lunedì 13 giugno 2016

FANTASCIENZA D'AUTORE (MA ANCHE NO)


C'è qualcosa che non va ne I primi tornarono a nuoto e, stranamente, so esattamente che cos'è.
É la voglia di emulare Cecità di Saramago e The Road di McCarthy, quella voglia che traspare nella semplice storia fantascientifico-apocalittica che diventa fin da subito un modo per parlare dei problemi della nostra società attuale, passata e futura, in modo trasversale, diverso, protetto, autoriale (anche la sola scelta di non specificare il nome delle città in cui è ambientata la storia, per quanto chiaramente intuibile dalle descrizioni, sembra ricalcare quella dei due autori).
Certo, anche Assalto alla Terra e Il mostro della laguna nera e Il giorno dei trifidi e il 90% della produzione fantastica di sempre celano dietro uno strato più o meno sottile di fantascienza la voglia di polemizzare/criticare/lodare la nostra società, ma lo fanno in altro modo, meno diretto, meno sfrontato, meno intellettuale.
Il primo libro di Papi appartiene invece a quella nuova branca di sci-fi scritta da autori con la A maiuscola, desiderosi di prendere il materiale grezzo per plasmarlo a modo loro, mescolandolo con oro e preziosi per farne una materia rara che magari non piacerà ai puristi, ma farà la gioia di chi non ne è avvezzo.
Solo che Giacomo Papi non è un autore con la A maiuscola.
La sua creazione pare più un Art Attack di un bambino che vuole emulare Muciaccia. Senza avere la tonnellata di materiale """riciclato""" del suddetto. E alla fine vien fuori na ciofeca che si spiccica. E si scolla ovunque.
Il secondo problema è quello della frase qui sopra: la punteggiatura, in particolare i punti.
Ora, io capisco che il punto, in quanto punto, sottolinei e dia forza e vigore ad una frase.
E capisco anche che McCarthy e Saramago si siano lanciati in punteggiature/non punteggiature folli nei due libri citati prima, ma tu sei Giacomo Papi per Dio. E questo è il tuo primo romanzo.
Perché mai riempire un romanzo di 213 pagine con 4000 punti? Perché non usare tutto quell'armamentario di segnetti strani che compaiono sulla tastiera sopra/sotto/a destra/a sinistra delle lettere? Cosa ti hanno fatto di male la virgola, il punto e virgola, i due punti, le parentesi, le virgolette e il trattino?E la risposta "é una scelta autoriale" no, non mi basta. Giustificherei forse un "quando ero bambino la virgola mi picchiava sempre usando il punto e virgola e i due punti mi sbarravano la strada quando tentavo di fuggire alle parentesi" ma dubito che sia successo. Una virgola, che io sappia, non ha mai ucciso nessuno, checché se ne dica (e non credete a quella storia delle virgole giganti che vivono nelle fogne di New York, è una leggenda metropolitana!).
La tendenza di Papi a strafare non si ferma comunque alla sola punteggiatura, ma sconfina nelle parole. A volte nel bel mezzo della storia ci si ritrova impantanati in sbrodolamenti di 10-20 righe sul nulla più assoluto: la bellezza della luna, il parto, la città. Non che alcune considerazioni non siano interessanti e ben scritte, ma sembra che Papi adori specchiarsi, leggersi, ammirarsi per il proprio stile e dire allo stesso tempo: visto? Non sono solo uno scrittore di fantascienza.
Peccato, sarebbe stato molto meglio.

I PRIMI TORNARONO A NUOTO
ANNO: 2012
AUTORE: Giacomo Papi
GENERE: Fantascienza
VOTO: 5

