giovedì 18 dicembre 2008

JAZZ

Con un ritardo mostruoso (e me ne scuso in primis con l'autore del pezzo che è Lucio Laugelli) pubblico Jazz, la nuova collaborazione con Paper Street procede, a breve anche la mia recensione de "L'amore non va in vacanza" su Paper Street!
Un grazie a chi ha la pazienza di seguire questo inguaribile ritardatario!

BY LUCIO
C’è stato un periodo in cui TU eri LA musica,
la gente pensava alla musica e la musica non poteva che essere jazz…
Ora? Beh certo sei ricordata da preziosi festival, sei in tutti i libri che raccontano l’imprevedibile storia della musica; e poi ti citano, a volte anche a sproposito, un sacco di intellettuali che un po’ se la tirano quando parlano di te.
E ci sono città che conservano piacevoli angoli dove vieni suonata da chi porta ancora alto il tuo nome. Ma c’è da dire che la gente non riempie gli stadi per te e, soprattutto, c’è da dire che i più dei tuoi amanti non sono certo giovanissimi.

Quando penso a te e a quanti ne hai fatti innamorare non posso non emozionarmi e dirti, anche se magari non ci credi, che sei ancora oggi la fonte d’ispirazione per tanti che ti ascoltano e dopo scrivono, o suonano o hanno qualche idea geniale o terribile.

Perché non si può, una volta stregati, dimenticarsi di te. Anche io, uno dei tanti che hai illuso con il tuo ritmo insormontabile, con il tuo sound perfetto, anche io, volevo scriverti e queste mie parole puoi aggiungerle a tutte le altre, incalcolabili, che ti saranno state dedicate fin da quando sei entrata in scena.

E allora mi vengono in mente tutte le labbra che hanno soffiato negli ottoni che governavi con maestria esemplare. Penso all’avorio accarezzato dalle dita dei pianisti che più ti hanno onorato e a tutti gli altri strumenti con cui ti sei fatta conoscere in giro. Le voci indimenticabili che ti cantavano, meraviglia!

Sei nata nei bordelli, nei locali fumosi dove la gente beveva in tua compagnia. Sei nata per strada, nelle terze classi dei transatlantici piene di immigrati sognatori; e man mano sei risalita ai piani più alti delle navi che ti ospitavano, nel tuo peregrinare avanti e indietro, sulle onde decise che ti scuotevano mentre, di colpo, come dicevo, conquistavi anche le prime classi e i loro passeggeri annoiati.

E poi i locali! I bar! Dove ti sei esibita, ubriacata, drogata. Sono nati club e grandi ambienti dove venivi suonata solamente tu. Dagli Stati Uniti hai fatto il giro del mondo, sei arrivata anche qui da noi, dove Buscaglione ti ha splendidamente adattata ai suoi testi innovativi, contrapposti alle canzonette lacrimevoli che scorrevano nelle nostre città.

Il Jazz è fumo, whiskey, stile, vita, vita, vita!
E’ pazzia
è camminare lungo il cornicione.
Improvvisazione.
virtuosismo,
amore baro e anche sofferenza.

Se ti venisse concessa un’altra possibilità ripiomberesti con la stessa sorpresa che hai destato al tuo arrivo, così improvviso. E poi prenderesti per le palle quei generi nuovi che ti disgusterebbero, prima la techno e dopo l’house…cazzo con che classe e rapidità distruggeresti lo squallore privo di poesia che fa andare la gente a ballare oggi.

Ma non ti sarà data una seconda possibilità e tu lo sai meglio di me.

E allora?
Nulla, nulla. Nessun problema. Continua a scorrere in sentieri alternativi, per conto tuo.
E non posso credere, anche se ti chiamano “il jazz”, che tu sia maschio.
E non me ne vogliano gli studiosi che potrebbero obiettare che la tua storia, principalmente, è stata fatta da uomini. No. Il jazz è donna.

Una splendida creatura che non sa invecchiare, che una volta potevi trovare ad ogni angolo, in ogni sala da ballo, che un tempo andava per la maggiore ed oggi, pur non avendo perso la sua sensualità, si riserva per pochi che la vanno a cercare e ancora si fanno fregare e, rimanendo imbambolati di fronte a lei, si innamorano di questa immortale signora, di una bellezza incomparabile, di una raffinatezza mai vista.
Occhi ipnotici, voce suadente, capelli di seta, labbra sfuggenti, fisico statuario.
Intelligente come sempre, furbissima, dolcissima e crudele, e anche un po’ puttana.
Andate a cercarla la notte, non sarà facile incontrarla.
Si confonde con il buio, con l’odore del fumo, con l’aroma dello scotch.

giovedì 20 novembre 2008

SAW IV


DRIIIIN…..DRIIIIN….DRIIIN
CLACK
“Pronto?”
“Ciao Patrì!”
“O Greggo, com’è?”
“Tutto a posto…ti ho chiamato che ti ricordi che tra un mese è Halloween?”
”Si…e allora?”
“Eh, va che dobbiam ancora preparare quella cazzata che prepariamo ogni anno da tre anni a questa parte…”
Mmmmm…cazzata di Halloween? La zucca intagliata?”
“Oh cazzo Patrì…ogni volta…quella boiata con quel cretino che se deverte a torturà le persone…che lui è malato terminale e quindi non sapendo che cazzo fare dei suoi ultimi inutili giorni di vita spreca il suo tempo a inventarsi dei macchinari assurdi per storcere le ossa e cazzate simili…”
“Ah ma siiii, Saw…cazzo mi stavo dimenticando…”
“Ma come se fa a dimenticarsi? Con tutti quei mentecatti che corrono al cinema a pagar il biglietto, dai Patrì, a cosa hai pensato per sto episodio?”
“Si dunque…a cosa ho pensato…ecco…dunque…c’è Jigsaw in una stanza…”
“A Patrì, guarda che è morto in Saw III, gli han sguarato il collo, va beh che è na cazzata ma non è che puoi fargli far l’occhiolino come Freddy Krueger dopo esser stato decapitato in “Freddy vs Jason"…”
“Si giusto... è morto... Dunque…c’è Jigsaw in sta stanza…morto…”
”Sembra avvincente…”
“Si no aspè…è morto…ma lui lo sapeva…”
“Cosa sapeva???”
”Che moriva con il collo sguarato…”
“Ah Patrì…”
“No aspè, lasciami finire…lo sapeva e quindi s’è mangiato na cassettina…”
“……….”
“Si, sai quelle dove ci registrava la sua voce con cazzate tipo “Ti va di fare un gioco?” e puttanate simili…”
“Si ho presente….”
“Eh, e stavolta in sta cassettina c’ha registrato praticamente tutte le torture che aveva già in previsione di fare….”
“Nostradamus….”
“Ma no è che lui sai com’è no…c’ha la malattia terminale…”
“E quindi?”
“E quindiii...sai la malattia terminale no?Che te fa vedè le cose…lui sa che quella cassettina la troveranno nell’autopsia e sa anche che chiameranno il poliziotto per ascoltarla”
“Ma che poliziotto?”
“Ma che te frega…se quelli del film prima firmano un nuovo contratto bene, se no cambiam di nuovo tutti…tanto non è che la gente sta a guardà quello…”
”Si in effetti…comunque trovata sta cassettina che cazzo succede?”
“Che cazzo succede…dunque… si c’è sto poliziotto con la cassettina in mano…”
“E fin qui…”
“E niente…poi ci son le trappole…”
“Le trappole?? Si ok…ma la storia?”
“La storia… si la storia… dunque… c’ è uno che aiuta troppo le persone allora deve essere punito…”
“Ma non ha senso! Non puniva gli stronzi Jigsaw?”
“Ma si che te frega, c’è sto tipo e ci son un casino di trappole…”
“é Saw III..."
“E quindi…c’è sto tipo che vede le persone torturate ma tanto non può farci un cazzo per quanto ci provi quindi va avanti proprio come voleva Jigsaw”
“…………”
“E poi alla fine c’è uno scenone finale pieno di sangue con teste che esplodono e puttanate simili e il solito flashbackone che spiega tutto!”
”Sembra far più pena del solito…”
“Poi magari ogni tanto ci mettiam un flashback dove facciam vedere perchè Jigsaw è diventato così cattivo…”
“E che cazzo centra con tutto il resto?”
”Ma si così ci infiliamo anche l’ex moglie di Jigsaw e sti poliziotti che riescono a prevedere ogni sua mossa perché sai…loro son poliziotti americani…sono intelligenti…ma arrivano sempre con un minuto di ritardo…poi sai con la storia del suo passato diventa più introspettivo…cioè…sai…si scava nel profondo…”
“… e i poliziotti non riescono a prevedere in tempo le mosse di uno morto?”
“Si ma Jigsaw era…”
“Si…un malato terminale…du palle…”
“Ti soddisfa?”
“è la più grande puttanata che io abbia mai sentito…”
”Quindi?”
“Quindi domani vedi di chiamare il babbuino che vuole dirigere sta cazzata che iniziamo…”
“Ok! Ah poi ti volevo dire…per Saw V ho già un’idea…”
“……”
“C’è Jigsaw ancora in obitorio perché lui c’aveva la malattia terminale quindi son ancora lì a tagliuzzarlo e mentre lo girano dall’altra parte vedono che c’ha una cassettina piantata nel culo…”
“……………………………”
CLACK
TUTUTUTUTUTUTUTUTUTUTUTU
REGIA: Darren Lynn Bousmann
ANNO: 2007
VOTO: 4

lunedì 17 novembre 2008

E MENTRE ASPETTI L'APOCALISSE N'ALTRA CAZZATA: KOOBECAF

Molto meglio che io non pubblichi per intero questo testo pieno di insulti a chiunque.
Solo il finale.
Poi continuate a leggere come se nulla fosse l'ultima recensione più in basso.

Che schifo.
Mondo che ha bisogno del contatto di più gente possibile per respirare, che non sa più stare solo, che non riesce a farsi i cazzi propri e nemmeno a vivere senza un eterno specchio in cui rimirarsi.
Puffo vanitoso sarebbe fiero di tutti quanti.

giovedì 13 novembre 2008

BASIC TRAINING- ADDESTRAMENTO DI BASE

Mi ricorderò di te come semplicemente meravigliosamente te.

Non so chi sia Frederick Wiseman.
Inutile che stia qui a tradurvi la wikipedia inglese dicendovi che è uno dei più grandi documentaristi e blablablablabla….blablablablabla.
Inutile.
E se non sapete l’inglese traducete la pagina con google.
Verrete a sapere che è un “americano documentario regista” (un documentario vivente…un po’ come Piero Angela quando entrava nel corpo umano e ci trovava la tizia che suonava il piano) e che è stato “addestrato come un avvocato” (avvocaaaato…avvocato vieni qui che ti do l’osso…BAUBAU!).
Buongiorno, siete nel 2008: imparate l’inglese.
Non so chi sia Wiseman (e neanche come si pronunci) e non ho alcuna intenzione di informarmi a riguardo prima di scrivere questa recensione.
Il risultato potrà essere un disastro dettato dalla beata ignoranza o qualcosa di serenamente innocente, neutrale forse.
Bisognerebbe star qui ore a descrivere come sia finito in un cinema del centro di Torino a vedere un documentario del 1971 di un tizio di cui avevo a malapena intrasentito il nome in un brumoso pomeriggio d’autunno.
Ma anche no.
Piove, viene voglia ad entrambi di andare al cinema e le sale del centro trasmettono solo film già visti, già iniziati o semplicemente di cui non si sa un emerita mazza.
Quindi perché scegliere “The Burning Plain” quando la rassegna mensile del Massimo è dedicata a tale Wiseman (uaismen? uisman? L’alfabeto fonetico non esiste sulla tastiera…chissà se i linguisti hanno aggirato tale insormontabile problema) e il film del giorno e dell’ora è Basic Training in lingua originale sottotitolato in italiano?
Tre euro.
Al massimo ci si fa una bella dormita come l’evidente barbone seduto dietro.
Un documentario in bianco e nero sull’addestramento base dei soldati americani in piena Guerra del Vietnam.
Come dire: mi manca la pistola ma vorrei tanto spararmi sulle balle.
Poi succedono cose di cui non ti capaciti.
Innanzitutto non ti addormenti.
Per un’ora e mezza non sbadigli neanche per mezzo secondo.
Wiseman (uomo saggio…dovevo dirla scusate…) gira un documentario tanto semplice quanto semplicemente perfetto.
Gira un documentario sull’addestramento base e lo fa diventare un film come nessun Fahrenheit 9/11 potrebbe mai esserlo.
Là dove lo sguardo è di parte e lo stile sgarbatamente documentaristico (come urlare in faccia a qualcuno: questo è vero! Questo è vero! QUESTO è VERO! VERO! CAPITO? VERO? GUARDA COME TRABALLA LA CAMERA…è VERO!), Wiseman riprende (questo me lo immagino io, licenza poetica) una mole impressionante (e con impressionante intendo un’anno di riprese) di materiale e ne fa un sunto finale perfetto.
Nel Basic Training ci mette tutto quello che chiunque immagina faccia parte di un addestramento militare: partendo da marce e marcette (con connessi cori militari), passando per uomini che strisciano con la pancia a terra e il culo in aria (“ALZA QUEL CULO DA TERRA!” urla un sergente) fino ad arrivare alle classiche situazioni da caserma da cui hanno origine il 90% dei film militari. Sfigati cronici con problemi familiari, ribelli che se ne fregano del loro Paese e secchioni militari che alla fine dell’addestramento se ne escono con improbabili discorsi sulla democrazia americana esportata in Vietnam.
Wiseman però non è Moore.
Non intervista nessuno, non fornisce dati di alcun tipo ma soprattutto non compare mai in camera per dire la sua (o per dire l’inarrivabile verità).
Wiseman fa parlare la sua telecamera.
Non è assolutamente descrivibile a parole (perlomeno io non sono in grado) come un obiettivo puntato sugli scarponi dei marcianti possa portare dentro lo schermo più i qualsiasi parola o altra immagine.
La telecamera di Wiseman è il sergente di ferro che consola con voce ferma lo sfigato mentre lo aiuta ad allacciarsi gli scarponi, è il ragazzo nero che racconta con un inglese inascoltabile (nel senso che senza sottotitoli poteva benissimo parlare lo swahili per quanto ci capivo) la storia di quella ragazza del suo Paese, è la spiegazione della reincarnazioni da parte di un altro, è quello scarpone ripetuto per cento che sbatte sulla terra ad un centimetro dal tuo naso mentre un “Left, Right, Left, Right” continua ad aleggiare nell’aria.
Wiseman non da giudizi.
O perlomeno non ce li sbatte in faccia come se fossero bisteccazze da cuocere in padella.
Wiseman regala immagini.
Immagini e parole vere (queste si, riprese direttamente da quegli attori consapevolmente inconsapevoli, che hanno ruoli ben definiti nella scrittura finale del documentario) che toccherà a noi giudicare.
Forse.
Mi piacerebbe ancor di più pensare che Wiseman sia tanto neutrale nelle immagini quanto Moore lo è con le parole.
Nel ’71.
Avanti di un secolo.
REGISTA: Frederck Wiseman
ANNO:1971
VOTO:10

