giovedì 29 novembre 2007

ALEXANDER

PREMESSONA: Siccome non mi piace starmene a far sempr le solite recensioni e questo è un film gigantesco (per mole, regista e tutto quel che volete) vi ho fatto aspettare qualche giorno in più per una recensione ma ora do il via a un megaesperimento che sarà difficile da replicare, si tratta di due recensioni completamente diverse di me e Leo (come modo di scrivere, come idee, come tutto!) più una sua piccola appendice su una serie animata (che si trova tra le due) sempre su Alessandro Magno.
Chiedo perdono a tutti voi se il tutto risulterà troppo pesante ma ho fatto in modo che le recensioni si possano leggere separatamente in modo che possiate scegliere voi la più adatta ai vostri gusti e di conseguenza commentare quella che vorrete alla fine di questo gigantesco post e chiedo perdono anche a Leo che non sapeva niente di questa cosa fino ad ora.
La prima recensione che trovate è la sua, seguita da quella sulla serie animata e infine dopo la terza locandina potrete trovare la mia.
E con questo ho finito.
Buona lettura, spero che apprezzerete lo sforzo e non sentitevi in obbligo di leggere tutto insieme!


BY LEO

168 minuti. Colore. Musica di Vangelis (per lui, solo nomi legati indissolubilmente alla musica: “Blade Runner”, “Chariots Of Fire”, “1492: La Conquista del Paradiso”...). Con Colin Farrell (Alessandro Magno). Anthony Hopkins (Tolomeo). Val Kilmer (Filippo il Macedone, padre di Alessandro). Angelina Jolie (Olimpiade, madre di Alessandro). Rosario Dawson (Moglie persiana di Alessandro). Regia di Oliver Stone.

Ecco il film. Aderenza o meno alla storia non importa. Questo racconto reggerà agli anni, alla consunzione della pellicola, ai tarli. In questo film c’è tutto l’umano. Passione, amore, ambizione, distruzione, psicologia, guerra... Homo sum, humani nihil a me alienum puto.
Questo è un film che amo.
Oliver Stone è riuscito là dove altri hanno sbagliato, fallendo.
Stone ci ha dato il respiro della sabbia, il sommesso pianto delle onde dell’ignoto inconscio che da sempre si agita sotto le coperte sicure della civiltà, ci ha restituito un Bildungsroman degno della più grande tradizione lirica. Ci ha concesso di prendere parte al banchetto degli dèi e ai problemi di rimozione e identificazione dell’uomo col padre e con la madre.
Questo è Alexander.
Due ultimi grandi dizionari del cinema appena usciti nella versione nuova di zecca 2008 – grandi per mole e per importanza – lo hanno o bocciato irreparabilmente (voto pari ad “Alien vs. Predator” , e non è un complimento come potete vedere dalla recensione di deneil!!!!], o giudicato un film in cui Oliver Stone è riuscito ad essere “noioso”.
Lasciate stare i dizionari. Fateveli voi stessi. Guardate e giudicate voi, ma non cedete mai alle lusinghe o alle stroncature dei critici. Consultateli ma non fatevi ingannare.
Questo è grande cinema.