giovedì 19 maggio 2016

LA SCENEGGIATURA QUESTA SCONOSCIUTA


C'è un problema grosso nei blockbuster americani odierni: la sceneggiatura.
Prendete un qualsiasi prodotto ipercostoso prodotto a Hollywood per il grande pubblico e vi renderete conto che non manca nulla: grandi attori, scenografie incredibili, effetti speciali da urlo, fotografia pazzesca e effetti sonori che ti sembra di essere catapultato dentro il film.
E la sceneggiatura?
La sceneggiatura nel 90% dei casi non esiste.
Si certo, ci hanno lavorato sopra 10 persone, c'è chi ha pensato il soggetto, chi lo ha elaborato per primo, chi l'ha ripensato, chi l'ha stravolto, chi lo ha riportato all'origine e chi, con sprezzo del pericolo ha fatto le ultime modifiche e ci ha messo pure la firma ma, statene pur certi, farà schifo.
Provate a guardare anche solo una megaproduzione Holliwoodiana degli anni '80 (senza andare a scomodare anni ancora più gloriosi) e notate le differenze tra un film scritto da persone intelligenti per persone intelligenti e un carrozzone scritto da persone (forse) intelligenti per quella che si crede una massa di rincoglioniti.
Non vi capiterà mai (o quasi) di vedere un blockbuster oggi iniziare in medias res perché tutto va prima spiegato, poi rispiegato a metà film e infine riassunto alla fine della pellicola, in modo che tutti, ma davvero tutti, possano comprendere.
Ma non è solo un problema di spiegoni il mio e non vuole nemmeno essere un discorso da vecchio trombone amante del vecchio cinema: mi piacciono i film moderni, non sono un amante del bianco-nero o uno che vi dirà mai “Ah ma come recitava Marlon Brando, oggi nessuno!”. Vi dirò di più: amo i blockbuster con tutti gli effettacci speciali e il loro dispiego di tecnologia, ma non ne posso davvero più.
Ieri sera ho visto Capitan America: Civil War.
Ho aspettato un paio di settimane dalla sua uscita perché, pur avendo visto finora tutti i film Marvel usciti nelle sale, con l'ultimo Avengers mi ero scottato non poco e Ant-Man mi aveva quasi dato la botta di grazia.
Ma io non demordo.
Le critiche a Civil War sono abbastanza buone (su metacritic, l'aggregatore di critiche ufficiali nel mondo ci aggiriamo sul 75/100) e quindi perché non provarci ancora una volta?
Forse il cambio di regia e le critiche durissime ricevute da Age Of Ultron hanno fatto comprendere gli errori alla Marvel/Disney e finalmente potremo godere di un buon film, come lo era stato il primo Avengers.
Non chiedo tanto: non mi aspetto un Batman di Nolan o un Xmen: giorni di un futuro passato di Synger, solo un buon film, niente di più.
Dopo un'ora e un quarto sulla poltrona, all'accensione delle luci per quello che mi piace ancora chiamare la “fine del primo tempo” (e non l'anonimo “intervallo”) avevo la bava alla bocca e stavo per svenire.
Che due palle.
La prima ora e un quarto del nuovo Cap America (che poi a dirla tutta è il terzo Avengers) è una sequela ininterrotta di: botte (sempre rigorosamente tutte girate male), battuta, botte, battuta, spiegone, cambio scenario, introduzione di un personaggio, battuta, botte, spiegone cambio scenario, personaggio nuovo, botte, battuta, cambio scenario e botte e blablabla dicendo all'infinito.
Inizio secondo tempo.
Botte, battuta, cambio scenario (ma solo un paio dopo i dieci cambi repentini della prima parte), personaggio nuovo (ancora), botte, battuta, botte, battuta e finalone spiegone.
Capitan America: Civil War è la ripetizione ostinata di tutte le caratteristiche buone e cattive che hanno portato al successo i film dei Marvel Studios e che, abbastanza prevedibilmente, li porteranno nella tomba insieme ai gangster movie degli anni '30 e ai film di guerra dei '50 tra non so quanti anni.
Sinceramente non mi va di star qui a fare un discorso articolato su cosa non funziona in un film del genere, perché spremermi le meningi per mettere assieme una sintassi corretta, battute, citazioni, riferimenti, quando tutto ciò che mi è stato rifilato ieri sera poteva essere pensato in 5 minuti esatti da una persona normodotata?
Vi farò quindi uno sterile elenco delle prime osservazioni che mi vengono in mente, sicuro che dimenticherò qualcosa e mi pentirò della mancanza di voglia di questa recensione già tra qualche ora.
Quindi:


  • Troppi personaggi: era già un problema di Avengers: Age of Ultron, non si poteva davvero fare niente per rimediare? Era necessario riportare Occhio di Falco in campo dopo che lo si era mandato in (quasi) pensione dopo l'ultimo capitolo? Non lo si poteva lasciare li dov'era? É necessario avere ancora Vedova Nera che senza alcun superpotere o superarmatura non può assolutamente competere con nessuno dei veri supereroi? Va bene, per qualcuno sarà anche una strafiga e tutto quel che volete, ma il suo personaggio è inutile e i suoi doppi-tripli giochi han rotto le palle, lo dice anche Downey Jr. Siamo sicuri di voler vedere ancora Falcon che adesso comanda pure un drone toccandosi il braccino? Se vi siete lamentati per come sono stati introdotti i personaggi nuovi nell'universo Dc in Batman V Superman, siete sicuri di volervi esaltare per uno Spiderman scoperto su Youtube da Iron Man? E soprattutto: di tutti sti cazzo di personaggi, possibile che non ne muoia mai neanche mezzo? Almeno il nero simil-Iron Man per Dio (War Machine, che poi se non lo dico i fumettari s'arrabbiano)! Non lo si poteva far morire? Lo teniamo buono per un eventuale abbandono da parte di Downey Jr all'universo Marvel? Qualcuno ha notato che le inquadrature tanto volute dal superdivo di Hollywood col pizzetto più disegnato della storia, su Don Cheadle non funzionano? Qualcuno ha notato che l'effetto “I mercenari” si avvicina sempre di più ad ogni film? Una battuta e una scena d'azione per personaggio e via, si passa al prossimo; quando anche i budget cominceranno a calare causa perdita d'incassi fisiologica, Stallone sarà li dietro l'angolo a ridersela beatamente, pensando che almeno lui non si era mai preso troppo sul serio.
Oh cacchio basta, non ce ne stanno più nella grafica, fermiamoci!
                       