venerdì 31 ottobre 2008

REQUIEM PER VENTO FORTE TRA I CAPELLI

Sono orgoglione di annunciare che Recensioni libere si allarga.
Ufficialmente oggi inizia la collaborazione con l'associazione culturale Paper Street, una rivista on-line di Alessandria che mi ha proposto lo scambio di alcuni scritti!
Potrei star qui a dirvi di quanto son contento che senza far assolutamente nulla se non scrivere mi abbiano proposto questa collaborazione e blablablablabla...ma farò che saltare tutti i preamboli e presentarvi direttamente il pezzo di Lucio Laugelli, direttore esecutivo di Paper Street.
Cliccando sull'immagine in alto a sinistra sul blog (quella con su scritto Associazone culturale Paper Street,su non è difficile!) arriverete direttamente all'home page dove dovreste trovare a breve la mia prima recensione di Babylon A.D. (se non la trovate ancora pubblicata la colpa è solo mia che sono un ritardatario cronico!)
A voi.


BY LUCIO

Poco fa, facendo uno dei soliti zapping televisivi annoiati e compulsivi, mi sono imbattuto nell’ultima pubblicità della Mercedes; sono rimasto a seguire lo spot solo perché ho sentito dire ma quello era James Dean? Il messaggio pubblicitario infatti vede protagoniste due icone hollywoodiane: Marilyn Monroe e il già citato Dean. A parte notare quanto la sosia della biondissima star fosse effettivamente molto somigliante all’attrice e quanto invece il bell’attore non ci azzeccasse per nulla in quanto a una presunta somiglianza con il protagonista di Gioventù Bruciata, ho ripensato ancora una volta a quanto sia importante per me, da tanto tempo, l’attore scomparso. Pensavo a come solo sentire il suo nome durante uno zapping sia capace di farmi fermare e indugiare sul canale per vedere cosa si dica riguardo. E così una sua foto in un negozio, o la copertina di un giornale, un poster. Da quando avevo 16 anni James Dean mi accompagna attraverso le gioie e la noia delle giornate che scorrono intorno a tutti noi. Ripenso ai tre film che ha interpretato, a tutti i libri e gli articoli letti, ai documentari, alle foto e a tutto il resto. Per questo grande amore nei confronti dell’attore sono stato anche deriso o non capito; pensavano che esagerassi con l’idolatrare questa figura immortale. Ho anche conosciuto invece altre persone, come me, profondamente affascinate dalla sua storia, dalla sua bravura. Guardando le centinaia di video su you-tube a lui dedicati e le infinite pagine web che ne parlano ancora oggi e per di più scritte in gran parte da miei coetanei capisco quanto non mi sia mai sbagliato nel valutarlo così tanto come ho sempre fatto.
E pensavo anche che, in tutto questo tempo, non ho mai scritto manco una riga su di lui. Non so se riuscirò a mettere su carta quello che penso riguardo e se le sensazioni provate possano essere intuite da chi leggerà queste righe.
James Dean è vento forte fra i capelli. E’ una sigaretta quasi finita.
E’ un sorriso che ti prende per il culo e un po’ provoca.
E’ una sensibilità fuori dal comune.
E’ quando hai bevuto troppo e ti rendi conto che potresti fare uno sbaglio irrecuperabile da un momento all’altro.
E’ anche volerlo fare quello sbaglio e fregarsene.
E poi stare malissimo per averlo fatto.
James Dean è quando azzardi una manovra imprudente e poi pensi a quanto sei stato
idiota per averla fatta.
E’ il brivido che ti accarezza la schiena quando senti che stai volando.
E’ avere mille cose da fare e poi finire per non riuscire a farne nessuna perché la morte ti ha spaccato a metà molto prima del tempo.
Molto prima di quando sarebbe dovuto accadere.
Ma più di tutto è quel preciso istante in cui ti rendi conto che te ne stai andando e provi la consapevolezza che forse non sta avvenendo quello che avevi sempre detto di desiderare.
E’ capire che in realtà non ne hai nessuna voglia di vedere il tramonto dei tuoi giorni. Ma è troppo tardi. E non si può tornare indietro. Stai morendo.
James Dean è sorridere ancora una volta un po’ provocatoriamente e arrendersi quindi alla fine.
Ma in quel brevissimo momento appena vissuto non si può non provare la sensazione di rimorso. Perché forse volevi restarci ancora sulla terra a vedere il sole salire e scendere ogni giorno, a sentire il rumore che fa il motore quando tiri le marce.
A rispondere male a una presunta autorità. A fare l’amore con una persona che ti tradirà. A vivere aspettando perché sarà più bello dopo. A nutrirti d’ambizione.
Ma sei stato immortale solo per alcuni aspetti. Sarebbe bello che, vecchio e rincoglionito, quella pubblicità della Mercedes l’avessi girata davvero tu. Anzi no.
Ma che dico Jimmy? Molto meglio così.
Vento forte fra i capelli. Buon riposo.

giovedì 23 ottobre 2008

WALL -E

Recensioni-Libere sta per allargarsi...o meglio sono io che sto per allargarmi (si, anche fisicamente!)
Ma tutto a suo tempo, per ora gustatevi una nuova recensione doppia!
In ordine la mia e quella di Leo.
Senza altre stupide presentazioni.
A voi.


Ad aspettare un film per sei mesi ci si fa solo del male.
È una regola che qualsiasi umano dotato di cervello funzionante dovrebbe conoscere.
È come sapere che bere 2 litri di vino a stomaco vuoto ti fa rallegrare per mezz’ora e vomitare per altre cinque e ogni sabato ingurgitarne 3 litri.
Non è esattamente quel che si dice genialità (anche se per quella mezz’ora ci si fa sempre un pensierino…)
Eppure.
Eppure Wall-E io lo aspettavo da 6 mesi.
Me la ricordo la prima locandina che vidi con quegli occhioni di quel robottino quadrato che ti diceva solo: ti prego guardami, sarò il tuo prossimo cartoon preferito!
Cartoon.
Che se dici cartoon la prima cosa che ti viene in mente sono gli Animaniacs che si agitano su quella torre di non so cosa della Warner Bros: che mai nessuno ha capito perché quei tre poveri pazzi topi, gatti, puzzole…cosa sono? Debbano essere rinchiusi in quella torre quando quella sputacchiera ambulante di Daffy Duck se ne va in giro liberamente ormai da 70 anni.
Non bastano i cinesi (che almeno a casa loro le sputacchiere le hanno davvero?)
Wall E è un cartoon?
C’è qualche pazzo su questo pianeta che sarebbe capace di andar in giro a dire che “L’altro giorno ho visto quel nuovo cartoon col robottino dagli occhi dolci, Wall-E!”?
Lo conoscete?
Usatelo come piattello nella vostra prossima battuta di caccia (dalla regia mi dicono che a caccia non si usano i piattelli altrimenti i cani da caccia dovrebbero volare e i cacciatori tornati a casa presenterebbero un buon piattello spezzato alla moglie da cucinare con le patate al forno…forse sarebbe la volta buona che gli va qualcosa di traverso e la smettono di uccidere piattelli!)
Io l’altra sera al cinema non ho visto un cartoon.
Non ho visto Willy il coyote che si schiacciava con il decimillesimo masso nella valle desertica (finiranno sti massi prima o poi no?), non ho visto Bugs Bunny che mangia le carote (o era forse Clive Owen in Shootem’up?), non ho visto dell’assurda gente gialla con tre peli in testa e neppure qualche strano tipo con la faccia scubettosa e i capelli sparati in aria di qualche colore improbabile tipo viola-nero-rosso-giallo.
E per la cronaca: non ho visto neppure un ape che imita il Laureato o un Panda ciccione che fa Kung Fu.
Io l’altra sera al cinema non ho visto un film di fantascienza.
Non c’era quello stacco ormai quasi impercettibile (ma che comunque permane) tra materia esistente (gli umani) e materia fantastico-computerizzata.
Io l’altra sera al cinema non c’ero.
Ero perso in un mondo apocalittico pieno di grattacieli di rifiuti compressi insieme a un robottino curioso e tanto solo la cui unica occupazione era appunto quella di comprimere rifiuti e recuperare qualche bell’oggetto da mettere da parte per la sua collezione privata.
20093320 disegnatori, 023498 mesi di lavorazione, 77468372 schizzi, 3147832 milioni di dollari incassati, Wall-E è nato da un idea che il produttore ha avuto nel lontano 1957 quando appena nato vide una colomba che gli cagò in testa che secondo lui era molto simile a un occhio che poi blablablabla (ogni tanto mi chiedo se le pensano a casa certe storie…), potrei sommergervi di inutili notiziole da “non ho uno straccio di idea e vi metto due numeri e qualche aneddoto per arrivare ai 500 caratteri”.
Non mi interessa.
Io dico solo: emozioni.
Tristezza, gioia, malinconia, solitudine e felicità.
Di quelle pure.
Di quelle che credi di aver perso con la fine dell’infanzia e che ritrovi ammirando Wall-E che ti muove dentro con i suoi occhioni.
Non leggete più nulla, non guardate più nulla (casomai vi capiti Vincenzo Mollica che in tv vi racconta il finale provate a sputargli in un occhio), non pensate più a nulla.
Prendete la mano di chi amate e sedetevi in sala.
Ed andate a far compagnia a Wall-E.
Si sente tanto solo.


PER REGIA, GENERE E ANNO VEDERE PIù IN BASSO!
VOTO:10- (e con una seconda visione abbasso di netto il voto di ratatouille a 7,5)

WALL-E. DIO L'UOMO E IL ROBOT
di Leo
“Ho fatto un sogno che non era proprio un sogno […]
Quel possente e popoloso mondo era una massa informe,
senza stagioni, erbe, alberi, uomini, e senza vita,
un mucchio di morte – un caos di dura creta.
I fiumi, i laghi e l’oceano. Tutto era immobile
E nulla si muoveva dentro le silenziose profondità;
le navi senza marinai marcivano sul mare
e gli alberi cadevano a pezzi: una volta caduti
si addormentavano nell’abisso senza flutti;
erano morte le onde e le maree:
la luna, loro padrona, si era spenta presto,
coi venti, inariditi nell’aria stagnante
e le nubi dissolte: le tenebre non avevano
bisogno di nubi: erano loro, ormai, l’Universo”.