Alessandro Magno è un mito.
E’ l’uomo che ha varcato le soglie del conoscibile per approdare là dove nessuno si avviò mai, vedendo cose mai viste e respirando i venti creatori qui mai aspirati nei polmoni. E’ l’uomo che ha fatto fluire il corso della storia aderendo al suo destino, fino alla morte, fino al sogno e oltre quest’ultimo.
Alessandro è un re.
Ancora oggi ci sono popolazioni afgane che hanno occhi azzurri, che si fanno chiamare discendenti di “Iskandar”, i figli dei macedoni di Alessandro. Alexandreia Eschate, l’ultima delle città da lui fondate, pendeva alle soglie del conosciuto, là dove nessun greco potè mai aspirare di arrivare. Il Cairo, l’Alessandria prima, la città delle meraviglie, del porto sul delta del fiume, faro dell’unione tra il mondo egizio e quello greco, saggezza platonica tra Oriente ed Occidente, che darà nuova linfa al regno eterno/etereo del Nilo.
Alessandro, il dio.
Colui al quale l’oracolo di Ammone decretò nell’oasi africana la futura reggenza dell’Asia, del mondo. E così lo ricordiamo nei Cantari di gesta medievali dell’Europa intera, trasfigurato e sospeso nel simbolo della sua stessa esistenza.
Alessandro, il sapiente.
Il discepolo di Aristotele, a sua volta edotto da Platone. La biblioteca di Alessandria, la più vasta raccolta di manoscritti del mondo antico, labirinto del quale solo Borges saprà ritrovare le chiavi.
Alessandro, il continuatore dell’opera del padre, Filippo, al quale fu legato a vita da un rapporto conflittuale; il ruolo della madre, l’Olimpiade cara al culto del serpe, misteriosofico simbolo lunare e della fecondità, ambigua sintesi di maschile e femminile. Ambigua come la splendida Angelina Jolie, finalmente grande in un ruolo che le si incolla addosso con una malizia da Afrodite classicheggiante.
Alessandro, colui che compie gli oracoli, il prescelto, colui che tagliò il nodo gordiano.
Precursore dei tempi, portatore dell’idea della fusione dei popoli, fece sposare donne persiane ai suoi macedoni, i soldati e i comandanti che lo seguirono fino alla fine, e che gli succedettero spartendosi il regno enorme in porzioni di regalità.
I diàdochi. E tra questi Tolomeo, quell’ Anthony Hopkins che alla fine del film, ci lascia con un explicit da antologia: i sognatori ci dissanguano, ci fanno morire letteralmente dentro. I sognatori sono un ostacolo alla vita normale. Loro, sono pazzi che danzano scalzi sulle note di un mare che soli vedono. Folli, che riescono a precorrere i tempi. Dementi, che soli possono portare fino alla fine i propri ideali.
Per questo i sognatori sono grandi. Per questo vedono al di là. Perché siamo noi i veri ciechi, le “normali persone di tutti i giorni”. E per questo devono spegnersi, per non consumarci la nostra mediocrità.
Per questo devono morire come hanno vissuto. Nel sogno, avvolti dalle nebbie fitte dei misteri della storia che, proprio per la loro natura, sono le verità più banali.
Colin Farrell interpreta Alessandro riuscendo a centrare in pieno la follia pacata, le braci del Sogno che infiammano di colpo la vista offuscata del Macedone, in squarci di lucida follia.
INTERMEZZO
Togliamoci subito un sassolino dalla scarpa trattando del protagonista Farrell e sia chiaro: le tinture dei capelli esistevano già da tempo immemore, e non è irreale che Alessandro avesse quel colore di capelli con la ricrescita. Le donne egizie conoscevano già la depilazione con la cera e le pinzette di metallo, tanto per fare un esempio stupido. Questo perché – all’uscita del film, anni fa, ormai – mi era capitato di leggere un attacco indebito circa l’acconciatura di Farrell, “così anni 80, ossigenato e metrosexual”!!! Assurdo.