  • Troppi attori delle pelle: questo è un corollario della prima osservazione. É ovvio che se vuoi avere trentordici supereroi protagonisti in un film non puoi avere trentordici superstar. Dopo i primi Downey Jr, Ruffalo, Johansson, si è sempre cercato di andare su visi nuovi che costassero poco. Chris Hemsworth è sicuramente il capo di tutti questi bellocci incapaci di recitare (e almeno in questo capitolo ce lo siamo evitati), ma Chris Evans gli è sempre stato dietro di pochissimi passi, capace di cavarsela quando il film richiede una ed una sola espressione (il primo Cap, il fantascientifico Snowpiercer), ma assolutamente non in grado in occasioni come questa, quando il personaggio richiede cambi repentini di espressione che evidentemente non appartengono al nostro. Vogliamo parlare di Cap America che sfoglia il fascicolo delle Nazioni Unite (o un librone gigante, perdonate la poca precisione) con sopracciglia corrugate e mento alzato e fiero? Vogliamo provare a salvare qualcuno tra Don Cheadle, Sebastian Stan o Paul Rudd? No, perchè sinceramente io non ci riesco.
Un uomo entra in un caffè, "splash"
  • Troppe battute: basta basta BASTA. Abbiamo compreso tutti che il successo dei Marvel Studios sta anche nell'aver portato questa vena umoristica all'interno del cinefumetto, ma siamo sicuri che sia questa la strada da seguire? Non vi manca la serietà di Nolan o le giuste dosi di Synger? Ci sono momenti in questa sceneggiatura del cazzo (fatemelo dire almeno una volta) in cui il momento-battuta è talmente scontato che ti sembra di vedere lo sceneggiatore fare capolino dietro lo schermo e strizzarti l'occhio per dirti che si, ora devi ridere. E il problema, il problema grosso, è che qualcuno ride anche a tutti questi ammiccamenti, facendomi preoccupare sulla salute mentale dell'umanità intera. Il prossimo passo sarà la risata finta da sitcom inserita direttamente nella pellicola.
  • Le motivazioni che muovono i personaggi e il loro status pre e post-film. Facciamola breve e senza spoiler: Civil War non cambia nulla nell'universo Marvel. D'accordo si sono presentati un paio di personaggi in più e si è scoperto che Antman può diventare gigante, ma nella storia non cambia nulla. Se domani uscisse il nuovo film degli Avengers potrebbe tranquillamente riprendere il filo da Age Of Ultron dato che, nonostante tutte le premesse e gli spiegoni, il finale conciliatorio ha riportato tutto alla situazione iniziale.
  • Il cattivo: il cattivo di turno fa semplicemente pena. Vedere sprecato uno dei pochi attori buoni sullo schermo per un ruolo del genere fa schifo e le motivazioni che muovono il suo personaggio sono altrettanto ridicole. Se la più grande minaccia per i supereroi è un idiota che si vuole vendicare di qualche parente morto, siamo davvero alla frutta.
  • Spiderman: mi ha messo i brividi. Si lo so che il personaggio è finalmente fedele al chiaccherone dei fumetti e le battutine e la giovinezza e la testardaggine e tutto quel che volete, ma io un film intero con un personaggio del genere non lo voglio vedere. Mi ha fatto cadere le braccia in 10 minuti, non voglio immaginare 2 ore così.
  • Antman gigante. Se al Bagaglino avessero avuto gli effetti speciali, molto probabilmente avrebbero girato una scena del genere, con un uomo gigante che si muove al rallentatore e i minisupereroi che sparacchiano tutte le loro armi e le loro battute come se non ci fosse un domani. Poi magari al Bagaglino ci mettevano l'imitazione di Occhetto e Pamela Prati, ma l'effetto è quello.
  • Le scene d'azione: sono tutte uguali. Tutte, tutte tutte tutte uguali. Io non sono un regista, non ho studiato da regista e neanche ho mai voluto esserlo, ma siamo sicuri che l'unico modo di girare una scena d'azione sia muovere la camera forsennatamente insieme ai due protagonisti per dare più movimento ad un'azione già di per sé caotica? Alla decima scazzottata tra superomini viene il dubbio che i fratelli Russo abbiano ancora 10 anni e abbiano pensato alle scene d'azione muovendo i pupazzetti sul divano di casa loro. Possibile che persino Lo chiamavano Jeeg Robot avesse una “scena di pugni” migliore? Si, possibile.
  • La seconda scena dopo i titoli: ne ho le palle piene di aspettare 20 minuti di titoli per una scenetta inutile da 10 secondi.

E questo direi che è tutto.
Sicuramente mi sarò dimenticato qualcosa e il voto presente qui sotto non sarà così basso come qualcuno si può aspettare (semplicemente perché esiste vera e propria spazzatuta cinematografica e non è questa), ma penso di aver parlato abbastanza di tutto quel che non va in questo terzo capitolo di Cap America, fiducioso che nulla cambierà finché gli incassi saranno di questa portata, ma convinto che prima o poi se ne accorgeranno tutti.
Che a Hollywood gli sceneggiatori sono stati sostituiti da scimmie ammaestrate.

CAPITAN AMERICA: CIVIL WAR
REGIA: Anthony e Joe Russo
ANNO: 2016
GENERE: cinefumetto
VOTO: 5


giovedì 28 aprile 2016

DI UOMINI ALTI, CUPI IN VISO E NUDI A ECCEZIONE DI UN PERIZOMA DI SETA SCARLATTA


Mi è difficile pensare ad un libro più brutto di questo.
Intendiamoci, ho letto tomi da 1000 pagine ben più noiosi e racconti brevi al limite del ridicolo, ho affrontato stili (postquesto e postquell'altro) che non mi sono andati giù nemmeno per cinque righe e ho pure abbandonato, seppure rarissimamente e con dispiacere, autori che proprio non riuscivo a digerire, però un libro così brutto non lo ricordo.
E lo dico sinceramente, con in testa immagini di marsuini parlanti alla conquista del mondo e bambine sperdute nei boschi che si credono inseguite da chissà quale mostro per poi scoprirsi semplicemente delle Masha qualsiasi (chi lo ha letto capirà).
Per assurdo non è nemmeno facile raccontare tanta bruttezza.
Prendete una qualsiasi delle decine di trasposizioni cinematografiche orrende tratte da Stephen King, un Ed Wood qualunque, uno Stuart Gordon tra i tanti e vi sarà facile descrivere con poche parole cosa non va in quelle pellicole: scene ai limiti del ridicolo, scenografie di cartapesta, attorucoli pescati per strada e sceneggiature scritte dal primo scimpanzè che passava di lì; avrete solo l'imbarazzo della scelta per far ridere il vostro interlocutore.
Prendete invece La torre sull'orlo del tempo di Lin Carter e provate a parlarne con qualcuno: c'è un uomo muscoloso dalla lunga chioma rossa vestito come uno Zardoz qualsiasi che se ne va in giro per lo spazio e viene ingaggiato per trovare una mitica Torre sull'orlo del tempo all'interno del quale sono contenuti inestimabili tesori. Lungo il percorso incontra una fanciulla indifesa, un mercenario brutale ma leale, un principe albino, uno stregone piccolo e viscido e un gladiatore mentale (boh).