[Lord Byron, composta a Diodati nel luglio 1816; “Darkness” – “Tenebre”; testo italiano da “Poeti romantici inglesi”, a cura di Franco Buffoni, Milano, Bompiani, 1990, vol. II; pp. 553-557]

Le distopie* teleologiche ambientate alla fine del mondo sono comuni e diffuse in tutte le culture, e rispondono fondamentalmente alle domande “Che cosa ne sarà di noi alla fine dei tempi?”, “Che cosa ne sarà alla fine dei tempi del nostro pianeta?”, quest’ultima solo più recentemente virata in chiave ecologista in un più ‘verde’ “Che cosa accadrà al pianeta Terra con il nostro irresponsabile comportamento?”. Ora, a prescindere dalle questioni astronomiche, dal futuro ciclo vitale del Sole, che tra miliardi di anni tenderà ad implodere in una nana rossa e, prima di sparire come gigante produttore di calore, renderà la Terra inabitabile a causa dell’intollerabile caldura e della maggiore vicinanza ad esso, il tema della fine affascina da sempre gli animi umani, in particolare per quanto riguarda il lato strettamente culturale e religioso.
*= [situazione storica di una società umana fittizia in cui le premesse di benessere collettivo sono totalmente rovesciate]
Le apocalissi cristiano-ebraiche canoniche ed apocrife, nella loro etimologia greca di “rivelazione”, ci dicono già che il sapere della fine si combina con la conoscenza rivelata degli avvenimenti che la determineranno, imponendo così un punto di vista totalmente imperniato sul senso finale, sulla fine.
Che cosa ne sarà di noi, e con quale scopo allora?
La domanda è da riporre con insistenza perché la cosa più interessante è che, spesso, nelle più celebri produzioni cinematografiche – odierna riproposizione efficace di stilemi narrativi legati un tempo alla trasmissione orale, o a mezzo testo, di situazioni umane archetipiche – il senso della fine, alla fine del tempo, abdica alla condizione umana per invadere il campo dell’artefatto umano, dell’automa, del robot, dell’essere fantastico-immaginifico, raramente l’uomo.
Se un tempo i latori delle trombe della rivelazione erano angeli, ora i messaggeri delle ultime cose si radicano negli automi.
In “Blade Runner” [1982/1992+2007; Ridley Scott; USA – basato sul romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? del 1968], non c’è più alcun Dio ad agire come garante della verità che il soggetto può raggiungere. Il ‘cogito ergo sum’ cartesiano affonda in un soggettivismo che non richiederebbe nulla sopra di sé; nel sistema di Descartes era però necessaria la presenza di Dio in qualità di garante ‘super partes’ del razionale. Da qui la razionale prova ontologica dell’esistenza di Dio: a) Dio è l’essere sommamente perfetto; b) la perfezione comporta l’esistenza; c) dunque Dio esiste. Rick Deckart (Harrison Ford), lo si consideri l’automa programmato per dare la caccia agli altri androidi, lo si consideri un agente umano, è comunque immobile sulla soglia della decisione del Sé, umano o no. Anche se, in fondo, qual è alla fine la differenza tra i due termini del problema, tra l’organico e il sintetico, se è possibile amare ed avere ricordi, avere coscienza di sé, del proprio atto che è nel tempo, una faccenda tra il presente e la decisione che comporta il fare una determinata operazione? Se Deckart può amare Rachael (Sean Young), e avere memoria di sé che in quanto amante ed amato, che differenza fa l’essere o non essere ‘umano’?
Dice Roy Batty (Rutger Hauer):
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”
Ecco come il garante finale della memoria umana si configuri in ultima istanza come non-umano – ma nemmeno divino!
Nel XVII e XVIII secolo le carenze del sistema razional-teologico cartesiano erano apparse evidenti.
Scrisse Pascal di Cartesio, avendo avvertito il rischio che correva la legittimazione della fede: “Non posso perdonare a Descartes [sic]. Avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto per mettere in movimento il mondo: dopo di che, non sa che farsi di lui”. [“Pensieri”, brano 77, Torino, 1962, p. 21]. Cartesio non era minimamente contrario alla fede, ma il suo sistema era un colpo mortale per essa, ed un punto a favore delle molteplici forme di ateismo – spesso in conflitto tra loro – e del materialismo meccanicista.
La Mettrie intitola “L’Homme-machine” un suo testo del 1747.
«Il corpo umano è una macchina che trova in se stessa l’energia», scrive il medico La Mettrie, “ma una macchina di una complessità straordinaria, in grado di produrre vita, sentimento, pensiero” [cit. da Minois, G., “Storia dell’ateismo”, Roma, Editori Riuniti, 2001; p. 404-405]. Allora che differenza fa un automa capace di ricordare, di provare sentimenti e magari di generare altra “vita” meccanica a confronto con un ‘uomo’?
La strada è tracciata.
Il mondo iper-tecnologico dei due lungometraggi di “Ghost in the Shell”, opera di Masamune Shirow, non è altro che una elegante e raffinata variazione sul tema: biologia come forma superlativa di tecnologia e anima come elaborato software, con nel mezzo tutte le possibili ibridazioni del caso [“Ghost in the Shell”, 1995; “Ghost In the Shell: L’attacco dei cyborg”, 2004; entrambi regia di Mamoru Oshii, soggetto di Shirow Masamune; Giappone].
Un punto interessante ora lega alchimia e mistica al senso della vita, alla sua creazione ex nihilo.
Nel 1684, Darmanson pubblica il testo “La bête transformée en machine”, in cui difendendo Cartesio afferma l’evidenza che Descartes fosse favorevole alla fede giacché negava la sensibilità degli animali; se soffrissero Dio sarebbe in fondo colpevole della loro innocente sofferenza, poiché essi non furono partecipi del Peccato Originale. Eppure, privi di anima immateriale e mortale, ma dotate di coscienza, non potrebbero essere exempla della situazione dell’uomo? Occorre precisare che le altre posizioni dell’epoca si distanziano assai da tale concetto e Gassendi, Maignan e l’abate Villiers, con tutte le differenze che intercorrono tra i loro pensieri e limitandoci alla Francia, attribuiscono agli animali un’anima (talora immateriale, talaltra immortale; talvolta entrambi gli attributi). La Chiesa sarà sempre scettica nei confronti della tesi “animale=macchina” [cfr. Minois, G., op. cit. ; p. 234].
Se l’uomo insegue la creazione della vita e la ricerca dell’anima, l’alchimia è l’incontro tra tecnica spirituale e tecnica profana. L’uomo ha gettato la Creazione intera nella prostrazione del peccato originale, condannandola alla sofferenza e all’allontanamento dalla divinità; la pratica alchemica allora mira a ricondurre ad unità la spezzata armonia, alla redenzione del Creato intero. Operando sulla materia, trasformandola, salvo me – e l’umanità – attraverso l’Opera, e salvo la materia stessa dalla Caduta dal Paradiso causata solo dalla stolta coppia dei primordi.
La giustificazione teologica spezza le remore dell’hybris laicamente intesa, del tracotante orgoglio umano di poter creare la vita.
Il Golem, “l’amorfo”, l’Adamo (=etimologicamente, la “terra rossa”) originario ancora proto-umano, e solamente in un secondo tempo l’essere archetipico del robot (dal ceco ‘robota’, lavoro), homunculus rabbinico e nesso tra alchimia cristiana e studio della kabbalah, entra prepotentemente in scena. La sua creazione non ha scopo pratico, se non quello di provare la potenza di Dio. Assolvente la funzione di lode al Signore, viene – spesso – immantinente dissolto.
“La creazione del Golem comporta dei pericoli, anzi come tutte le grandi creazioni mette a repentaglio la vita; […] i pericoli non provengono da lui, ma piuttosto dall’uomo stesso […] dalla tensione che il processo provoca all’interno dello stesso autore […]. La minaccia da parte del Golem che s’incontra nelle leggende posteriori è una profonda trasformazione della concezione originaria […]” [Scholem , Gershom, “La kabbalah e il suo simbolismo”, Torino, Einaudi, 2001; pp. 239-241]. Dalla situazione del Golem si evince un terzo fattore di interesse: l’afasia, l’incapacità di parlare linguaggio umano. Seppure tale condizione non sia universalmente accettata dalle fonti, è da notare, come nota Scholem a nota di un testo da lui commentato, che “il Golem non è incapace di parlare per sua natura, ma solo nelle condizioni attuali, in cui l’anima dei pii non è più pura” [Scholem, op. cit., p. 243].
Nel mondo di Wall•E i pii non sono più puri.
Nel mondo di Wall•E gli automi non parlano.
Gli umani sono stati (lo sono adesso?) devastati dall’incapacità di mantenere una relazione stabile con l’ecosistema. Hanno violentato la Terra, sommersa di immondizia e rottami. Hanno fallito. Le macchine, hanno provocato quel rischio da cui Scholem mette bene in guardia: l’inflazione psichica del soggetto, il sentirsi prima che ‘uomo’ il ruolo che si ricopre, il lavoro che si fa. “L’identificazione con l’ufficio o col titolo ha perfino qualcosa di seducente, sicché molti uomini non sono nient’altro che l’ufficio concesso dalla società, [seducente perché] rappresenta un comoda compensazione delle insufficienze personali” [Jung, C. G., “L’Io e l’Inconscio”, Torino, Bollati Boringhieri, 1967, ed. orig. 1928; p. 50-51]. Gli umani si sono crogiolati sotto le vane e vuote promesse del futuro e delle comodità. Sarebbe vano cercare un uomo pensante, una personalità nel mare dell’omologazione, nel gregge di caricature antropomorfe del mondo di Wall•E, perché “dietro la gran gonfiatura si troverebbe solo un miserabile omiciattolo” [Jung, C. G., op. cit.; p. 50].

“[…] Nel panorama avvizzito non c’era nulla che si muovesse. Niente agitava la pianura sabbiosa, rena disintegrata di fiumi da molto tempo asciutti nel cui solco, un tempo, eran corse le acque della giovane terra. C’era ben poco verde in quel mondo arrivato alla fine, ultimo stadio della presenza umana sul pianeta. Per innumerevoli cicli siccità e tempeste di sabbia avevano sconvolto le terre” [“Finché tutti i mari…”/”Till A’ the Seas…”, di H. P. Lovecraft, in collaborazione con Robert H. Barlow, 1935; “Tutti i racconti 1931-1936”, Milano, Mondadori, 1992; p. 593].
“Waste Allocation Load Lifter Earth-class”: l’acronimo del nome del robot protagonista, una sorta di sollevatore di carichi di rifiuti, dimenticato da 700 anni solo sulla Terra a ripulire dalla spazzatura quella che appare come una città statunitense, ma che potrebbe benissimo essere il centro di una qualunque altra megalopoli del globo. Imperterrito, continua il lavoro, ignorando che la sua missione è da tempo inutile, obiettivo ormai dichiarato irraggiungibile. Lavora, come l’Adamo condannato a guadagnarsi la vita con il sudore della fronte, lavora come indica il neologismo ‘robot’, ricalcato sul ceco “lavoro”, come un alchimista all’Opera.
Solo così ha potuto apprendere ed imparare i comportamenti umani, tramite VHS e spezzoni di films retrò. Solo così ha imparato la forza redentrice dell’amore. Solo così potrà insegnare alla robot EVE (“Extraterrestrial Vegetative Evaluator”, Esaminatrice di vegetazione extraterrestre), compagna dell’Adamo terrestre, ad amare e ad amarlo. Solo così ha potuto redimersi.
Per gli umani non c’è più speranza. Obesi, condannati ad un esilio dorato su di un’astronave proprietà di una multinazionale che li ha soggiogati secondo una logica alla “Brave New World” (“Il Mondo Nuovo”; Aldous Leonard Huxley, 1932), impedendo loro di pensare, di vedere con i loro occhi l’abominio che si sono permessi di diventare, schiavi di bibite gassate e telecomunicazioni digitali, schiavi delle loro macchine. La speranza dell’umanità più pura risiede nel cuore di un automa, erede della Terra.
La meticolosità – ma non certo l’ingenuo ottimismo – di Wall•E nel programmare, per 700 anni, la propria condotta di vita, riporta alla mente il Robert Neville di “Io sono leggenda”:
“Più tardi, si impone di andare in cucina per eliminare nel tritarifiuti le immondizie accumulate in cinque giorni. Sapeva di dover anche bruciare i piatti di carta e le posate, di dover spolverare i mobili, lavare i lavandini e la vasca da bagno e il water e di dover cambiare le lenzuola e la federa del letto; ma non ne aveva voglia. Perché era un uomo ed era solo, e queste cose per lui non avevano più importanza” [Matheson, Richard, “Io sono leggenda”, Roma, Fanucci, 2005; p. 13 – già brillantemente recensito in questa sede da Deneil]. Persino il compagno di Neville – il cane bastardo bianco, marrone e macilento del libro/il prode pastore tedesco del rifacimento cinematografico con Will Smith – ha una contropartita nello scarafaggio compagno di Wall•E.
Eppure c’è qualcosa che resta nelle pieghe della memoria, qualcosa che non si riesce a districare,che si impiglia ripetutamente e con ostinazione: perché in tutte le ultime distopie cinematografiche sul futuro, la parte del redentore positivo o del ‘deus ex machina’ è sempre di un non-umano, di un super-umano o di un uomo che per determinate caratteristiche è al di sopra (o al di sotto) dell’espressione umana, quasi a ricalcare quell’angelo messaggero dei primordi? Perché questa profonda negatività connaturata all’ontologicamente malvagio (o al più superfluo) uomo?
“Le stelle continuavano a girare, il disegno indifferente sarebbe continuato per epoche ignote e infinite. La fine di quel trascurabile frammento non importava affatto alle nebulose lontane o ai soli neonati, fiammeggianti e moribondi. La razza umana, troppo fragile e passeggera per avere un’autentica funzione e scopo, era come se non fosse mai esistita. A questa conclusione avevano portato i lunghi millenni della sua evoluzione, laboriosa fino al ridicolo” [Lovecraft e Barlow, 1935; op. cit., p. 602]. Millenni per arrivare a tenere in mano un telecomando e una lattina di bibita gassata.
Il bene impersonato da un robot: proiezione esterna su materiale inerte della umana intrinseca bontà? Non credo; esternazione di qualità che si vorrebbero avere, ma che si sa di non poter possedere, su un totalmente altro che alla fine risulta essere più umano, ed immensamente più puro, dell’uomo.