Così anche il tema della bisessualità è stato di gran lunga bistrattato dai media, ma si deve considerare che all’epoca era cosa socialmente normale, nel mondo grecofono, e anche nella Persia asiatica. Tengo a precisare che questo tema ha un ruolo così minimo che la discussione è sterile a priori e nuoce al tema e allo svolgimento del film.
Concludo ricordando che comprendere non significa certo giustificare né fare delle sottili apologie; solo inquadrare il problema per capirlo. E certamente il film di Stone avrebbe meritato dai media un briciolo di attenzione in più.
FINE INTERMEZZO
Val Kilmer è perfetto nel ruolo di un padre autoritario e ambivalente nei confronti del figlio, Filippo, il re di Macedonia che ha già assoggettato la Grecia delle pòleis e che progetta di invadere la Persia, per liberare le città greche della costa anatolica-egea .
Ma, a sorpresa, la palma d’oro va alla perfida Jolie, credo mai brava come in questo film. Affascinante, la cui mente appare maledettamente infestata da culti ofidici e la cui figura ristagna attorniata da serpenti che pungono la mente del giovane Alessandro.
Perfida, nella lotta con il padre per il possesso, spesso al limite della carnalità incestuosa, del giovane Alessandro.
Magnifica, nell’abbandono voluttuoso di una giovane madre che ha definitivamente associato mentalmente al figlio il padre, confusione sessuale di ruoli che imperverserà nella psiche del futuro re di Macedonia.
A metà tra ricerca del confronto con la figura paterna e la sua approvazione, e spinto dalla sete ambiziosa di potere della madre, morbosa nel suo attaccamento disperato al figlio, Alessandro si muove fino ai limiti estremi della lucidità umana, fino ai confini del mondo.
Bisognerebbe dare a questo film la giusta dimensione; se non siete convinti non avvicinatelo; riprendetelo quando avrete tempo e voglia di viverlo. Altrimenti, aspettate. Ogni cosa ha il suo tempo e luogo giusto, come si diceva in quel di “Pic-nic at Hanging Rock” (altra pietra miliare).
E rimettiamo quella scena del confronto titanico di Alessandro a cavallo di Bucefalo, lanciato furioso e obnubilato dalle sue visioni di morte, contro un elefante indiano e le schiere di soldati nemici. Rallentatore sapiente. Filtro fotografico virato rosso. Suoni in sordina. Tutto è immerso in un’atmosfera incantata e terribile. Tutto appare come visto nel sangue della fine dell’apogeo, della discesa a terra dell’aquila conquistatrice macedone, uccello che tornerà in seguito a portare con sé Alessandro nell’oltretomba degli eroi, in un clima degno della regalità sciamanica d’altri tempi. Non per altro siamo nella Persia asiatica.
E riguardiamo ancora l’immagine trasognata di Alessandro avvolto dalla pesante porpora regale sui monti della catena himalayana: mai sullo schermo, almeno dalla seconda metà dei novanta, abbiamo assistito ad uno sguardo tanto romantico, tanto da riuscire a ricreare quell’ atmosfera del quadro di Friedrich, il Monaco sulla spiaggia del 1808 - 1810, esposto a Berlino. Sembra quasi che di fronte alle montagne che lo bloccano, tutta l’opposizione della Sensucht, del senso di limite e del suo attraversamento non possano nulla contro una natura che a guardarla per intera pare ti si strappino le palpebre tanto c’è da vedere, oltre le montagne e tutta quella eterna, dannata distesa di bianco neve che brucia gli occhi.
Ma andrà avanti.
E vincerà tutte le battaglie, arrivando ad oggi, nell’aura delle più grandi leggende dell’umanità. Alessandro il Grande.
Colui che porta in sé il germe della disperazione, dell’inutilità e della vacuità di tutte le cose, vanitas vanitatum.
Colui che solleverà il nome dell’Uomo accanto a quello degli dèi, novello Prometeo che concesse agli uomini il dono del fuoco.
Colui che possiede un occhio scuro come la morte, e un occhio azzurro come il cielo.
Colui che arrivando al Fine, all’Oceano, al Niente, ci lasciò il ricordo dell’impresa più grande.