Altro che James Bond, per me Sean Connery sarà sempre e solo Zardoz

Si è vero, c'è già da ridere non poco, ma provate a fare lo stesso gioco con un fantasy qualunque, Il signore degli anelli, tanto per dirne uno.
C'è un omino basso coi piedoni pelosi (facente parte di una comunità di omini bassi coi piedoni pelosi) che viene ingaggiato da uno stregone fumato per un'avventura pericolosissima insieme ad un nano belligerante, un elfo perfettino e un uomo misterioso. Sulla sua strada incontrerà ragni giganti, essere spelacchiati che ripetono in continuazione “Il mio tessssoro” e alberi parlanti. Ah già l'omino coi piedoni pelosi ha un anello che lo rende invisibile.
Qualsiasi (o quasi) libro sci-fi se raccontato risulta abbastanza ridicolo, quel che fa la differenza in molti casi è come la storia viene raccontata, quale tono usa l'autore per parlarci dei suoi beniamini di carta, in che modo riesce a portarci nel suo mondo fittizio.
Questo passo è tratto da pagina 1 di La torre sull'orlo del tempo:
“ Arrivò a grandi falcate a Zotheera ricca di templi, nell'ora che i Daikoona chiamano la Morte dei Soli. Mentre varcava la Porta del Drago, i Tre Soli scendevano uno dopo l'altro verso l'orizzonte in una vampata di fiamma d'oro.
Era alto, e cupo in viso; nudo a eccezione di un perizoma di seta scarlatta, una giacchetta, specie di bandoliera di cuoio adorna di borchie di bronzo, e un ampio mantello azzurro che pendeva dalla larghe spalle. I capelli si riversavano sulle spalle possenti come una cascata vermiglia. Rossi, non color ruggine o bronzo o oro, ma rossi, d'un vermiglio color sangue dall'abbagliante scintillio metallico.” E blablabla “il corpo era quello di un gladiatore, o di un Dio”, “la pelle aveva il colore del bronzo dorato”, “l'arcigna durezza della mascella glabra” e via di seguito.
Ecco, immaginatevi 100 pagine di tutto ciò.
Pensate a Lin Carter come un novello Robert E. Howard degli anni '60 (non a caso Carter ha ripreso più volte in mano personaggi storici come Conan e Kull proprio di Howard), incapace di scrivere 10 righe senza parlare di muscoli, spade, virilità, donne indifese e assurdi nomi inventati di pianeti remotissimi con tre soli, notti perenni, giungle fittissime, animali bizzarri e un'aria da finto medioevo virile che neanche nei peggiori incubi.
La torre sull'orlo del tempo è un fantasy travestito da fantascienza scritto come il peggior libro di Howard (e Howard è già indigesto di suo sia chiaro) in un'epoca in cui erano già stati scritti capolavori come Solaris, 2001 Odissea nello spazio e i capisaldi di Asimov.
Non vi basta?
La Torre sull'orlo del tempo è un libro orrendo.
E a dirla tutta non fa neanche ridere.

TOWER AT THE EDGE OF TIME- LA TORRE SULL'ORLO DEL TEMPO
ANNO: 1968
AUTORE: Lin Carter
GENERE: Fantascienza, fantasy
VOTO: 1

lunedì 18 aprile 2016

FUORI DAL TEMPO


Ci sono tre particolarità che mi rendono un ragazzo fuori da questo tempo:
  • Non ho uno smartphone;
  • Non ho Whatsapp;
  • Non amo le serie tv.
Ah si, vi vedo già li a puntare il dito, a dire che "prima o poi tanto..", a sospirare pensando che anche voi dicevate così e invece, ad ammonirmi di voler fare l'alternativo ad ogni costo o di essere semplicemente cretino perché lo smartphone è una comodità, Whatsapp ti fa risparmiare e le serie tv sono la narrativa degli anni '10.
Vi rispondo subito che non me ne frega nulla, che il mio cellulare lo carico una volta la settimana, che per i 20 messaggi mandati in un mese non andrò in fallimento e che preferisco di gran lunga il cinema, quello più fine e quello più fracassone, alle lungaggini dei serial.
"Ma è un'altra cosa!"
Siamo tutti d'accordo, e io preferisco il cinema, fatevene una ragione.
Detto ciò.
Se qualcuno mi conosce, sa benissimo che uno dei miei autori preferiti è Stephen King.
Con gli anni si sono aggiunte letture diverse e autori molto più stimati dalla critica o da chi per loro, ho provato strade alternative nel mondo horror e fantasy e a volte le ho pure trovate molto interessanti, ma alla fine sono sempre tornato lì, alla sua logorroicità, ai suoi adolescenti, alle sue storie di paura più o meno riuscite e a quell'America così lontana eppure così vicina, al Re.
Di Stephen King ho letto quasi tutto (e al “quasi” lavoro incessantemente).
Ma soprattutto di Stephen King ho visto quasi tutto.
Ovvio che non stiamo parlando dello Stephen King regista, autore di una sola orrenda pellicola ripudiata persino da egli stesso (se vi capita vi prego di guardare quel capolavoro di "Brivido"), ma di tutto quello che è stato tratto dalle sue opere, una quantità imbarazzante di film per il cinema, filmetti per la televisione, miniserie e oggi, finalmente direbbe qualcuno, serie tv.
Mi perdonerete il termine se, pensando all'immensa mole di pellicole tratte dai suoi lavori, mi viene in mente solo una montagna di merda in cui si scorgono qua e là, alcuni gioielli di inestimabile valore.