Wall•E è un film per far riflettere, e per il momento il capolavoro del cinema d’animazione; Wall•E, e la sua compagna EVE, sono gli unici umani del film capaci di umani sentimenti. Anche quando sarà surclassato per tecnologia da altre vibranti prove d’animazione digitale, resterà un film tra i capolavori. Perché il contenuto, il senso del bello e l’amore non cambiano mai.


REGIA: Andrew Stanton [Pixar Animation Studios]
ANNO: 2008
GENERE: Animazione [mai definizione ad etichetta fu più restrittiva]
VOTO: 10
QUANTO è PURO QUESTO FILM: 10 [a tratti, nei momenti migliori, mi ha ricordato “Stardust”; ma “Wall•E” è più maturo, senza nulla togliere al film tratto dal romanzo per ragazzi di Neil Gaiman; non mi dilungo sulle tonnellate di citazioni sparse nel film, dai giocattoli in rottami di “ToyStory”, alla lampada Luxo Junior del primo cortometraggio animato firmato Pixar, a “2001: odissea nello spazio”, etc…Degna di nota la canzone dei titoli di coda di Peter Gabriel, l’animazione vibrante degli stessi, e il simpatico, ma che nulla toglie od aggiunge, sketch “Presto”, un piccolo omaggio ai cartoni animati di Hanna & Barbera, posto con giudizio prima dell’inizio del film. Il film è dedicato a Justin Wright, un animatore degli Studios – che ha lavorato al cortometraggio “Presto” – venuto a mancare nel 2008 a soli 27 anni]

> POST SCRIPTUM per chiarire brevemente la possibile votazione dei titoli tralasciati e/o citati:
- Blade Runner: 10
- Ghost in the Shell: 8+
- Ghost in the Shell: L’attacco dei cyborg [Innocence]: 8/9

domenica 14 settembre 2008

HANCOCK



Leggi le critiche oltreoceaniche di “Hancock” che ti dicono: ma va è una merda, ma chi lo voleva un film del genere, e noi (critici sotto le mentite spoglie di gente comune che va al cinema) che pensavamo stesse arrivando il non plus ultra del cinecomics (che guarda quanto son figo, sono un critico gggiovane e uso il termine cinecomics) e invece ci ritroviamo con un inutile blockbusterone con Will smith protagonista che si è bravo però potrebbe scegliere le pellicole con più attenzione perché poi magari gli incassi stratosferici di ogni suo film negli ultimi due anni cominceranno a calare e allora saranno guai per lui.
Leggi le critiche oltreoceaniche di “Io sono leggenda” e siam di nuovo li: ma va noi (critici stravecchi sotto le mentite spoglie di gggiovani che usano il termine cinecomics) ci aspettavamo il nonplusultra del genere apocalittico e invece va che schifo sto blockbusterone con il finale accomodante con Will Smith che si è bravo però potrebbe scegliere le pellicole con più attenzione perché poi magari gli incassi stratosferici di ogni suo film negli ultimi due anni cominceranno a calare e allora saranno guai per lui.
Leggi le critiche del prossimo blockbuster con Will Smith che incasserà una marea di dollaroni (e euroni) e dove Will Smith darà ulteriore prova del suo talento e sei sicuro che ti troverai davanti la stessa identica minchiata fritta e rifritta di critici frustrati che evidentemente non hanno nulla da fare che prendersela con un tale di colore che evidentemente ha fatto troppo successo per le loro menti deviate dal ping pong cinese delle Olimpiadi (avete presente quei tizi che vestono divise improbabili e assurdamente decorate con dragoni e creature straordinarie che con facce impegnate ai limiti del ridicolo si apprestano a colpire una pallina minuscola su un campo minuscolo all’interno di un palasport gigante che mi chiedo sempre che cazzo può capire quello in piccionaia di sti due besughi che si muovono come grilli attorno a un tavolino da the (rigorosamente al gelsomino essendo cinesi) colpendo una pallina che da quell’altezza è impossibile vedere).
Poi vai al cinema con la tua dolce metà avvertendola che “guarda che magari è una minchiata quindi non esaltiamoci troppo per i divertenti trailer” e ne esci entusiasta.
Non è che esci e dici: carino…
No.
Esci e sei li che saltelli esclamando (il verbo esclamare credo sia usato in Italia da me e da qualche maestra delle elementari quando corregge i temi dove sta scritto in 10 righe 20 volte “dice” con notazione al fondo dove sta scritto: bene il tema ma attento alle ripetizioni): bello bello bello!
E ti viene il dubbio.
Che i critici oltreoceanici forse sono solo una sorta di entità fisica creata a doc da un regime totalitario folle che sembra voglia distruggere i film con Will Smith (con una motivazione peraltro accettabile dal 90% della popolazione invidiomerdosa mondiale: sta avendo troppo successo) ma che in realtà stronca le varie pellicole con Smith protagonista sapendo che l’uomo comune dotato di cervello (soprattutto se europeo) non darà mai retta alle parole di certi signori altolocati e si recherà anzi al cinema a vedere le suddette pellicole soltanto per uscire e dire: ma son proprio dei coglioni sti critici del cazzo.
È ovvio che a un pensiero del genere ne seguirà un altro: ma chi ha permesso a gente del genere di diventare critici cinematografici? Potrei andarci io per tanto così!
Ed ecco quindi una esplosione delle iscrizioni a scienze delle comunicazioni in Italia con una marea di aspiranti critici, pubblicitari (convinti dopo aver visto per la milionesima volta Richard “mi tiro ancora un po’ la faccia e divento un culetto di bimbo a 80 anni” Gere che se ne va in Tibet a mettere le mani sulla sabbia con un bimbo che nulla può grazie alla sua Lancia “non so che”) e giornalisti (che una volta visto Del Noce che stampa baci in bocca a tutti, l’altro giorno mi son beccato un iguana che entrava a Palazzo Nuovo per il test di ammissione a Scidecom).
Ed ecco quindi che dopo aver piazzato gente nei posti più improbabili (a stampare lettere per gli abbonamenti di Focus) Scienze della comunicazione in Italia esplode e si ritrovano tutti con un bel pezzo di carta in mano, molto foxy per intenderci.
Ed eccolo attuato il malefico piano dei falsi critici cinematografici oltreoceano.
E mentre Deneil si rende conto di tutto ciò si rende anche conto che da tempo un film sui supereroi non lo faceva uscire così soddisfatto.
Se non fosse che Hancock non è un film sui supereroi, non è uno sbrodolante cinecomics e non necessita quindi di sto cazzo di ultracattivo che in tutte le recensioni lette tutti incitano a gran voce (il solito meganemico con la solita genesi e blablabla).
Hancock è un Dio.
E in quest’epoca di credenze tanto alte quanto evanescenti viene indicato come un supereroe.

What if God was one of us
Just a slob like one of us
Just a stranger on the bus
Trying to make his way home

E se dio fosse uno di noi?
Voi sapreste immaginarlo nero, perennemente ubriaco, irritabile e spaventosamente solo?
E se Hancock fosse davvero un buon film?
Voi sapreste immaginarlo con protagonista un Will Smith strepitoso come al solito, una Charlize Theron perfetta nel suo ruolo (evito spoiler mostruosi perché vi voglio bene!) e una sceneggiatura ben scritta anche nella sua superficialità?
Sento già invocazioni a gran voce su come poteva essere approfondito il personaggio di Smith, su come si potevano evitare tante scene spettacolari da blockbuster americano a favore di una descrizione più approfondita della vera coppia del film, su come doveva esserci il supercattivone, su come una camera in spalla non può rendere la storia di un supereroe, sulle origini di Hancock che vengono compresse in un discorso di 30 secondi.
Tutto quel che manca potete immaginarlo come in un “Signore degli anelli” letto senza aver mai visto il film.
Divertente, spettacolare, ben recitato, ben diretto e con una buona dose di drammaticità.
È un discorso più generale.
Mentre esco mano nella mano dalla sala mi rendo conto di non volere nulla di più.

REGIA:Peter Berg
VOTO: 7,5
GENERE: Fantastico

venerdì 8 agosto 2008

THE DARK KNIGHT- IL CAVALIERE OSCURO

Eccolo!
Non vi dico nulla per non rovinarvi la sorpresa sul giudizio mio e di Leo...leggermente differenti questa volta!
Prima trovate la recensione di Leo e poi la mia...in attesa di ammettere che sono una testa di legno troppo dura persino per me.

IL TOTEM DEL PIPISTRELLO E LO SCIAMANO BUFFONE

BY LEO

Il pipistrello.
Le ali dell’angelo decaduto.
Temono la luce. Come i vizi capitali, come nel buio delle caverne.
Latino Vespertilio e greco Nykterìs, come i nomi dei sonnambuli notturni.
Le anime dei morti squittiscono come i pipistrelli, nell’Odissea omerica.
Chirotteri, mammiferi volanti.
Per Santa Ildegarda di Bingen (1098-1179) essi sono uccelli, ma assai peculiari. «Volano specialmente quando gli uomini dormono e gli spiriti, di conseguenza, se ne vanno in giro»; suggerisce che se qualcuno soffre di itterizia deve trafiggere un pipistrello vivo e appoggiarlo sul proprio dorso, stringendolo bene. La malattia passerà dall’uomo al ricettacolo sacro fornito dal corpo morente del pipistrello [Biedermann, H., “Simboli”, 1989 (ed. orig.); pp. 407-408] .
Eppure talvolta come per l’ambivalenza regale di tutti i simboli, esso si pone come speculare lato positivo. In Cina fu segno di felicità, e non mancano mandala orientali con una costruzione ‘à la quinconce’: quattro pipistrelli ai lati di un immaginario quadrato contenente al suo interno un cerchio, il cui centro è a sua volta un altro pipistrello alato.
Per i Quiqué-Maya, un divino essere infernale è il ‘pipistrello che strappa le teste’. Le streghe lo attorniano adoranti nei sabba iconici.

Un demone. Uno spirito, puro pneuma.
Non importa se sùpero od ìnfero.
Ambivalente, ambiguo. Morte e felicità.
Un simbolo potente.

Un folle.
Il buffone. Origo et fons degli ‘Arcani Maggiori’ dei Tarocchi, il numero 0.
Un lacero viandante vi è raffigurato sopra, cacciato e scacciato da un minuscolo cane.
È l’inesperienza, all’attiva ricerca della saggezza [Biedermann, cit., p. 80].
Nell’eterno Qohélet la follia può essere più saggia della sapienza (10,1).