“Fiumane che passai! Voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.

Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidiate.

Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era il miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:

il Sogno è l’infinita ombra del Vero.”

Giovanni Pascoli, “Alexandros”, 1895 (pubblicato nel 1904 in “Poemi Conviviali”)


[Oliver Stone s’avvalse della consulenza del maggior biografo vivente di Alessandro Magno, Robin Lane Fox, che ha assicurato al film una veridicità assoluta. Purtroppo il film è andato male ai botteghini, schiacciato dalle inutili e futili polemiche sul colore dei capelli di Alessandro e sulla sua bisessualità, in ogni caso componenti assolutamente minoritarie dell’impianto del film. Peccato.]

REGIA: Oliver Stone
ANNO: 2004
GENERE: Azione, Storia, Dramma
VOTO: 10+
CONSIGLIATO A CHI: sono piaciuti i film storici, ma anche a chi pensa che Colin Farrell non sia bravo a recitare [sì, lo so, era Bullseye nell’indecoroso “Daredevil”, ma a tutti capita di sbagliare le prime volte, no?!?]
QUANTO VORREMMO AVERE AVUTO LE TURBE ADOLESCENZIALI DI ALESSANDRO NEI CONFRONTI DI UNA MADRE COME ANGELINA JOLIE: 9 [!]


BY LEO

APPENDICE – “ALEXANDER: CRONACHE DI GUERRA”
Volevo dedicare una scheda anche all’ ”Alexander: Cornache di Guerra” prodotto dalla Madhouse, di Peter Chung e Rintaro, serie anime TV di 13 episodi, ma mi sono accorto che questa non toglie nulla né potrebbe essere introduzione più precisa, trattandosi della medesima storia e del medesimo impianto narrativo, tenendo conto – peraltro e giustamente – della dilatazione temporale della narrazione (ciascun episodio copre una ventina di minuti circa). Trasmessa in illo tempore da MTV in Italia.
Nonostante alcune scelte grafiche (si insiste troppo su atteggiamenti ambigui da parte dei protagonisti maschili, tutti efebici e oltremodo effeminati, fino alla noia per alcuni poco riusciti), il lotto risulta essere una serie splendida, il cui tasto dolente forse è il commento musicale, azzeccato ma poco sfruttato e spesso sottotono e pasticciato (sarà problema della sola versione italiana?).
Da citare le discussioni filosofiche-cybe- uturistiche stupende, l’ambientazione e la cura dei personaggi (Aristotele e i Pitagorici sono pazzeschi! Vedere per credere!).
La resa grafica dei culti misterici dei Cabiri di Samotracia mi ha fatto pensare che gli animatori abbiano perlomeno letto qualcosa di Jung (cfr. “La Libido”...possibile?!?).
Una chicca: il tema “persiano” ricorda da vicino le armonie di “Gates Of Babylon” dei Rainbow di Ritchie Blackmore, e i giardini pensili di Babilonia mi hanno fatto pensare alle copertine progressive degli Yes, con quelle atipiche architetture biologiche di Roger Dean. Se volete vedere qualcosa di insolito e sorprendente, non perdete altro tempo e guardatelo!
L’ultima puntata è da antologia, tra deus ex-machina universali, rivelazioni psicologiche e destini incrociati di universi, uomini e dèi. Una gioia pura per gli occhi, e un ottimo risultato per quest’adattamento nipponico.
Mi aspettavo molto di meno, ma la pazienza è stata premiata con un buon risultato.