 "Unico indizio la luna piena", la paura fatta film...

Shining (quello di Kubrick e non quella follia voluta da King e Mick Garris), Carrie (l'originale, non il blando remake), La zona morta, Misery, Il miglio verde, Stand By Me, Le ali della libertà, The Mist e L'allievo giocano ad una nascondino insano con lungometraggi e miniserie tv che solo l'alcool e tanti amici burloni possono aiutare ad affrontare. Penso a Cujo, Grano Rosso Sangue, The Mangler, Unico indizio la luna piena, Cimitero vivente, L'acchiappasogni, Riding The Bullet, Il Tagliaerbe, Creepshow, L'ombra dello scorpione fino ad arrivare a quello scandalo di It (che rivisto oggi è veramente imbarazzante).
Se seguite il blog da qualche tempo saprete che lessi 22/11/63 alla sua uscita in libreria (qui la mia recensione rivista e corretta pochi mesi or sono) e, nonostante alcuni palesi difetti, me ne innamorai.
Dopo pochi anni di attesa ne è stata tratta una serie tv autoconclusiva di sole 8 puntate con JJ Abrams a produrre e pubblicizzare il prodotto insieme al solito grande nome prestato alla tv dal cinema, in questo caso James Franco.
Amo James Franco.
Forse non avrò visto tutti i suoi film (anzi), ma tra le "quasi" nuove generazioni (38 anni) è uno dei miei preferiti con buone interpretazioni in Planet of the apes, 127 ore, Facciamola finita, Urlo, Strafumati e i tre Spiderman di Raimi.
Si, si porta sempre dietro quella faccia da schiaffi e a volte sembra quasi voler fare il verso a James Dean, ma mi piace, cosa ci posso fare? C'è gente a cui piace Tobey Maguire! Li inseguiamo col forcone? E vogliamo parlare degli ultimi 15 anni di Johnny Depp? No, non vogliamo parlarne perché non centra un assoluto mazzo con quel che stavo dicendo e io ho già perso il filo del discorso.


Johnny Depp Mortdecai  in "faccio le solite 4 facce del cazzo e mi pagano milioni"

Quindi?
Quindi 22/11/63, il telefilm, un termine che quasi nessuno usa più per non far venire subito in mente al lettore grandi perle del passato come Chips, Hazzard, Supercar, Baywatch e chi più ne ha più ne metta.
Otto puntate, qualcosa di fattibile persino per me, avverso ai bassi budget e ai tempi di sviluppo pachidermici delle storie sul piccolo schermo.
Io che ho visto qualche puntata di Fringe e non me ne frega nulla di come va a finire, io che mi sono appassionato alla prima stagione di Lost, ma alla fine della seconda volevo morire, io che mi son sorbito due serie di Dexter e l'ho lasciato lì che continuava a uccidere e dissezionare cattivi puntata dopo puntata dopo puntata, io che amo i libri de Le Cronache del ghiaccio e del fuoco, ma non sono riuscito nemmeno a concludere la prima stagione tv e soprattutto io che mi sono addormentato due volte su due provando a vedere la prima puntata di Breaking Bad.
Ecco, proprio io, per amore di King sia chiaro, mi sono messo di buzzo buono e con una superfan delle serie tv (che quindi ha gusti molto più fini dei miei dopo aver visto tonnellate di cose più o meno buone prodotte per il piccolo schermo) ho deciso che questa volta ce l'avrei fatta, avrei visto 22/11/63 per intero.
E, incredibilmente, ce l'ho fatta.
Ho avuto dei cedimenti sia chiaro, ci ho messo qualcosa come un mese per vedere 8 miserrime puntate da 40-50 minuti, ma ce l'ho fatta.
E ora posso dirvi che ne è valsa (quasi) la pena, la più recente delle serie televisive tratte dai libri di King è un buon prodotto.
Ben girato (tra i registi spiccano il Kevin MacDonald de L'ultimo Re di Scozia e Black Sea e lo stesso James Franco), ben scritto e ben interpretato, 22/11/63, come ogni buona trasposizione da un libro del Re, non ne segue fedelmente ogni passo.
Erano troppi gli elementi del romanzo per poter essere riproposti fedelmente in sole 8 puntate e di quei troppi molti erano inutili ai fini dello svolgimento (sono i soliti ricami di King sulla storia) e altri erano semplicemente noia pura.
Si è optato per una riduzione della parte di storia riguardante le indagini di Epping a favore della storia d'amore con Sadie Dunhill e di un po' di azione in più.
Il taglio non è bastato, purtroppo, a rendere interessanti tutte e otto le puntate con un calo nella quarta e nella settima e un assurdo salto temporale che, per forza di cose, fa perdere molto di quella degustazione degli anni '60 che aveva il libro.
L'agrodolce messaggio finale è rimasto comunque lo stesso e l'aggiunta di un personaggio (quasi) completamente inesistente sulle pagine non ha influito molto sulle vicende, anche se la svolta narrativa finale fa sorridere per l'ingenuità mostrata dagli sceneggiatori in un mondo di folli appassionati di serie tv attenti ad ogni minimo dettaglio.
Forse un James Franco meno piacione del solito sarebbe stato meglio, ma la splendida Sarah Gadon nei panni di Sadie e i due comprimari Chris Cooper (Al) e Leon Rippy (Harry Dunning), oltre al complessato Daniel Webber (Lee Harvey Oswald), sono scelte azzeccate, anche per chi, come me, ha amato il libro e magari si era immaginato attori e facce differenti per i suoi protagonisti.