L’uomo pipistrello è il totem del clan degli uomini dell’immaginaria città di Gotham.
Li unisce come costruzione sociale ipostatizzata, concreta, nella potenza arcaica del suo simbolo.
Le sue ali solcano i cieli nelle nuvole notturne. Avvolgono come un manto oscuro i sogni di una città creata nell’immaginale a fumetti tra gli anni ’30 e ’40 dell’America reale, uscita dalla Grande Depressione solo per scivolare in un’altra guerra mondiale.
Non è il rosso sgargiante dell’altro eroe della DC Comics, il fuoco della porpora imperiale combinato con il blu della regalità delle icone bizantine.
È il nero.
Gotham è il lato oscuro di Metropolis.
Gotham è una città di questo squarcio iniziale di III millennio.
I suoi cittadini sono i nostri vicini.
La polizia in balia del crimine sono le nostre forze dell’ordine. I suoi vigilantes privati sono le risposte allarmate della cittadinanza. A paura altra paura; all’indifferenza la spasmodica azione concreta.
Il loro panico è la nostra angoscia.
Metropolis è morta.
Lunga vita al nostro animale totemico, mentre ci lanciamo in un ballo sfrenato attorno al palo sacro, al nostro Axis mundi. Sapendo che, come in un blasfemo sabba lovecraftiano, poco oltre, là nella scia dei Grandi Antichi (=gli eterni archetipi umani dell’inconscio), sull’orlo del baratro, non stiamo facendo altro che divinizzare la nostra angoscia, la nostra sofferenza.
Questa è la nostra “sacra volta” che ci ripara, sotto cui difenderci dalla pioggia incessante di questa virtualità reale quotidiana, la nostra religione moderna ed accessibile democraticamente a tutti: la paura.
L’uomo-pipistrello è il nostro profeta.
Un simbolo.
Sùpero od ìnfero non ha importanza ora.
Questo è l’eroe di cui Gotham non ha bisogno, ma solamente colui che Gotham si merita.
La coscienza esteriorizzata ed oggettivata in un simbolo, in un animale.

Il buffone è il saggio.
Voilà, vengono date le carte.
Gira la pallina nella roulette.
Fa’ il tuo gioco.
Ma non è abbastanza. Perché non ha senso quell’eterno aspettare il numero giusto.
Il viandante ha già visto. Ha vestiti sfatti. Il viandante ha conosciuto l’animo umano. Ha capelli sporchi. Il viandante ha capito il fuoco spento che s’agita dietro i sorrisi falsi. Ha trucco sfigurato. Il viandante ha sentito tutte le voci, tutti i rimproveri, tutte le lodi, le poesie e le bestemmie.
Non lo guida mano di uomo, non sente voce di amici. Ignora convenzione per farsene gioco.
Dio stesso gioca con l’ambiguità, con il potere dei simboli: ad un pazzo donare la saggezza!
Eppure non pare idea così bislacca. Non quando lo si vede agitare le mani al vento, estasi estetica alla pioggia. Non quando sfida i potenti su regole d’imposizione.
Non quando sale sul palo del totem per farsene beffe – o per adorarlo – e dimostrarsi sciamano più vicino ai cieli dei comuni mortali che venerano timorosi il pipistrello da terra, in ginocchio, con la pelle sporca di fango, senza capirlo.

Perché lui è l’alter ego del pipistrello. Giorno e notte. Compagnia e solitudine. Caverne e reggia del
re. Insetti e corte principesca. Entrambi reietti, entrambi prigionieri di un archetipo. Due facce della stessa medaglia.

Non è ancora Frank Miller. Non è ancora Metropolis contro Gotham.
Ma le basi sono gettate. Il buio è calato. I buoni cadono. Chi ha tradito, è impazzito e ha ceduto al potere dell’inconscio, abdicando alla salute mentale [Harvey Dent]. E con il buffone il gioco diventa preda di sadismi folli, e masochismo inutile. Chi ha iniziato l’escalation al male? L’esaltazione del bene a tutti costi del pipistrello. Chi è allora causa prima del male? Il bene?
Alle domande i cittadini singhiozzano e non rispondo. Cadono.
Il pipistrello ed il buffone non cadono. Loro stessi si sono fatti miti. Un rito è la celebrazione di un mito, la sua riattualizzazione comunitaria. Un fatto accaduto agli dèi in epoche passate. Carne di mito, carne di dèi.
Celebriamo questo rito. Cediamo alla follia – o all’oscurità.

> Stiamo assistendo ad una vera e propria esplosione di film dedicati a personaggi dei fumetti; anzi, posso affermare che tale è il nuovo mainstream dell’industria cinematografica. E il sacro, il bisogno di religiosità (si badi bene, non “religione”) lasciato vuoto dagli spazi già secolarizzati, viene riempito dalle sale domenicali, dai DVD del week-end. È la vittoria della “nuova mitologia”, del fantastico todoroviano in chiave cinematografica. Ma, visto che di altro si tratta (e lambisce la storia delle religioni e la letteratura), di questo ne parlerò in un prossimo post su geomythology.blogspot.com…
Qui prossimamente, “Hellboy 1+2” [avrebbe dovuto accompagnare il Cavaliere Oscuro, ma tant’è…], e la promessa storia dei peggiori film tratti dai fumetti della ‘I Era Marvel’ cinematografica.

REGIA: Cristopher Nolan
ANNO: 2008
GENERE: Avventura; Fumetti
VOTO: 9 ½ [un pugno di battute fuori luogo – cfr. i poliziotti attaccati dal Joker; impassibile Wayne/Bale e monocorde, forse troppo. Come tono meglio l’atmosfera generale di Iron Man. Ma il resto del cast è eccezionale. Ode a Gordon/Oldman –da Dracula a Batman resta invischiato nell’archetipo del pipistrello – e Caine/Alfred. Geniale e incorruttibile da ambo i lati della salute mentale Eckhart/Dent. Ledger titanico, folle…no, questa volta lode e merito sono meritatissimi. Purtroppo, non so quanto questo ruolo c’entri con l’epilogo della sua vita. Certo, il contatto della persona/maschera con l’archetipo folle non può avergli giovato. Ma è solo una speculazione assolutamente non verificata. Lascia a tutti l’interpretazione ultima. Spazzati via tutti i dubbi che anch’io ebbi a suo tempo. Arte pura]
QUANTO E’ LEGGENDARIO LEDGER NEL RUOLO DEL JOKER: 10
CONSIGLIATO A CHI: tutti. Iron Man è -finora- il capolavoro della Marvel. Questo Batman è il capolavoro della DC Comics.
> Tralascio il “Superman” di Singer – troppo kitsch, troppo retrò, troppo buonista. Efficace Kevin Spacey, ma non lo si può prendere sul serio per tutto il film. A tratti molto meglio “Smallville”. Voto: 5-
> “Batman begins” alla luce del sequel: 7/8 - [evidenziati i limiti delle battute fuori luogo, presenti in numero maggiore; nel 2° episodio maggiore compattezza. Comunque era il miglior film dedicato all’uomo-pipistrello, ora spodestato dal Cavaliere Oscuro]
> Post Scriptum: On-line già disponibile il trailer di “Watchmen” (You-Tube)…dobbiamo temere qualcosa considerando il regista di “300”? (Nulla da eccepire, se non lo spirito totalmente differente che anima i due film).

FINE RECENSIONE DI LEO.
INIZIO DEL DELIRIO DI DENEIL.

Dunque.
C’è sto tizio tutto vestito di nero con un cappuccio con le orecchiette a punta tipo gatto che se ne va in giro per la città a spaventare tutti con la sua voce da trans appena operato.

E c’è un altro tizio che ha delle inspiegabili cicatrici in faccia, si diverte a truccarsi come un pagliaccio e continua a leccarsi le cicatrici e a deglutire come un maniaco perché evidentemente crede di essere simpatico.

Capita poi che il tizio con le orecchiette da gatto altro non è che uno sborone di nome Bruce Wayne che è il più ricco dei ricchi di sta città che nessuno sa dov’è di nome Gotham City.
Del tipo è uno che se ne va in giro a comprar ristoranti e a pavoneggiarsi con il nuovo procuratore della città che quel ristorante è tutto suo e quindi lui un posto ce lo trova sempre.
Capita anche che l’altro tipo, il maniaco che si crede simpatico, organizza delle rapine in banca praticamente perfette dove alla fine rimane vivo sempre e solo lui e poi se ne va in giro a ricattare i più potenti boss della mafia perché tanto lui ha le cicatrici in faccia e se le lecca quindi non può che essere potentissimo e invincibile.
Poi c’è un terzo.
È un figaccione biondo che fa delle campagne pubblicitarie che neanche Berlusconi ai tempi d’oro e ovviamente piace a tutti ma soprattutto al signor orecchiette che quasi quasi decide di smetterla di rendersi ridicolo ogni sera con quel costume delle palle che tanto non serve a nulla dato che si fa sempre un male cane.

Capita che sto figaccione sia innamorato (e stia con) della stessa faccia flaccida da zitella inacidita che un tempo era fidanzata con il signore sborone che potendo avere tutta la figa di Gotham City e dintorni (se esistono dei dintorni dato che sembra nessuno esca mai da quella città di merda che un tempo era anche oscura e piovosa e ora non si sa come sembra una metropoli qualunque… dev’essere evidentemente bello abitarci!) è ovviamente ancora innamorato della zitellaccia a cerca di riconquistarla nel migliore dei modi possibili: promette di non mettersi più le orecchiette e parlare come un trans ogni benedettissima notte.

IN BASSO A DESTRA LA PROSSIMA COMPAGNA DI BATMAN SECONDO NOLAN?
Ci son quindi sti tre tizi più un commissario coi baffi che finge di odiare Orecchietta come potrebbe fingere un bimbo di tre anni, un sindaco con l’eyeliner che non si capisce bene che cazzo serva in sta città di merda e una marea di cittadini che fan solo del casino nei momenti più inopportuni.
Ecco ci son tutti sti personaggi un po’ ridicoli che però si prendono terribilmente sul serio e son diretti da un certo signor Nolan che con un budget supermegaultraiperstratosferico decide bene che ora lo fa lui il cinefumettone del secolo e poche storie!
Prende tutti (compreso un tizio che gli piace tanto dato che l’ha già messo con esiti per me esilaranti in un altro film che se ne va in giro con un sacco di iuta sulla testa come se nulla fosse) e tira su una storiona un po’ da gangster, un po’ epica, un po’ drammatica e molto tamarra dove tra esplosioni da cinema e una buona dose di azione diretta senza dubbio in modo migliore rispetto a quel casino di Batman Begins cerca di infilare domande tanto profonde quanto ormai troppo abusate.
E l’eroe che in realtà eroe non è, anzi è pazzo quasi quanto il pagliaccetto.
E i normali cittadini che tanto son pazzi omicidi pure loro sotto sotto.
E i carcerati che in realtà sono i più buoni del mondo.
E la politica corrotta e con due facce.
E via di questo passo mentre Nolan ancora si diverte con qualche gingillo Batmanesco (quella cosa che segna gli impulsi o che cazzo fa un po’ di casino nelle scene d’azione) e con attori truccati in modo divino (Joker) o in modo imbarazzante (Due Facce sembra uscito direttamente da un Batman di Burton, e non è un complimento per un film che si vuole prendere così seriosamente!).

IL TRUCCO DI DENT NEL SEGUITO DEL CAVALIERE OSCURO...
C’è una fotografia tanto oscura e patinata da dar quasi fastidio (se davvero si vuole rendere una città sporca e cattiva per me una fotografia del genere non avrà mai un senso) e ci sono gli attori.
C’è la Gyllenhall a cui viene dato tanto spazio quanto se ne darebbe a un pesce lesso senza una reale motivazione (comincio a credere che a Nolan le compagne di Wayne stian sulle balle dopo la scelta di sorriso storto- Holmes), c’è Morgan prezzemolo Freeman che dove lo metti sta con quei denti tutti storti, c’è Gary Oldman con i baffi che fa la sua porca figura, c’è Michael Caine maggiordomo a cui sono sempre affidate le battute da simpaticone, c’è Aaron Eckhart che per metà del film sorride piacione e per l’altra metà viene annullato da quel mascherone ridicolo, c’è Christian Bale che poveraccio sotto quelle ridicole orecchiette cerca di dare un tono anche al suo personaggio (che alla fine risulta semplicemente uno sborone che si trasforma di notte in un trans dalla voce inascoltabile) e poi c’è lui.
Si.
Lo so che lo aspettate tutti.
C’è Heath Ledger.
Che ommioddio si diamogli l’Oscar postumo che lui è il vero Joker, che se lo porterà nella tomba, che, mamma mia, interpretazione dell’anno se non del decennio….ecco.
Ora caricatevi….
Prendete la mira….
A me non ha fatto impazzire.
Si, ha delle belle cicatrici in faccia.
Si, ha anche delle belle battutacce.
Si, si muove come un pazzo paranoico persino mentre cammina.
Si, deglutisce e si lecca le ferite ogni tre per due….però basta!
Interpreta un pazzo!
E in quanto pazzo è stato evidentemente lasciato libero di far quello che voleva per rendere il suo personaggio al meglio.
Per questo mi ritrovo ora, non a criticare l’interpretazione (molto buona!), quanto il fatto che il lavoro di Ledger sia stato ampiamente aiutato da una sceneggiatura che gli permetteva di far praticamente quello che voleva.
Immaginatevelo un Depp libero di far quello che vuole.
Un Robert De Niro.
Un Jack Nicholson (che invece nel film di Burton aveva comunque un impostazione ben definita).
Immaginateveli e non venitemi a dire che Ledger sia Dio sceso in Terra per quel che ha fatto.
E se credete che lo sia cazzi vostri.
Quando resuscita fatemi un fischio.
E tra duemila anni sappiam a chi dare l’8 per mille.
Per le campagne pubblicitarie ci pensa Dent….