VOTO: 7,5 (ma attenzione!!! Il cartone animato può non piacere!!! Discussioni filosofiche come se piovesse e un’atmosfera da Blade Runner!!! Comunque è un’esperienza folle. Dagli stessi produttori di Aeon Flux, la serie Tv, non il film con Charlize Theron).


BY DEN

Premessa: questa recensione è stata scritta dopo aver letto la recensione di Leo di cui sopra quindi è possibile che vi siano riferimenti ad essa. Detto questo mi riprometto di scrivere in modo che voi tutti possiate leggere questo scritto indipendentemente. Lasciatemi solo evitare lo strazio di trascrivere cast e dettagli tecnici presenti nell’ incipit della recensione di Leo e una trama che ripercorre essenzialmente in lungo e in largo la vita di Alessandro Magno (e poi c’ è sempre Wikipedia!)

Su Alexander di Oliver Stone ne ho sentite e lette davvero di tutti i colori.
Dalle accuse sui capelli biondi di Colin Farrell a quelle sulla presunta omosessualità di Alessandro Magno tanto blaterata dalla stampa, dalla noia che ha provocato in molti critici “esperti” (fino ad arrivare ad un tipo di cui non cito il nome che sostenne il suo parteggiare per gli elefanti nella battaglia finale perché non ne poteva più!) all’ accusa di essere un film troppo epico, troppo falso, troppo bello, troppo sopra gli altri, troppo avanti, troppo tutto.
Appunto, troppo tutto.
Il difetto o pregio o quel che volete dei film di Oliver Stone è sempre quello alla fine: il troppo.
Può piacere, non piacere, nauseare e stancare ma sembra che Stone non sia davvero in grado di dominare il suo volere (chiamatelo estro, strafottenza, mania di grandezza, genio o come diavolo vi pare) che straripa da ogni angolo.
E questo Alexander cosa fa infine?
Segue i suoi predecessori.
Il progetto imponente di Oliver Stone di portare sullo schermo la vera vita di Alessandro il grande basandosi sugli studi del suo più grande biografo Robin Lane Fox si concretizza nel 2004 con un grande cast, un grande budget (154 milioni di dollari), grandi ambientazioni (per lo più si gira in Marocco per tagliare i costi) e grandi collaboratori (tra cui la grandiosa colonna sonora di Vangelis, si veda incipit recensione di Leo).
Si concretizza nel 2004 e nello stesso anno crolla brutalmente sotto le pesanti accuse della critica americana (la tinta dei capelli e blablabla) con un misero incasso mondiale di 133 milioni (solo 34 milioni negli Usa).
Ma al di la di questi sterili dati tecnici cosa si può dire di questa pellicola?
Credo che il difetto più grande dei lungometraggi di Stone siano i giudizi che se ne fanno.
Ogni volta è una battaglia, tra chi è pronto a dar la vita per difenderlo definendo ogni sua opera un capolavoro (IL capolavoro!) e chi lo bistratta malamente senza sapere neanche quel che dice (a volte mi sembra che l’ odio nei suoi confronti sia dettato da una grande invidia, ma è un’ impressione!)
Io, stranamente, questa volta mi colloco in mezzo.
Credo di aver visto più o meno tutte le pellicole storiche che sono uscite in questi ultimi anni e sono quasi sicuro che l’ unico metro di giudizio per una pellicola di questo tipo sia di confinarla nel suo genere (ancor più che altri tipi di film, che comunque uso giudicare a seconda della categoria a cui appartengono).
Non parlerei di capolavori assoluti tra “Il gladiatore” (che comunque ho molto apprezzato), “Troy” (per carità…), “Le crociate” (ne carne ne pesce) o “King Arthur” (che rientra in questa categoria solo per la tanto proclamata “reale vita di Re Artù” ma che considero sufficiente solo come film fantasy) ma di più o meno grandi film che non sanno mai distaccarsi troppo da certi clichè straabusati.
Chiedete ai mega ralenty, alle scene di guerra gloriose con il comandante che incita i soldati (che adesso con la computer graphica si fa la gara a chi crea l’esercito più grande!), ai grandi attori nei panni di muscolosi eroi con la voce altisonante, alle regie piene di voli pindarici sugli eserciti e alle colonne sonore magniloquenti.
Chiedete ad Oliver Stone e vedrete che il risultato è sempre quello, più o meno.
Certo Colin Farrell biondo (soprattutto quando è sbarbato) fa un po’ ridere ma vi assicuro che se avete visto Pitt- Achille questo è niente!
Senza dubbio Angelina Jolie che nella realtà ha 1 anno in più di Colin nei panni di sua madre vi farà un po’ sorridere nonostante incarni quello che noi tutti ci aspettiamo da Angelina, la femme fatale con i serpenti e le occhiate maliziose e i baci al figlio come sostituto del padre e via dicendo (ma non mi sbilancerei a definirla migliore interpretazione, che rimane, a mio parere, quella in “Ragazze interrotte” , forse l’ unica sua vera interpretazione).
Sono sicuro che Val Kilmer nei panni di Filippo il macedone farà la vostra gioia perché sembra il più adatto a quel tipo di ruolo così come Anthony Hopkins vi convincerà finalmente che non è un pazzo omicida cannibale.
E che dire di Jared Leto nei panni di Efestione, l’amico caro di Alessandro, che sembra tanto fuori luogo quanto una zucca di Halloween a Natale?
Oliver ce la mette tutta con la sua camera, scenografie meravigliose, immagini che rimarranno negli annali (quella di Colin sulle montagne è davvero uno spettacolo per gli occhi!), voli pindarici sugli eserciti (quelli non ve li toglie nessuno!) e sequenze da “guardate adesso che vi tiro fuori con un cavallo e un elefante” che fanno rabbrividire, peccato che tutto sia sempre troppo.
Stone si diverte (perché si diverte, non c’è altro motivo per cui avrebbe dovuto farlo!) a mettere qua e là un aquila che vola sul campo di battaglia e che ogni tanto ricompare fino alla sua caduta di fronte agli occhi di Olimpiade come sottile e mai utilizzata (????) metafora della morte di Alessandro ed esagera nelle pur bellissime e crudissime battaglie quasi che ti viene da chiederti se stai guardando una battaglia o uno scontro tra insetti (ma forse è proprio questo che il regista ci vuole comunicare).
Insomma la lunga pellicola (2ore e 40 minuti, ma credetemi con tutto questo materiale Stone si è già limitato! ) non delude assolutamente se si sopporta il genere ma eviterei di consigliarlo a chi non apprezza questo storico sontuoso in voga negli ultimi anni perché Alexander è Lo storico Sontuoso in voga negli ultimi anni.
A mio parere si piazza tra il Gladiatore (in testa) e il non troppo acclamato “Le crociate”.
Vorrei chiudere solo citando il fatto che qualcuno è riuscito a dare una stellina e mezza a questo film (su quattro) e tre e mezzo a quello scempio di Troy.
Il mondo è bello perché è vario si dice.
Si ma a un certo punto che tappino la bocca a qualcuno!
REGIA: Oliver Stone
ANNO: 2004
GENERE: Storico
VOTO: 7/8
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere Colin Farrell biondo, Val Kilmer senza un occhio e Jared Leto che fa lo scemo
QUANTO è SUPERIORE A QUELL’ IGNOBILE PELLICOLA CHE è WORLD TRADE CENTER: 10