James Franco in pieno piacioneggiamento

22/11/63 è un bel telefilm.
Non sarà forse ricordato come Shining o Carrie negli annali del cinema, ma finalmente si potrà dire che anche da King è stata tratta una bella serie tv.
E io finalmente posso tornarmene nel mio eremo e abbandonarvi al vostro piccolo, piccolissimo, infinitesimale schermo.

Non posso fare tutto quello che voglio
non posso dire tutto quello che penso
non posso esaudire i miei desideri
la condizione in cui mi trovo è proprio
fuori dal tempo
                                         Bluvertigo

11/22/62- 22/11/63
PRODUZIONE: J.J. Abrams, Stephen King, Bridget Carpenter, Bryan Burk
ANNO: 2016
GENERE: Fantascienza, drammatico
VOTO: 7


giovedì 31 marzo 2016

TRIP


 
É un libro strano questo.
Un libro strano scritto in modo strano da un personaggio strano.
Pubblicato nel pieno degli anni '60, L'aborto sembra riflettere quella vaga libertà floreal-mentale da tutto e tutti che finora avevo trovato solo nella musica degli stessi anni con Doors, Pink Floyd, Grateful Dead, Love e chi più ne ha più ne metta.
Le parole di Brautigan (alcolista cronico, finì a soli 19 anni in un istituto psichiatrico) sembrano letteralmente lasciate libere sul foglio di fare quel che vogliono, sospese come sono tra una trama fin troppo realistica e un tono che non smette neanche per un secondo di essere vagamente sognante e vagamente qualcos'altro.
É difficile descrivere un libro del genere.
Non basta un riassuntino della trama che potete facilmente leggere in 15 secondi sulla quarta di copertina e non basta nemmeno la descrizione dello strano stile da buon trip acido di Brautigan, perché L'aborto è decisamente di più della somma delle sue parti.
Quel che potete fare è prendere questo libro e, abbandonati sul vostro letto o sulla vostra poltrona o sul vostro tappeto o su di un campo pieno di fiori e insettini o sul...insomma abbandonati da qualche parte, lasciarvi trasportare dall'autore nel suo cammino fatto di nude verità raccontate nel modo più sognante-surreale-ironico che possiate immaginare.
E sorridere, riflettere, viaggiare.
E pensare che nel mondo di oggi una libreria del genere non può esistere, ma è stato bello finché è durato.

THE ABORTION- AN HISTORICAL ROMANCE_ L'ABORTO- UNA STORIA ROMANTICA
ANNO: 1966
AUTORE: Richard Brautigan
GENERE: Drammatico
VOTO: 7,5






mercoledì 16 marzo 2016

LA DELIRANTE FOLLE FINE DI UN'UMANITÀ DECADENTEMENTE MALATA

Questa recensione è stata scritta il 9 settembre 2011 e rivista completamente il 14 marzo 2016
 
 
“La nube purpurea” è IL delirio apocalittico di un pazzo di nome M.P. Shiel.
L’allucinazione dello scrittore è del 1901, una paurosa e blaterante follia che disquisisce della fine del mondo per colpa di una maledetta esplorazione al Polo Nord.
C’è una conoscenza di usi e costumi dell’Asia, ma soprattutto dell’Europa, quasi maniacale, un vocabolario che pare infinito a tal punto che la scrittura sembra più volte attorcigliarsi su se stessa fino a perdere il filo del discorso, un protagonista talmente squilibrato che sembra uscito da un racconto sadico di Clive Barker.
C'è uno stile baroccheggiante, pieno quasi fino a scoppiare di aggettivi, abiti, popoli, oggetti...cose, ma soprattutto di evoluzioni pindariche e oppiacee al limite del leggibile che non lo rende esattamente la classica lettura veloce a là "Urania", ma il tutto risulta comunque trascinante. Prendete "La strada" di McCarthy (secco, asciutto, essenziale) e pensate al suo opposto apocalittico: Shiel vi attende.
“La nube purpurea” è la genesi apocalittica della psicopatia della razza umana, è scienza perfetta, alienazione pura, paranoicità portata a livelli nemmeno immaginabili.
Scrivere un libro del genere nel 1901, pur con tutta l’influenza di un maestro come Poe e di un certo romanticismo decadente (l’incipit non è forse molto Frankesteinoso?) significa solo essere “addentro” (chi leggerà, capirà) di ben oltre 60 miglia e dimostra capacità divinatorie che vanno al di là di qualsiasi immaginazione.
Leggere un romanzo del 1901 e, pur con tutti i suoi schizofrenici arzigogolamenti, trovarlo più moderno del 90% della produzione fantascientifica dei successivi 110 anni, può solo indicare una cosa: la decadenza dell’uomo prosegue e un giorno una nube che sa di pesca e mandorle ci inghiottirà tutti.
E fine della storia grazie a Dio.