VOTO:7/8 (nonostante tutto maledizione devo ammettere che è un buon film...)

giovedì 31 luglio 2008

INDIANA JONES AND THE KINGDOM OF THE CRYSTAL SKULLS- INDIANA JONES E IL REGNO DEL TESCHI DI CRISTALLO



ATTENZIONE: siccome sono un pazzo e questa recensione tento di scriverla dall’uscita del film nelle sale, ho postato insieme alla recensione definitiva (che non mi lascia comunque pienamente soddisfatto) un altro abbozzo di recensione mai conclusa (e con un tono molto più polemico).
In saccoccia ne tengo un’altra ancora non conclusa ma per quella aspetterei ancora un poco dato che riguarda l’intera saga.
Sicuro della loro inutilità e del peso infinito di una lettura del genere, vi invito a leggere solo questa cosa qui sotto se non volete seguir la mia mente malata mai soddisfatta!
Per quanto riguarda la prossima recensione invece, è già pronta e si tratterà molto probabilmente di una recensione doppia del cavaliere oscuro (vedrò se la mia parte mi soddisfa altrimenti tutto è già nelle mani di Leo!)

Le promesse sono promesse.
“Come quella volta che il mio ragazzo scrisse la recensione di Indiana Jones”


Ora la febbre è passata.
Quella che voleva gli infiniti fan accalcati davanti allo schermo del proprio pc alla ricerca della più piccola notiziola riguardante il loro eroe archeologo dal momento in cui si annunciò l’effettiva realizzazione del sequel dei sequel è scemata.
Finalmente.
E finalmente con il calo delle attenzioni fanatiche se ne può parlare quasi con calma.
No.
Parlare dell’ ultimo Indiana non sarà mai come parlare di un film qualunque.
Ci sarà sempre chi, deluso rispetto ad aspettative verso l’infinito e oltre, verrà a dirmi che poteva essere fatto tutto in modo migliore.
Ci sarà ancora chi si lamenterà della trama ripresa dal videogioco, chi mi ricorderà che gli alieni non possono starci in Indiana Jones, chi se la prenderà con le marmottine e le scimmiette in Computer Graphic, chi avrà da ridire su Shia Le Boeuf, chi ce l’avrà con la fotografia irreale, chi si incazzerà perché Indiana usa la frusta tre volte in tutto il film, chi inveirà contro il doppiaggio di Cate Blachett, chi puntualmente si lamenterà di Spielberg che secondo lui non ne azzecca una da anni, chi senza nessun ritegno si lamenterà di tutto perché tanto fa tutto schifo e adesso torno a vedermi i primi tre capolavori che sono intoccabili e poi magari tra 10 anni quando uscirà un nuovo capitolo tornerò a vedermi questo e dirò che quello nuovo non è minimamente paragonabile ai primi 4.
Ci saranno ancora tutti.
Ma forse tutti la prenderanno con più calma.
Non si butteranno come avvoltoi alla ricerca della recensione capace di dire che questo rimane un ottimo film per distruggerla pezzettino per pezzettino.
Indiana Jones e me.
Cresciuto senza aver mai visto interamente uno dei primi tre capitoli della saga fino a pochissimo tempo fa non capirò mai quel che si prova, almeno in questo caso.
Nell’entrare al cinema e riveder l’ombra del proprio eroe rimettersi il cappello impolverato dopo essere stato spinto a terra dai nemici in uno degli incipit più carichi di attesa di sempre.

La camera scorre dalla testa ai piedi e il rientro in scena di Indiana porta nella sala sussurri di approvazione o più sane esclamazioni di giubilo.
È ancora lui.
Nonostante tutti gli anni passati nel limbo del non cinema , Ford indossa cappello e frusta e riporta in vita un mito.

Non un semplice personaggio cinematografico come potrebbe esserlo un qualunque Jack Sparrow (anche se c’è quasi da scommetterci che tra 20 anni diventerà mito anche lui) ma un vero e proprio mito intramontabile che porta sulle spalle trent’anni di imprese eroiche tra film, libri, fumetti, serie tv e imitazioni più o meno (meno, sempre meno) riuscite.
Un mito cinematografico degli anni 80.
E questo ci tengo a ribadirlo perché molte delle lamentele hanno inizio e fine proprio in questo.
Nella semplice quanto inutile disquisizione sul fatto che il nuovo Indiana non è come il vecchio.
Quasi per niente.
Là dove il primo archeologo iniziava le sue vicissitudini come un semplice avventuriero dotato di pistola (poi sapientemente abolita nei capitoli successivi) e frusta memore dei film d’avventura degli anni ’50 per poi trasformarsi in modo graduale in una sorta di eroe pop-quasi fumettistico degli anni ‘80 (con tutte quelle botole, passaggi segreti e personaggi tipicamente ottantiani come lo sciamano che strappa i cuori a mani nude o il cavaliere immortale), il nuovo Indiana diventa qualcosa di più di un eroe da fumetto.
Diventa un mito.
Ovvero compie la trasformazione sullo schermo che la mente dei bambini dell’epoca ha già attuato da 20 anni a questa parte.
Il nuovo Indiana è diverso quindi.
Ovviamente si potrebbe dire, se non fosse per l’attaccamento ossessivo e ingiusto che i vecchi bambini hanno per il vecchio Indiana.
Loro vorrebbero semplicemente il vecchio Jones riportato sullo schermo come un tempo.
Loro vorrebbero semplicemente che il cinema non fosse cresciuto con loro.
Vorrebbero ancora quelle caverne con pareti di cartongesso (per quanto Spielberg già allora si impegnò a non farcele vedere, ma di questo parlerò in seguito), quegli effetti così spartani eppure tanto affascinanti, quelle riprese che facevano dei primi tre Indiana un cult del cinema anni ’80.
Non c’era computer graphica in quegli anni.
E così ecco tutti a scagliarsi contro qualsiasi intervento in CG a prescindere dal risultato finale.
Non importa che questo sia minimo e ben curato, il fatto che ci sia, che si sia fatto ricorso al femputer (chi vuole cogliere la saggia citazione la colga) toglie fascino.
O almeno toglie fascino a quegli occhi che non vogliono andare oltre.
Che volevano per una volta (e solo per quella volta dato che in altri film dello stesso genere le osservazioni su una CG ben fatta sono ormai insignificanti) tornare indietro.
Il nuovo Indiana è quindi diverso perché si, nonostante tutto quel che uno può pensare, siamo nel 2008 e perché Indiana in quanto mito compie imprese mitiche.
Non più avventure fantastiche entro cui tutti possono immaginarsi (chi non avrebbe voluto saltellare tra un trabocchetto e l’altro all’interno di un tempio maledetto?) ma semplicemente mitiche.
E così le cascate da affrontare si moltiplicano e i luoghi segreti sono praticamente inaccessibili se non inesistenti.
E così Indiana salta per aria all’interno di un frigorifero in seguito all’esplosione di un ordigno atomico senza farsi assolutamente nulla e i vecchi fan li riconosci al cinema per un fastidiosa ondata di “Eeeeehh, ma vaaaaa, ma daaaaiii, ma smettiamola!!!”
I vecchi fan che tanto volevano ritornare bambini rientrando in sala con il loro mito non si rendono nemmeno conto di tradire con le loro esclamazioni le loro stesse intenzioni.
Nessuno di loro negli anni ’80 avrebbe aperto bocca di fronte a Indiana e company che volano giù da una cascata con un canotto rimanendo praticamente illesi ma oggi, nel 2008, ormai cresciuti si sprecano nuovamente gli “eeehhh, ma vaaa!!!” che mostrano una realtà dei fatti innegabile.
Non sono più bambini.
E tristemente molti di loro non riescono nemmeno ad esserlo per 2 ore.
Molti.
Non tutti.
Perché c’è chi ancora vuole farsi prendere per mano da Spielberg.
C’è chi ancora si fida di quel vecchietto barbuto che ormai da 30 anni è capace con una camera e tanta tanta magia di trasportarci aldilà dello schermo.
Aldilà di fotografia, montaggio, computer Graphica, pareti di cartongesso, doppiaggi, interpretazioni e chi più ne ha più ne metta, Spielberg ancora riesce a portare qualcuno di quei vecchi bambini di là con Indiana, nella sua avventura più fantascientifica e, se vogliamo, mitologica là dove il mito è ormai il consumato archeologo e non più l’oggetto ricercato.
Li riconosci dalla bocca aperta, lo sguardo fisso e orecchie solo per lui quei bambini dentro.
Li riconosci perché loro ancora ci credono.
Potrei parlare di una fotografia forse fin troppo perfetta, di un Shia Le Boeuf ormai inarrestabile, di una Karen Allen di cui sono sempre stato innamorato da bimbo e che quindi ritengo intoccabile, di una Cate Blachett che ritengo al contrario di molti un personaggio non troppo riuscito ne particolarmente ben interpretato (non ne posso più di quella straabusata espressione di ghiaccio!), di una colonna sonora ancora perfetta, di un ritmo ma così sostenuto (rispetto agli altri capitoli i momenti di riflessione sono ben pochi, ma anche questo deriva dall’anno in cui è stato prodotto) e di un Indiana Ford per me mai così affascinate.
Potrei dirvi che gli alieni in quanto pellicola ambientata negli anni ’50 e girata da un certo signor Spielberg ci stanno.
Eccome.
Potrei raccontarvi di una seconda visione che invece di smorzare l’entusiasmo mi ha fatto ricredere persino su marmottine, scimmiette e frighi vari.
Potrei parlare di una scena di chiusura tanto affascinante e esplicativa quanto quella di apertura.
Indiana Jones è un mito.
Ed è una sola persona come ci insegna il finale.
La vita, in definitiva, è solo una questione di aspettative non siete d’accordo?
Forse 20 anni sono troppi persino per Indiana.
REGIA: Steven Spielberg
GENERE: Avventura
ANNO: 2008
VOTO: 7/8



ALTRO ABBOZZO DI RECENSIONE:
Ma si.
Critichiamolo.
E la storia è scopiazzata dal videogioco.
E Karen allen sembra in bambola per tutto il film.
E Shia Le Boeuf mi sta sulle palle e cosa c’entra?
E Harrison Ford è vecchio.
E Sean Connery dov’è?(se Ford è vecchio Connery è già in putrefazione…)
E si vabbè ma quando la usa la frusta?
E il teschio sembra che abbia del cellophane dentro.
E dai, gli alieni, ma per favore.
E il frigo che schifo.
E le marmotte e le scimmiotte in computer graphica, maledetterrimo Lucas.
E la fotografia rende tutto più finto.
E io mi aspettavo di più.
E io mi aspettavo di meno.
E io mi aspettavo quel che c’era sullo schermo ma non va bene lo stesso che se non mi lamento non sono felice e il mio ego rimane insoddisfatto.
Eccheppalle.
Ne ho lette, sentite, viste, odorate (e non dico cosa) talmente tante che alla fine mi era quasi passata la voglia di scriverne.
No.
Non che non sapessi cosa scrivere, semplicemente me ne era passata la voglia.
A sentir gente che si lamentava di tutto.
Tutto.
E tutto nel modo più detestabile che ci sia: quello del lamentarsi per il gusto di lamentarsi.
Perché alla fine si tratta solo di quello.
Il cercare ad ogni costo, in ogni cosa, in ogni momento qualcosa che non va.
Gente evidentemente convinta di andar a vedere il nuovo capolavoro postumo di Kubrick dopo quella chiavica mondiale di “Eyes Wide Shut”.
Ma si.
L’ho detto.
A me Eyes Wide Shut fa cagare.
Ma non poco.
Tanto.
Ma tanto di quel tanto che alla terza volta che l’ho rivisto convinto di capirne ancora qualcosa di cinema mi sono detto: “Non ne capisco un cazzo e sto film fa cagare. Tanto cagare.”
Tanto che alla fine della terza visione giacevo addormentato felice di essermi perso per la terza volta due tra le interpretazioni più imbarazzanti di Nano Cruise e Bambola di cera Kidman.
Tanto che quando mi sento dire non per la prima volta che Indiana Jones non poteva sopravvivere a una bomba H o quel che è solo chiudendosi in un frigo mi chiedo se davanti ho una carota o sto davvero ancora parlando con un uomo.
“Eh ma gli alieni dai…in Indiana Jones!”
Ma gli alieni si.
Si si e ancora si.
Gente convinta di trovarsi davanti Piero, Alberto and family Angela all’entrata in sala dato che la metà dei lamenti alla fine si risolveva in un : “Non è possibile!!!” o semplici “Eeeeeeehh”
Ma “Eeeeehhh” le palle.
Ma quando bimbi guardavate un cuore strappato da un petto dicevate “Eeeehhh”?
“Eh ma sai i riti segreti ci potevano anche stare.. gli alieni no. Il frigo no.”
Così, per partito preso.
Senza una reale motivazione.
Perché gli alieni no.
Punto e basta.
E perché i personaggi nuovi no.
Shia Le Boeuf fa un signor lavoro ma no.
Vuoi mettere Sean Connery?
Vuoi mettere il primo Indiana Jones.
Vuoi mettere che siamo nel 2008.
Ma nessuno sembra volersene rendere conto.
A sentir tanti il nuovo Indiana Jones doveva essere semplicemente un nuovo Indiana Jones degli anni 80.
Voi vi immaginate un ragazzino di 13 anni che entra in sala oggi e si trova davanti di nuovo quelle care vecchie rocce di polistirolo (e attenzione non sto criticando, sto solo dicendo che erano di evidente polistirolo) e quei bei fotomontaggi tanto cari a quegli anni?
“Eh ma noi che siamo fan di Indiana l’avremmo capito…”
I fan di Indiana.
Che io ne conosco solo uno e quell’uno in sala aveva la bocca spalancata e gli occhi sognanti.
C’erano solo lei e Indiana in quella sala.
Non il pirla che diceva “Eeeeehhh” e nemmeno il tredicenne che purtroppo a fine pellicola urlò “Andiamo a casa a giocare alla Play!”
I finti fan di Indiana che si lamentano di ogni cosa.
Di uno Spielberg capace di riportare sullo schermo il vecchio Indiana Ford come solo lui avrebbe potuto fare.
Prendete qualsiasi nuovo film sulla falsariga di Indiana e provate a dargli un occhio, 10 minuti vi possono bastare.
Guardate quel pasticcio tecno-silicon-avventuroso di Tomb Raider, l’ironicissimo “La mummia”, quel pelatone di Cage perso nei suoi misteri folli e guardate quanto polistirolo.
Quanto schermo impenetrabile avete davanti a voi.
Prendete un qualsiasi Indiana compreso l’ultimo e perdetevi dentro.
Niente camera che segue Ford nei panni di Indiana nelle sue avventure.
Siete voi e il professor Jones nel tempio più nascosto, di fronte all’Arca dell’Alleanza, con il Sacro Graal davanti agli occhi, alla ricerca di un teschio di cristallo appartenente a chissà quale popolazione.
Spielberg la camera ce la mette dentro agli occhi.
O almeno.
Lui vorrebbe portarci con lui nei suoi sogni.
Basta lasciarsi prendere per mano da quell’adorabile vecchietto e perdersi con lui senza far tante storie.
Senza star li a tirare dalla parte opposta e dire: “Ma no, non è possibile, perché, per come, per quando???”
..........................................INCAPACE DI DARGLI UN SEGUITO.