mercoledì 28 novembre 2007

UNA VOLTA AVEVO... I CAPELLI

Cosa fa uno scrittore di blog (ma che definizione è??) quando gli manca qulcosa da pubblicare (o meglio ce l' ha ma deve ancora dargli una ritoccata!) e non ha una connessione internet fissa?
Se ne sta fermo direte voi!
Eh no! Io apro una rubrica, poco seria ovviamente perchè non voglio mi porti via molto spazio e che si ripresenterà ogni mercoledì..o meglio, vedremo se ripresentarla a seconda del successo o meno dell' operazione.
Ovviamente si parla sempre di cinema!
Insomma via a "Una volta avevo..."
Oggi il tema è:
I CAPELLI...VAI BRUCE!



martedì 27 novembre 2007

DR CYCLOPS


Riguardate un attimo le ultime recensioni.
Cosa sono tutte queste pellicole conosciute sul mio blog??
"1408", “Il padrino”, “Travolti da un insolito destino…”, “Lo spaccacuori”, “I robinson”, “Grass…” (beh oddio qui ci sarebbe qualcosa da obiettare!), “Elizabeth: the golden age”.
Dove sono finite quelle belle recensioni di film sconosciuti degli anni ‘20-‘30-‘40-‘50 prevalentemente di fantascienza che nessuno ha mai visto e che pochi avranno il coraggio di vedere?
Tranquilli.
Eccone qui una per voi, fresca fresca, appena sfornata!
“Dr Cyclops” nasce nel 1940 ad opera di Ernest Schoedsack (si, ancora quello di "King Kong"!) con la produzione della Paramount e del suo fidato amico Merian Cooper.
Ora immaginatevi questi due tizi.
Ne hanno viste di tutti i colori nel viaggio intrapreso con il popolo dimenticato in “Grass: a nation’ s battle for life” , hanno inventato praticamente dal nulla un mito cinematografico quale è King Kong, lo hanno addomesticato e reso simpatico e dolce agli occhi di molti nel seguito “Il figlio di King Kong”, si sono immaginati la storia di un cacciatore di uomini in “La pericolosa partita” e poi?
Come possono sopravvivere e continuare a splendere due personaggi del genere che hanno fatto della grandiosità e spettacolarità la loro parola d’ ordine?
Ovvio.
Continuando ad inventare nuove storie sempre più grandi e magniloquenti.
“Ma non esiste nulla di più grande di King Kong!” avrà esclamato spazientito Schoedsack un giorno sentendosi piccolo piccolo alla risposta di Cooper (a cui viene attribuita la maggior parte delle idee dei loro film): “Certo, ma questo solo ai nostri occhi!”
Già.
Noi umani alti tra il metro e settanta e i due metri siamo spaventati da un bestione di oltre quindici metri.. ma cosa direbbe una formica vedendolo?
E soprattutto: cosa direbbe un umano ridotto a 30 centimetri d’ altezza vedendolo?
Schoedsack e Cooper nel 1940 non crearono nuovi mostri giganteschi per farli concorrere con King Kong, semplicemente abbassarono l’ uomo.
La storia è semplice: 3 scienziati più un testardo allevatore di muli si recano nella giungla chiamati dal misterioso dottor Torkel che dice di aver bisogno del loro aiuto per esperimenti importantissimi.
Arrivati sul posto dopo giorni di viaggio i tre sono chiamati a guardare nel microscopio al posto del professore dalla vista bassissima e dagli occhiali spessissimi e prontamente invitati ad andarsene.
Ma il gruppo si rivolta, ne vuole sapere di più, vuole conoscere il motivo di tanta riservatezza del professore e andranno incontro (insieme all’ assistente Pedro già sul posto) alla sua furia: chiusi in una stanza con l’ inganno i 5 saranno colpiti da un raggio in grado di miniaturizzare gli esseri viventi (grazie alla quantità incredibile di uranio presente sul posto!) e rinchiusi in uno scatolino come cavie.
La restante mezz’ ora (le pellicole dei due non durano mai più di un’ ora e mezza e l’ azione vera e propria si concentra sempre negli ultimi 20- 30 minuti) vedrà contrapporsi gli umani miniaturizzati al gigantesco dottor Torkel in un confronto di dimensioni, lasciatemelo dire, ciclopiche.