THE PURPLE CLOUD- LA NUBE PURPUREA
ANNO: 1901
AUTORE: M.P. Shiel
GENERE: Fantascienza, Apocalittico
VOTO: 7,5
 

lunedì 22 febbraio 2016

6 LIBRI, 3 FILM E UNA TRAGEDIA: EVEREST 1996 (PARTE II: I FILM)

(IMAX) EVEREST (1998)


Everest, girato in pellicola 70 mm IMAX, è il documentario che il gruppo di Tenzing Norgay, guidato dall'alpinista Ed Viesturs, stava girando al momento della tragedia nel 1996.
Tolta qualche immagine davvero spettacolare come l'incipit narrato da Liam Neeson, si tratta di un breve riassunto del libro Lo Sherpa di Jamling Tenzing Norgay, in cui ci si concentra sul presente, tralasciando quasi completamente la vicenda del padre e di Edmund Hillary.
La catastrofe avvenuta sull'Everest è giustamente trattata come un capitolo laterale a cui si è data maggiore importanza durante la postproduzione dato il successo del libro di Krakauer (è presente anche una breve intervista a Beck Weathers).
All'epoca l'aver portato una telecamera IMAX (progettata appositamente per pesare “solo” 19 kg) sulla cima del monte Everest fu un traguardo non da poco e il fatto che il documentario sia in realtà costituito da una serie di spezzoni da 90 secondi  (per ridurre il peso si ridusse anche la pellicola) non gioca, purtroppo, a suo favore.
Oggi Everest sembra invecchiato abbastanza male, con alcune riprese troppo costruite (ovvio che non si volesse sprecare pellicola) e una tensione per la vetta che si sente solo a parole.
Due piccole curiosità: alcune immagini (non vorrei sbagliarmi, ma a mio parere si tratta proprio dell'incipit con il volo aereo per arrivare al campo base) sono state riutilizzate dal film Everest uscito nel 2015.
La colonna sonora è composta quasi interamente da canzoni (già edite) di George Harrison, scelte per il loro lato “spirituale”.

EVEREST
REGIA:Greg MacGillivray, David Breashers
ANNO: 1998
GENERE: Documentario
VOTO: 6,5


TERRORE SULL'EVEREST

Da sempre è pratica comune a Hollywood comprare i diritti di sfruttamento cinematografico per qualsiasi successo editoriale il più presto possibile, in modo da avere un film nelle sale quando ancora la febbre del libro non è completamente scesa.
Ultimamente, con l'arrivo di trilogie Young Adult e co. si è arrivati al punto (folle) da comprare i diritti quando ancora il primo capitolo non è stato completato, ma questa è un altra storia che racconteremo un altro giorno.
Il caso di Into Thin Air è invece molto più semplice: il saggio uscì nel 1997 e il successo editoriale inaspettato portò i produttori cinematografici a fiondarsi a casa di Krakauer, noto, tra le altre cose, per essere una persona abbastanza schiva, per proporre fior fiore di contratti. Indeciso se accettare o meno, alla fine Krakauer si decise a vendere in toto i diritti per lo sfruttamento cinematografico convinto che, come in molti altri casi ben più noti (vedi Abarat di Barker opzionato dalla Disney ormai da più di 10 anni) alla fine non se ne sarebbe fatto nulla.
Caso vuole che quell'anno, per qualche oscuro motivo, le cose si muovessero davvero e Hollywood decise realmente di tirarne fuori un film.
Ma non un film qualsiasi, con un buon regista, una buona produzione e una presentazione al festival di Venezia in pompa magna (come avvenne più di 10 anni dopo per Everest di Kormakur): quel che uscì nel 1998 fu quello che viene definito, con sprezzo del ridicolo, un tv-movie, ovvero un film di merda fatto con 4 soldi.
Terrore sull'Everest, che troverete su youtube in una splendida registrazione da un canale Mediaset, è esattamente tutto ciò che vi aspettereste da un film della domenica pomeriggio su Italia 1, anzi no, sul suo parente anziano, il redivivo Rete4.
Ci sono attori imbarazzanti e fuori ruolo (vince su tutti l'interprete polacco con faccia da americano di Anatolij), c'è un regista specializzato in tv movie da 4 soldi (da vedere la sua filmografia), c'è uno sceneggiatore anch'esso da tv movie (di cui imdb conosce a malapena la data di nascita) e scenografie incredibili che sembra di essere a Prato Nevoso invece che sull'Everest.
Il tutto è completato da una discutibile finta attinenza al testo, con voce fuori campo che riprende interi brani dal libro sbattendosene completamente le palle se poi quello sullo schermo non centri assolutamente nulla con ciò che viene raccontato nel saggio del 1997.
Insomma, splendido.
Dieci anni dopo Krakauer si prese un mezzo infarto quando gli arrivò notizia che il suo Into The Wild sarebbe stato trasposto al cinema ad opera di Sean Penn, ma questa è un'altra storia (per dovere di cronaca bisogna dire che la trasposizione è stata molto apprezzata dall'autore del libro).

