimenticatevi dell'ordine
e della pulizia del banco di lavoro imposto dai grandi talent
culinari o dei falsi ordini brutali sbraitati da quell'ex giocatore
di calcio pluristellato, il mondo descritto da Bourdain è qualcosa
di più simile ad una caserma in cui il bullismo e il nonnismo sono
la regola a cui non si può sfuggire.
La vita dell'ex chef del
Les Halles (ora completamente impegnato in tv e nella scrittura di
libri) è un sogno americano un po' distorto che passa dall'essere un
figlio di papà e quindi un ribelle al fallimento, dal fallimento
alla risalita e quindi di nuovo al fallimento, all'alcool, alla
droga, ad un nuovo fallimento e ad un altra risalita fino a questo
libro.
Kitchen Confidential è
breve, ma intenso e ha il merito di essere stato scritto nel 2000,
poco prima dell'esplosione della cucina in tv, sui libri, sui fumetti
e ovunque voi possiate posare lo sguardo.
Forse non è esattamente
il genere di libro che invoglia a voler fare il cuoco e sicuramente
non è il manuale che vi insegnerà come cucinare il tuorlo d'uovo
marinato a là Cracco, ma il romanzo-biografia di Bourdain è un
libro genuino, scritto da un sanguigno col sangue.
E io sinceramente non
chiedo altro.
KITCHEN CONFIDENTIAL
AUTORE: Anthony Bourdain
ANNO: 2000
GENERE: Biografia, Cucina
VOTO: 8
Di che si parla
Biografia,
Bourdain Anthony,
Cucina,
Libro
venerdì 27 febbraio 2015
NOSTALGIA PORTAMI VIA
Questa recensione è stata scritta originariamente il 31 gennaio 2012 e rivista completamente il 27 febbraio 2015
11/22/63- 22/11/63
AUTORE: Stephen King
ANNO: 2011
GENERE: Fantastico
VOTO: 7,5
22/11/63 è pieno di incongruenze, difetti e
ripetizioni.
Ci sono le incongruenze legate al viaggio nel tempo.
Quello di King è di un tipo abbastanza particolare: si può tornare
indietro nel tempo attraverso una "bollicina temporale"
(termine orrendo usato sul finale), far tutto quel che si vuole per il
tempo che si vuole e tornare in un presente in cui sono passati solo
due minuti dalla partenza, ma su cui l’effetto farfalla ha avuto i
suoi esiti (nefasti o meno). E perché si possono portare oggetti di
qua e di là nel tempo senza nessuna conseguenza? Boh. E come ha fatto Al
ad avere i suoi primi vecchi dollari del ’58 da spendere nel
passato? Boh. E perché, nonostante venga ribadito una cinquantina di
volte che il "buco temporale" è fragile poichè frutto di
una serie di coincidenze, la buca del coniglio rimane sempre al suo
posto qualsiasi cosa Jake combini nel ’58? Boh.
E via
dicendo.
Ci sono i difetti nel corpo (parecchio grasso) del
romanzo. Era necessario autocitarsi così palesemente nelle prime 200
pagine? Una volta esaurito il suo compito di “causa primaria della
follia di Lee Oswald” a cosa serve tirare in ballo per la
milionesima volta la madre di Oswald facendola apparire come una
sorta di mostro Kinghiano capace di ringiovanire nutrendosi del pianto di
una bimba per poi non nominarla più? E del sonaglino rosso di June
Oswald cosa dovremmo pensare dopo tutte quelle punzecchiature? E soprattutto: se scrivi un romanzo
sulla possibilità di salvare Kennedy, perché le conseguenze del
gesto sono riassunte in 5 e dico 5, pur goduriosissime, pagine
stiracchiate?
E ancora via dicendo.
Ci sono le ripetizioni. “Il
gradino rotto di casa Oswald”. Ok… “Il gradino rotto di casa
Oswald”. Ok… “Il gradino rotto di casa Oswald”. Ok… “Il
gradino rotto di..” ma baaasta! “L’effetto farfalla”. Oh
certo.. “L’effetto farfalla”. Si beh l’hai detto due pagine
fa.. “L’effetto farfalla”. Mi prendi per il culo? “L’effetto
farfalla”. Dio questo ha l’Alzheimer…
E via
stradicendo.
Dunque 22/11/63 è un libro perfetto? No, per
niente.
Può essere paragonato a tre capolavori Kinghiani (con l'h o senza h?) come “Stagioni
diverse”, “Il miglio verde” o "Cuori in Atlantide"?
Nemmeno per sogno.
Ma 22/11/63 rimane un buonissimo romanzo.
Messo
su carta da un uomo a cui negli ultimi anni sembrano mancare un po’
le idee (un interquel, che brutta parola, de La torre nera, un sequel
di Shining, o, come in questo caso o in quello di The Dome e Blaze,
un’idea ripresa dal passato remoto), ma il cui mestiere e la
volontà non si discutono.
Scritto da un King che forse considera
i suoi lettori abbastanza rincoglioniti da dovergli ripetere 10 volte
anche l'informazione più elementare, ma che sicuramente non gli
manca di rispetto con lavori mastodontici di scrittura e di ricerca
(si veda la postfazione) come in questo caso.
È un Re
autocitazionista quasi fin alla nausea quello di 22/11/63 (anche se
la mia idea rimane quella di un autore che, arrivato ad una certa
età, stia tentando di dare un senso di unità alla sua vastissima
opera), capace di accettare i consigli del figlio scrittore (e il
finale ne guadagna, se avete letto la prima bozza del finale di King
sul suo sito) e ormai sempre più nostalgicamente legato ad un
passato pieno di difetti, ma comunque migliore. Una nostalgia che,
per una volta, non riguarda l’età preadolescenziale e il suo
seguito, ma quell’età adulta che King molte volte ha faticato a
descrivere (si veda la parte “adulta” di It, nettamente inferiore
a quella fanciullesca). Che il segreto risieda nel lento allontanamento da quegli anni vissuti in prima persona?
Niente
più insegnamenti, prediche, morali: lo Stephen King del 2011 è pura
storia, perché in fondo il fedele lettore lo sa che è la storia che
conta, solo quella.
E che sia pure d’amore, in fondo uno
scrittore multimilionario sposato da 41 anni con la stessa donna ne
saprà qualcosa più di me no?
E che sia pure d'amore, in fondo uno scrittore multimilionario...ops scusate, pensavo di essere Stephen King...
11/22/63- 22/11/63
AUTORE: Stephen King
ANNO: 2011
GENERE: Fantastico
VOTO: 7,5
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