Già ciclope.
Come il professore viene additato dal mini dottor Bullfinch che lo ritiene, oltre che miope, stupido come il ciclope che pensava di trattenere Ulisse prigioniero solo per la sua stazza.
Se in "King Kong" gli uomini usavano i loro normali utensili per difendersi dal mostro qui i piccoli esseri umani si arrangiano con quello che hanno: si coprono con lembi di fazzoletto (chissà dove li trovano poi!) e si armano con una lama della forbice e spilli dalle insidie di un mondo troppo grande per loro.
Satana è, giustamente, il nome del gatto nero del professor Torkel, con quegli occhi gialli lucenti e la sua voglia di cacciarli come topi il cui più acerrimo nemico è il cane di Pedro dal pelo chiaro (guarda il caso!) e sempre pronto a difenderli da ogni insidia.
Indicato come il primo vero film di fantascienza ad utilizzare uno splendido technicolor (godetevi l’ oscura scena iniziale tutta sul blu e sul viola), “Dr Cyclops” non si avvale solo di splendidi effetti speciali visti prima solo ne “La bambola del diavolo” di Tod Browning e perfezionati poi nello splendido “Radiazioni bx distruzione uomo” di Jack Arnold.
A buoni attori (su tutti spicca senza dubbio il malvagio rasato ed occhialuto dottor Torkel) e scenografie suggestive con gigantesche sedie e accessori vari costruiti appositamente per sottolineare la miniaturizzazione dei protagonisti (oltre alla solita giungla per cui Schoedsack doveva avere una vera fissa dato che girò almeno 5-6 pellicole in questi affascinanti scenari) si aggiunge la capacità del regista di stupire continuamente il pubblico.
Quando credi che il professore si stia arrendendo eccolo intrappolare i nostri nello stanzino per rimpicciolirli, quando pensi che il dottor Bullfinch sfuggirà senza dubbio alle grinfie del malvagio Torkel (è il protagonista non può morire!) eccolo soffocare nel veleno e quando pensi che ormai è finita per i piccolini te li vedi li a rompere tutti gli occhiali per rendere Torkel un ciclope accecato.
Schoedsack con questa pellicola sembra quasi chiudere un cerchio aperto con "King Kong" dove la bestia era dotata solo di sentimenti molto primitivi ma era capace ancora di amare.
La domanda che il regista si pone è: “E se quella bestia fosse dotata di intelligenza umana?”
Sarebbero guai per tutti: niente ingenuità da parte del dottor Torkel, niente furia non controllata, nessun sentimento ad ostacolare un progetto che definire mostruoso è una gentilezza.
Insomma Schoedsack riesce ancora una volta a sfruttare appieno tutte le potenzialità di una Hollywood che si sa arrangiare con effetti rudimentali (ovviamente appaiono ai nostri occhi rudimentali!) e che riuscirà ancora per molti anni a produrre storie originali dove il mezzo tecnico è ancora ausilio necessario ma non unico.
Oggi in molti casi non è più così: le storie sono viste e straviste (troppo facile dire: “allora non era stato ancora inventato nulla!) e l’ inventiva di autori quali Schoedsack e Cooper è andata persa tra mille remake e aggiustamenti e mentre ci si domanda cosa saprà offrire in termini di spettacolo il nuovo kolossal di Michael Bay (tanto per prendere un nome tra quelli più gettonati) si ha un po’ la nostalgia di quei tempi in cui un gatto nero era Satana e il suo padrone era l’ inferno vivente.
ANNO: 1940
REGIA: Ernest B. Schoedsack
GENERE: Fantascienza
VOTO: 7, 5
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere l’ ultima grande e un po’ dimenticata opera di Schoedsack
QUANTO FAN RIDERE LORO VESTITI CON I FAZZOLETTI COLORATI: 10