martedì 22 luglio 2008

SFOGO: THE DARK KNIGHT- IL CAVALIERE OSCURO

SU, SU, ODIATEMI!
Sarà che sti quindici giorni vanno più lenti di quanto potessi immaginare e riesco a innervosirmi per ogni cosa....

Ah non è ancora uscito?
Bene.
Perché io ne ho già le palle piene.
Ma non poco.
Non “Ne ho le palle piene” che poi mi metto ancora a vedere il trailer perché ancora un poco mi incuriosisce.
No.
Ne ho proprio le palle piene.
Che quando passa il trailer in tv su Italia 1 cambio.
Non ne posso più.
Ma proprio più.
Di vedere “IL CAVALIERE OSCURO” ovunque, comunque e semprumque.
E giri sui siti di cinema e ti parlano del cavaliere oscuro.
Di quanto è bello, di quanto è figo, di quanti record ha battuto.
Sono 8, no 9!
Attenzione giovedì batte il decimo record.
Ah be.
Notiziona.
Di quelle da tenere in prima pagina per mesi.
Il Batman di Nolan.
Il seguito di Batman Begins.
Quello dove c’era la consorte risata storta di Cruise che non faceva un cazzo per tutto il film.
Quello che il cattivo era uno spaventapasseri che persino il cattivo interpretato da Shcwarzenegger in quel baraccone del film di Schumacher si faceva ricordare di più.
Eh ma era oscuro e poi era un signor film.
No.
Non era un signor film.
Era semplicemente che veniva dopo il circo di Schumacher che ci mancava solo che metteva le scrittone Bang e Sbem e rifaceva il telefilm degli anni ’60.
O ’70.
Quel che era.
Non me ne frega un cazzo e non ho voglia di documentarmi.
Ho solo voglia di lamentarmi di quanto non ne posso più di sto cazzo di cavaliere oscuro delle palle e di tutti i suoi recordoni storici.
Forse uno dei film più gonfiati già prima di uscire che io abbia mai visto da quando son nato.
Ha battuto tutti i record!
Ma cazzo è 6 mesi che spaccate le palle in ogni modo: e il teaser poster e il poster vero e l’immagine del dietro le quinte e la maschera e il costume e il teaser trailer e il trailer e lo spot tv e il secondo spot tv e i quindici spot tv e il trailer italiano e quello in ungherese che attenzione c’è un immagine in più e il virale e il virale del virale e Due Facce e poi c’è lui ovviamente.
Joker.
Heath Ledger.
Con gente che senza neanche aver visto il film, senza neanche aver visto una miserrima scena che non sia il trailer vuole dargli l’Oscar.
E quindi via con altre mille coglionate.
E l’Oscar postumo, e Heath era grande e Heath era Marlon Brando e povero Heath e adesso ci facciam un film (voglio vedere se ci metton pure che ha girato "Il destino di un cavaliere"….) e Heath è il vero Joker e quel ruolo porta rogna (infatti Jack Nicholson guardalo come se la passa male…) e Heath di qui e Heath di la….Che Batman ha battuto ogni record!
Non lo sapevate?
Che a forza di dire battiam tutti i record è logico che la gente poi ci va a vedere sto benedetto cavaliere oscuro e finalmente li batterete tutti i record.
E poi la smetterete di smaronarmi la minchia finalmente.
Undicesimo record: avete spaccato le palle a Deneil come mai è riuscito a fare nessun altro film.

venerdì 18 luglio 2008

THE HAPPENING- E VENNE IL GIORNO

ATTENZIONE ATTENZIONE: Deneil pubblica una nuova recensione cinematografica dopo quasi due mesi!

La verità è che questo film fa cagare.
La verità Shyamalan è che se ti viene una buona idea e non sai scrivere una sceneggiatura non devi per forza scriverla.
Non devi per forza di cose nel tuo delirio di onnipotenza produrre, girare, recitare, scrivere, soggettare e chissà quale altra diavoleria in tutti i tuoi film (se potesse secondo me creerebbe dei piccoli omini Oompa Loompa a sua somiglianza e non ingaggerebbe più nessuno a recitare!)

SHYAMALAN ALLA CONQUISTA DEL MONDO...
Hai una buona idea ma non sai come svilupparla.
Bene.
Esistono gli sceneggiatori.
Sai.
Quelli che scrivono le sceneggiature.
Quelli che tu gli dici più o meno cosa accade (se hai un soggetto) e loro ti mettono su carta scene e dialoghi.
Poi magari tu le scene le giri come cazzo vuoi dato che ti credi il Dio del cinema sceso in Terra, colui che salverà il mondo da Uwe Boll e compagnia, ma almeno avrai dei dialoghi.
Quello che si dicono gli attori.
Quelle cose preparatissime, studiate e ristudiate a memoria dagli attori ma che devono sembrare comunque realistiche.
Del tipo:
Tizio:“Vuoi una percentuale di sopravvissuti?”
Caio:“Si, la voglio!!”
Tizio:“65%!”
Caio:“Vai a riprendere tua moglie!!!”
Ecco questo non è un dialogo!
È merda.
È come se uno al telefono con un'altra persona ad un tratto non sentisse più l’altra e dicesse: “Sento il vento!”
Ops!
Ci hai messo anche questa.
E con orgoglio.
“SENTO IL VENTO!”
Ma sento il vento de che?
Ma stiam scherzando?
Ma quale malato nel cervello direbbe mai al telefono: “Sento il vento” quando dall’altra parte non c’è più nessuno?
Magari proverebbe a richiamare l’altra persona più volte ma “Sento il vento” no!
Ma no no no.
È offensivo.

È come se uno ad un certo punto si mettesse a parlare con una pianta di plastica e poi accortosi dell’errore esclamerebbe “Oh mio Dio sto parlando con una pianta di plastica!”
Noooooo!
Con una pianta di plastica???
E io che ti credevo così intelligente perché stavi parlando con una pianta vera.
Sai quelle con le foglie, le radici…
Senza le orecchie.

PIANTA CON GLI ORECCHIONI...OK QUESTA è PESSIMA...
Neanche nei film apocalittici.
Non è che uno dice: “Giro un film apocalittico e ci metto qualsiasi minchiata mi viene in mente, tanto è apocalittico”
No.
Non funziona proprio così.
Ok è apocalittico e non sarà “La vera storia della guerra in Uzbekistan vista dagli occhi di un Uzbekistaniano cieco e senza mani” ma non è una gara a metterci tutte le minchiate che ti vengono in mente in quel momento.
Potevi farlo ne “Il sesto senso”, “Signs”, “Unbreakable”, “The village”, “Lady in the water”.
Potevi farlo in 5 film perchè eran tutti dei film sostanzialmente di pura fantasia.
Però basta.
In un apocalissi non ci sono villaggi segreti, alieni brutterrimi, persone che non si rompono, gente morta che viaggia tranquillamente tra gli umani e nemmeno una ninfa acquatica con relativa piscinetta dove sguazzare.
In un apocalittico ci sono delle normalissime persone che tentano di fuggire a qualcosa che non può essere fuggito.
Non dei manichini rincoglioniti che si esprimono come degli Homo Imbecillus.
Perché alla fine quando esci dalla sala ti ricordi solo quello.
Dovresti pensare alla natura che in un qualche modo si ribella all’uomo, dovresti pensare alla scena magistrale dell’arrivo in città con una marea di corpi impiccati alle piante, dovresti sognar di notte la vecchia pazza che tira testate contro il muro fino a sfondarsi il cranio e invece pensi a Mark Wahlberg e Zooey Deschanel.
Uno che recita alzando, abbassando e, attenzione, aggrottando le sopracciglia in uno dei ruoli meno credibili che gli abbiano mai assegnato (quando è intento a fare il professore ti chiedi se nel mondo intero può esistere un personaggio…una cosa del genere) e l’altra che si aggira davanti alla telecamera spalancando più o meno la bocca e gli occhi a seconda dello stupore.

LE MARK'S ESPRESSIONI!
“OOOOOHHH sono morti!!”
“OOOOOHHH siamo ancora vivi!!!”
“OOOOOHHH mio marito parla con le piante e io sono una merda che l’ho quasi tradito!”

NON è LEI QUELLA IN BASSO A DESTRA???
E l’altro che gli risponde aggrottando le sopracciglia.
“Oh mio Dio mi hai quasi tradito???(Sono abbastanza aggrottate???)
E Shyamalan da fuori che fa:
“Si si non ti preoccupare che tanto della recitazione non se ne curerà nessuno, ho scritto dei dialoghi memorabili io!”

L'ALTRO MARLON BRANDO DELLA SITUAZIONE INSIEME A UNA FIGLIUOLA CHE NULLA PUò IN QUESTO SFACELO...
“E venne il giorno”
Che quando tutti mi dicevano: “Va che è fuffa, va che fuffa, va che è fuffa!” io ancora ci speravo.
Non dico che ci credevo.
Ma speravo si.
Magari non avevano visto bene.
Magari non era stato capito come successe a “Lady in the water”.
Magari non apprezzavano il genere.
Magari semplicemente Shyamalan ha toppato.
Ecco appunto.
Magari Shyamalan avesse toppato.
Magari fosse solo quello.
Qui si parla di un uomo che avuta una buona idea è riuscito a realizzarla nel peggiore dei modi possibili.
Nel migliore dei mondi possibili Shyamalan mi avrebbe illuminato gli occhi.
In questo mi ha fatto solo ricordare che ancora nessuno è riuscito a creare il film apocalittico perfetto.

REGIA:M.N.Shyamalan
GENERE: Apocalittico, Fantascienza, Horror
ANNO: 2008
VOTO: 3,5

mercoledì 9 luglio 2008

THE INCREDIBLE HULK- L'INCREDIBILE HULK

Magari quando un giorno la smetterò di scrivere e cestinare decine di recensioni vedrete che scrivo ancora.
Più del solito.
Forse pretendo solo troppo.
Grazie Leo!