INTO THIN AIR: DEATH ON EVEREST- TERRORE SULL'EVEREST
REGIA: Robert Markovitz
ANNO: 1998
GENERE: Drammatico
VOTO: 4


EVEREST (2015)


Così come Aria Sottile è il primo passo da compiere per avvicinarsi all'intera vicenda così Everest è l'ultimo scalino da superare per arrivare in vetta e provare a comprendere esattamente cosa sia successo nel maggio del 1996.
Ci sarà chi non è assolutamente d'accordo con l'affermazione di cui sopra come Krakauer stesso che, dopo la visione del film, si è scagliato ancora una volta rabbiosamente contro l'interpretazione di quelli che lui vuole essere i soli fatti reali: quelli raccontati nel suo libro. La scena in cui Anatolij chiede al suo personaggio di aiutarlo nella ricerca dei dispersi (ripresa dal saggio dello scalatore russo) ha fatto saltare la mosca al naso all'autore americano per la milionesima volta, portandolo a dichiarare a metà della stampa mondiale che non è andata così, no, no, no! “Se volete sapere com'è andata leggete il mio libro!”. Quanta simpatia.
Un altro uomo che ha perso la ragione senza nemmeno aver visto il film (sua dichiarazione) è stato Messner che ha bocciato in toto il progetto poiché non è stato girato davvero sull'Everest, tranne che per le scene ambientate al campo base. Vaglielo a spiegare che magari Gyllenhaal non ha proprio voglia di andare a 8000 metri a rischiare la vita con una maschera di ossigeno sulla faccia.
Detto questo, se si cerca di ragionare per un attimo a mente fredda e si guarda il film dopo aver letto 6 libri che parlano dello stesso argomento in due mesi si può capire bene che Baltasar Kormàkur non si è messo li a girare semplicemente un altro Terrore sull'Everest.
Al di là degli effetti speciali, delle pareti di ghiaccio ricreate a Cinecittà, delle riprese sulle Alpi e dei buoni attori chiamati in causa (Beck Weathers si è detto soddisfatto del suo personaggio interpretato da Josh Brolin), Everest è un film corale che riesce nell'impresa di riunire in una sola visione una quantità di punti di vista diversi difficili da far collimare persino in un libro, figurarsi in 120 minuti di cinema.
Lo stesso Kormàkur ha dichiarato di essersi documentato a lungo con tutti gli scritti presenti sulla vicenda e le comunicazione radio dell'epoca per provare a dare una visione che non fosse unilaterale.
La realtà, per quanto a Krakauer possa far incazzare, è che non può esistere una sola versione dei fatti per una tragedia che l'ha visto protagonista in una situazione a dir poco difficile, in carenza di ossigeno e stremato dalla fatica.
É noto, per sua stessa ammissione, che l'autore americano, messosi in salvo al campo IV, disse di aver visto scendere prima di lui Andy Harris, motivo per cui, in un primo momento, si pensò che la guida alpina fosse al salvo in una tenda, mentre si trovava ancora in alta quota cercando di aiutare Rob Hall (perirà sul posto poche ore più tardi). Leggendo le altre testimonianze presenti nei libri, Martin Adams, uno dei clienti di Scott Fischer, afferma sicuro che Krakauer in preda all'ipossia (mancanza di ossigeno) si sia lasciato scivolare sulla neve per almeno un centinaio di metri durante la discesa prima di riprendere a camminare (azione a dir poco sconsiderata come tutti potranno comprendere) , ma Jon ha sempre negato che questo sia successo.
Un altro esempio? La questione ossigeno si/no che Krakauer tira in ballo ogni tre per due come accusa ad Anatolij è stata sottoposta al vaglio di più di un alpinista e non tutti sono concordi con lo scrittore americano che l'uso delle bombole da parte del kazako avrebbe migliorato la situazione. É vero che uno scalatore medio non può farne a meno, ma è anche vero che un fisico come quello di Anatolij aveva già dimostrato di reggere più che bene a quelle altitudini e le sue tre bombole di ossigeno per l'attacco finale aiutarono Neil Beidleman (una guida del gruppo di Scott Fischer) e il suo gruppo nella difficilissima discesa.
E quindi? Quindi niente.
Everest, con tutte le esagerazioni che Hollywood comporta e i tagli in fase di montaggio (il personaggio di Lene Gammelgaard, ad esempio, è stato tagliato durante il montaggio finale), è un film parecchio complesso e veritiero per essere un blockbuster.
Ovvio non è un documentario National Geographic con interviste ai sopravvissuti e riprese dell'epoca (ma nemmeno Into The Wild lo era, con i suoi hippie felici e gli olandesi sbracaloni) e non è nemmeno un capolavoro della cinematografia moderna (manca quel guizzo registico, attoriale e fotografico che differenzia i film normali dai capolavori), ma è un film onesto.
Onesto nel non voler prendere le parti di nessuno, onesto nella visione di personaggi come Scott Fischer (Jake Gyllenhaal nonostante la mancanza di capelli biondi esprime esattamente ciò che viene raccontato nella biografia Mountain Madness) e Rob Hall (le parole finali alla moglie sono riprese esattamente dalle conversazioni registrate dell'epoca), onesto nel non rappresentare eroi che in effetti non ci sono stati (tolto il salvataggio di Anatolij che però non viene dipinto come un Terminator indistruttibile, ma semplicemente come un uomo mosso dalla forza della disperazione), onesto nel mettere in scena una tragedia che ancora oggi non ha un perché e a cui nemmeno decine di libri, documentari e film sapranno mai dare una risposta.
In fondo nemmeno George Mallory, a capo delle prime tre spedizioni inglesi per scalare l'Everest negli anni '20, seppe mai dare una risposta alla sua curiosità:
“Perché vuole scalare l'Everest?” “Perché è lì”.

EVEREST
REGIA: Baltasar Kormàkur
ANNO: 2015
GENERE: Drammatico
VOTO: 7,5