PSICANALISI E SUPEREROI: HULK E IL COMPLESSO DI EDIPO


BY LEO
Tecniche di respirazione. Yoga. Controllo del respiro.
Pranayama.
Inspira, espira.
Abolire gli stadi della coscienza; regolare il flusso della respirazione, scendendo e salendo come onde, per rifiutare il prezzo della vacuità umana, per ottenere una concentrazione totalizzante, l’ekagrata.
Allora, solo quando l’asana –la posizione yogica– sarà non più uno sforzo ma normalità, comincerà la lunga strada verso il samadhi, l’ “enstasi”.
Perché? Perché tutta questa fatica?
Per rifiutare il mondo, per ingabbiare pensiero e corpo, immobilizzarli in un unicum senza più spazio né tempo, per rifiutare l’agitazione del respiro che non viene mai controllato, per –alla fine- superare persino la condizione degli dèi e raggiungere la liberazione in vita: niente più flussi disordinati di sogni, di latenze del subconscio, di pensieri che inondano le strade dell’Io, di illusioni e dolore, di speranza. Solo catalessi.
Inspira, espira.
La vita è “maya” potente, illusione, e squarciarne il velo è priorità per chi è giunto a sapere.
Perché è il respiro il punto da cui partire, il senso della calma e dell’agitazione, della rabbia e del soffio, dell’amore e dell’odio. Al respiro i battiti del cuore sono legati da un doppio filo. Controlla uno, controllerai tutto il resto.
Aria dentro, aria fuori.
Inspira, trattieni l’aria, espira.

Bruce Banner deve imparare a controllare il respiro.
Deve mantenere la calma, deve imparare a controllare “l’Altro” che è in lui.
Perché tutti abbiamo un “altro” chiuso e serrato nella gabbia dell’odio.
L’umanità ha imparato a relegare Prometeo nell’abisso del Tartaro, chiudendo la porta in faccia all’inconscio più animale, bestiale, istintuale, seme un tempo utile della collettività in-umana e ancestrale dei nostri antenati.
Sbattendogli la porta contro, gli è stato impedito di venire a patti, lentamente, con la nostra coscienza.
A quest’ultima abbiamo dato le chiavi della totalità, unica guida capace di guidarci nel mondo. Basta istinti, basta rapimenti estatici, possessioni violente, o anche solo intuizioni primordiali senza analisi.
Non è più tempo di sciamani o di Delfi.
Ordine, rigore, metodo le parole d’ordine più adatte.
Eppure, proprio perché è stato lasciato a marcire nella muffa dei bassifondi, laggiù, non ci si è accorti che la base della casa da edificare sono le fondamenta intere su cui impostare la partenza.
La base è solida, la casa sta su come costruita sulla roccia.
La base è labile, la casa è costruita sulla sabbia.
Quale secondo voi resisterà al primo temporale?
E l’inconscio collettivo è solido, forte come solo il vento sa essere, resistente come la pietra, vivo come fuoco. Da qui angosce moderne che scivolano nelle nevrosi, fobie, da qui drammi familiari, conflitti con padre/madre, problemi uomo/donna, relazioni con l’Altro/gli Altri, e nei casi peggiori, follia irrecuperabile. I pazzi, si sa, sono eterni: un pazzo è più vicino ad un’umanità primordiale di migliaia di anni fa che ad un uomo di oggi. Le fobie sono semi diacronici di paure eterne. Vive.
E la differenza tra nevrotico e psicotico è sottile come un foglio di carta: il nevrotico costruisce le sue manie, il suo castello/mondo di carta; lo psicotico lo abita.
Oggigiorno, con il nostro lifestyle assurdo, chi non è nevrotico? Il passo verso la follia è di pochi millimetri.

Perché l’Altro, a cui non è dato diritto di esistere alla luce del Sole, ce l’abbiamo dentro.
E a volte capita che magari non lo riusciamo a percepire se non proiettato nella persona che odiamo/amiamo. A pelle, ad istinto.

Bruce Banner queste cose le sa.
La rabbia frustrata dell’evirazione immaginaria che il ragazzo subisce secondo la legge inesorabile della pubertà da parte del padre, il ruolo ossessivo e morboso della madre, il “controllo” imposto o lasciato andare sui sentieri beceri del laissez faire, “il ragazzo si farà da sé”, “imparerà cos’è il mondo”.
I genitori credono che si debba imparare da loro anche se “predicano bene ma razzolano male”. Sbagliato; mai insegnamento popolare fu più sbagliato. Le persone sono ciò che fanno. Se il padre è un alcolizzato, inutili saranno parole di sobrietà nella vita civile. Se tradisce la moglie, futili i richiami alla fedeltà coniugale. Se la madre appare troppo acerba, aspra e severa, senza senso i suggerimenti per vivere serenamente un amore adolescenziale.
E il mostro dentro cresce. Lentamente, inesorabilmente.
E vorrebbe prendere il controllo sotto quella cravatta da impiegato, spaccare l’ufficio e i tavolini ordinati. Vorrebbe devastare, distruggere la vita di chi s’impone perché baldanzosamente ancorato ad un gradino della scala sociale più in alto di te. E gridare come solo gli animali possono fare. Liberi.
Perché se non c’è stato rispetto per la vita del bambino in età puberale, in fondo un bambino divenuto adulto non potrà mai conoscere il rispetto per gli altri. Schiacciato da genitori troppo o troppo poco ingombranti (gli estremi sono la stessa cosa), conoscerà il disprezzo per la vita, secondo le declinazioni dell’odio ossessivo esteriorizzato o l’interiorizzazione depressiva del dramma.

Bruce Banner non ha mai avuto una vita facile.

“La psicanalisi di Hulk”, 1991 – Storia: Peter David / disegni: Dale Kweon & Bob McLeod

- Ma dove credete di andare? [Padre di Bruce]
- Andiamo via Brian, non sopporto più la tua follia, i tuoi sfoghi su Bruce. È finita. [madre]
- Non è finita finchè non lo dico io! [p.]
- Mi stai facendo male! Brian…! [m.]
- Fermo! Sta’ lontano da lei! Farò il bravo! [Bruce]
- Smettila stai spaventando Bruce…AGKKHHH [m. presa per il collo dal padre]
- Tu, donna! Te lo faccio vedere io cosa vuol dire lasciarmi!... [p.]

Così muore nei ricordi del bambino la madre di Bruce, rievocata durante una seduta di psicanalisi.
Il bambino dirà solo “Le emozioni fanno male”. Nessuna lacrima. Chiuso dentro il mostro.
Poco oltre Bruce dirà del padre, rievocato come mostro demoniaco nella psiche: “Eri tu il mostro, papà! Eri pazzo […] e hai ucciso mia madre e io avevo tanta paura…ti arrabbiasti tanto che io vidi cosa provocano le emozioni e… avevo tanta paura d-di essere come te. Così…nessuna emozione, e io…sarei stato al sicuro…e protetto…un tale imbelle...e tanto cattivo, mi dispiace, mamma…”
A tali rivelazioni che dalla coscienza scuotono l’inconscio profondo, il padre da demone torna umano. Come tutti. Spogliato di ogni potere, detronizzato dal regno della paura.
Un essere come tutti gli altri, carne e sangue, ricordo tra i tanti. E come tutti gli umani inutili, anch’egli può essere assimilato, compreso e finalmente dimenticato, per poter riprendere a vivere. Farsi una ragione del conflitto paterno/edipico è la lotta col drago del mondo moderno.

Il film è tutto questo.
Non prendete il pre-quel di Ang Lee. Non ne vale la pena.
Noti i problemi che Norton/Banner ebbe con il regista, ci si poteva attendere il peggio. Non è stato così. Norton voleva più introspezione. La casa di produzione, conscia dell’ultimo flop “psicologico” (?!) con Hulk, voleva andare sul sicuro con più azione. Stallo, parità e palla al centro.

Questo Hulk non è un capolavoro, ma Edward Norton è perfetto, Tim Roth nella parte di Abominio-Emil Blonsky splendido (anche se gigioneggia sulla falsariga di “Un’altra giovinezza”, già recensito in illo tempore: qui e là stesso tema del ringiovanimento). Forse Betty a.k.a. elfo di “The Lord Of the Rings” (anche questo già recensito eoni fa!)+”Io ballo da sola” nonché “mrs. Aerosmith” Liv Tyler appare troppo ingrassata e superflua. Nel ruolo era di gran lunga migliore e assai più credibile Jennifer Connelly nel precedente Hulk, unica cosa salvabile da quell’atroce lungometraggio (anche si deve ammettere che Eric Bana non era pessimo; gli è andata male con il regista).
Tralascio i riferimenti incrociati, il solito cameo di Stan “Excelsior!” Lee, l’apparizione fugace di Lou Ferrigno (sempre uguale; grosso e muscoloso più del magerrimo ed agile Norton), e nell’ultimo pugno di secondi (non andatevene dal cinema! Non spegnete il dvd!) persino Tony Stark alias “Iron Man” ergo Robert Downey Jr. Stanno mettendo su una squadra governativa.
“The Avengers”.
Iron Man, Hulk, Thor, Captain America, Hawkeye, Scarlet, Nick Fury…chi vivrà vedrà…
Il nuovo corso della Marvel al cinema è cominciato. I vecchi film di supereroi sono morti. Lunga vita al nuovo Re!

Scena da appuntarsi (che vale il biglietto): Hulk e Betty, inseguiti dal padre di lei, il generale Ross (un altro conflitto familiare*) rifugiati in un anfratto roccioso durante un temporale. Scoppia un tuono e Hulk, bestia dell’inconscio animale, grida contro il cielo come una divinità greca sconfitta, un titano bestiale, perdente ed imponente. Lei lo vuole calmare, gli parla (può capire la bestia?), lo lenisce con una carezza, alla fine lo convince a stare accanto a lei. L’inconscio è stato lenito nella grotta, utero materno e simbolo di rinascita eterno, dallo spaeleum mitraico alla grotta del Redentore, dall’uscita dei tauroboliati iniziati dei culti misterici ai sogni che nella notte, eterna come solo l’alba dei tempi e il nostro inconscio possono essere, sogniamo credendo di vivere.

*= Un'altra linea-guida per l’analisi del film può essere il puer-senex, il “giovane-vecchio”, non nel senso (più o meno positivo) alchemico o psicanalitico, ma nell’accezione di un genitore, un padre, che non vuole rinunciare alla vita-giovane ed essere superato (spodestato) dal figlio.
Il generale Ross dà la caccia al ragazzo della figlia (Banner), ed Emil Blonsky, che si sente vecchio e inoperoso, vuole superare Banner per dimostrarsi di essere ancora un uomo. La sostituzione del padre al figlio è dannosa per l’uno e per l’altro, ma in particolare per il più anziano dei due. C’è un tempo ed un luogo per ogni cosa, come ci dicevano le protagoniste di “ Pic-nic ad Hanging Rock” (capolavoro micidiale). Sovvertire i termini del Tempo e della Natura provoca scompensi psichici irrimediabili ed irrecuperabili. Di questi tempi, in cui definirsi “vecchio” o “anziano” è un insulto perché significa essere tagliato fuori dal mondo mass-mediatico di eterne figure da pubblicità, in cui essere “giovani” per sempre è l’unico valore possibile (e via lifting, plastiche facciali, palestre, etc…), in cui la carriera inizia a 40 anni e l’università termina a 30/33 anni, in cui il divorzio dei 50 anni sfascia una famiglia –e la vita dei figli, dimenticati in un cassetto– per ricominciare dietro una ragazzina di 25 anni, sentirsi “esperti” di esperienza, saggi e “vecchi” normali nell’animo è un insulto dei più crudeli.
Comunque, foss’anche solo per motivi anagrafici, il figlio è “un nano sulle spalle dei giganti”. Secondo per tempo cronologico, non formato ed inesperto, è già superiore al padre perché piccolo e futuro adulto, che saprà vedere un metro più in là della generazione precedente.
Quello che questi padri-personaggi da film, spesso personaggi reali, dimenticano è che anche loro sono stati giovani, e che il figlio sarà a sua volta anziano. Rispettare i tempi e capire il proprio ruolo in tempo significa rispettare la propria umanità, quella degli altri e il rispetto per il figlio.
I capelli bianchi sono un segno, le rughe il nostro calendario. Accettiamo i giorni e le stagioni: ci accetteremo meglio. La vita non inizia né tantomeno finisce a 50 anni, è solo un altro cambio di età.

C’è abbastanza da pensarci bene e fermarsi un secondo a riflettere.
Hulk è molto più di un fumetto o di un film.


REGIA: Louis Leterrier
ANNO: 2008
GENERE: Avventura; Fumetti
VOTO: 8-
QUANTO SI E’ SFORZATO TIM ROTH PER FAR RENDERE DIFFERENTE EMIL BLONSKY DA DOMINIC MATEI DI “UN’ALTRA GIOVINEZZA”: 4--
CONSIGLIATO A CHI: vuole cancellare “Hulk” di Ang Lee del 2003 [voto: N. C. oppure 2--]