domenica 25 novembre 2007

UN LIBRO UN FILM_ 1408


Per leggere la recensione del racconto da cui è stata tratta questa pellicola cliccare qui.
Finalmente al cinema a godermi una trasposizione da un romanzo di King dopo l’ orribile esperienza de “L’acchiappasogni” 5 anni fa.
Questo è stato il mio primo pensiero all’ entrata in sala, rigorosamente solo, abbandonato da amici che preferisco non dire cosa sono andati a vedersi!
Innanzitutto voglio che sia chiara una cosa: non paragonerò in nessun modo “1408” a “Shining” perché si, si tratta in entrambi i casi di horror (tanto per dargli una definizione banale) ambientati in un albergo e il protagonista rimane uno scrittore ma per il resto non vi è niente in comune tra le due pellicole a partire dal fatto che lo “Shining” del 1980 non è una storia di King ma di Kubrick e se anche vogliamo prendere in considerazione i romanzi/racconti da cui sono stati tratti ci troviamo di fronte a due scritti completamente differenti, messi su carta per motivi e in tempi diversi.
E qui chiudo con i paragoni tanto acclamati dalla sempre più accecata critica cinematografica autorevole.
Ma veniamo a questo tanto acclamato “1408”, “Il miglior film tratto da una storia di Stephen King dai tempi di Shining”.
Ma smettiamola!
Ma davvero chi ha scritto questa cosa ci crede?
Ma ha mai visto “Misery”, “Stand By Me” o “Le ali della libertà” ?
Evidentemente no e molto probabilmente sarà lo stesso che si è scervellato per trovare i paragoni con “Shining”.
Lasciatelo stare quindi e seguitemi all’ interno di questo Dolphin Hotel.
Il film narra le vicende (come già detto nella mia recensione sul racconto da cui è stata tratta questa pellicola) di uno scrittore di horror seriali che non crede più in quello che scrive ma anche nello scrivere in se.
È in questo modo che Mike Enslin si avvia a visitare l’ ennesima stanza “maledetta”, la 1408 (la cui somma è uguale a 13 quanti ve l’ han detto?) situata casualmente ad un tredicesimo piano mascherato da quattordicesimo.
Ad accoglierlo nell’ albergo il direttore interpretato da Samuel L. Jackson (“luciferino come mai prima d’ ora”, anche questa è una frase che ho letto spesso) che tenterà di dissuadere l’ insistente cliente in tutti i modi senza riuscirci.
E quindi via, nella stanza degli orrori, tra spettri che potete benissimo vedere anche nel trailer e defunti in bianco e nero, tra cui la figlia di Mike, morta anni prima e per cui il padre si sente ancora distrutto e in colpa.
Non vi racconterò niente di più semplicemente perché raccontare un film horror (ancora questa parola! Ma vi assicuro che non è solo questo!) è semplicemente una follia o un modo per rovinare la sorpresa al festeggiato e quindi via all’ analisi.
Detto che non si tratta di “Shining” (toglietevelo dalla mente ok?) e nemmeno di quel capolavoro di sottile tensione psicologica che è Misery, “1408” è davvero un buon film.
Ecco l’ ho detto!
Me lo sono tolto dallo stomaco.
Non lo credevo, mi sono aspettato fino all’ ultimo una caduta di stile (beh a dir la verità una c’ è..vedrete Samuel L. Jackson dentro un frigorifero!) ma devo dirlo, “1408” è FINALMENTE una buona trasposizione di un racconto di King.
Anzi, se posso permettermi, si tratta di una passaggio su celluloide migliore del racconto non proprio eccelso da cui il film è tratto e ne è il naturale completamento.
Laddove il racconto si limitava ad accennare una sorta di orrore basato sullo “scioglimento” (anche letterale) della realtà della camera davanti agli occhi di Mike, il film si fa prosecutore di questa linea e racconta il disfacimento non solo fisico ma psichico della nostra dimensione di fronte al protagonista.
Finalmente una sceneggiatura riesce a trasportare sullo schermo quel male che King descrive da quando è nato ormai e che si può trovare in ogni cosa senza renderlo ridicolo (vedi ad esempio il pessimo “The mangler”), un male padrone della stanza da cui Mike Enslin (il bene…non prendete in giro, King in fondo mette in campo sempre bene vs male e lo dice anche!) cercherà in tutti i modi di fuggire.
Un Mike Enslin splendidamente interpretato da un John Cusack (a tratti anche autoironico!) in gran forma che, oltre alla vaga somiglianza fisica con lo scrittore del Maine (quando si mette il cappello e gli occhiali è uguale a King!) si fa notare per una recitazione decisamente sopra le righe che però si adatta benissimo a questo tipo di narrazione.
Non aspettatevi quindi sottili giochi psicologici o incredibili inquadrature che innoveranno il genere (anche se c’ è da dire che la regia del misconosciuto Mikael Hafstrom con soli due filmetti all’ attivo è ben al di sopra della media del genere!) ma un classico film d’ orrore che vi farà saltare qualche volta sulla poltrona (io cercavo di far l’ indifferente perché ero solo e non potevo fa figuracce ma ogni tanto avevo il cuore che mi batteva tra i capelli!) e che riesce a farsi apprezzare nella sua ora e 45 minuti pur utilizzando tutti i clichè del genere.
A caldo rimangono impresse senza dubbio una scena del protagonista fuori dalla finestra con una zoomata all’ indietro che ci mostra come la sua sia l’ unica finestra rimasta sulla parete (e chi vuol intendere intenda!) e una fantastica sequenza in cui Mike sembra diventare sordo per un attimo e sarete avvolti da quel classico sibilo che ti prende quando hai le orecchie tappate (spero per voi che quando sarete in sala non ci sarà qualche pirla a parlare perché l’ effetto è notevole!)
Insomma “1408” non mi ha deluso, così a caldo direi anzi che si tratta di un ottimo prodotto soprattutto se confrontato all’ 80% delle trasposizioni da King.
Cosa dire ancora?
Non entrate nella 1408!
Io senza dubbio sarò un po’ inquietato d’ ora in poi negli alberghi da solo, chissà quante persone sono state male su quel letto.. chissà quanti vi sono morti.
REGIA: Mikael Hafstrom
ANNO: 2007
GENERE: Horror, paranormale
VOTO: 7, 5
CONSIGLIATO A CHI: come me non ne poteva più di vedere le parole di King rovinate sullo schermo
QUANTO è PIRLA IL MIO VICINO DI POLTRONA CHE A FINE PELLICOLA HA DETTO: “SICURAMENTE CI SARà UN SEGUITO AH AH!” E NON HA CAPITO UNA MAZZA DAL PRIMO MINUTO: 10

venerdì 23 novembre 2007

1408- IL RACCONTO



Stephen King.
Che dire?
Non vi nasconderò di certo che si tratta del mio autore più amato.
Non voglio star qui a raccontarvi chissà quale balla per sentirmi più apprezzato da qualcuno.
Non vi vengo a dire che Dostoevski o Manzoni o che so io sono i miei romanzieri preferiti perché semplicemente non è vero. E non mi interessa farvelo credere.
Dunque Stephen King.
Tanto amato dai suoi lettori quanto odiato da una certa critica specializzata (e son sicuro anche da qualcuno di voi!) che lo vede come l’ emblema dello scrittore al chilo.
Quello che mette in commercio un libro all’ anno che deve avere almeno 200 pagine altrimenti è troppo piccolo.
Quello che in una sua biografia ha detto che la mattina quando si alza si impone di scrive tot-mila parole al giorno manco fosse un venditore di pesci.
Quello che scrive solo di horror perché sa scrivere solo di quello e poi almeno vende di più ai ragazzini imbecilli.
Alt!
Fermiamoci un attimo.
Siamo sicuri di volerlo considerare così?
Siamo sicuri di volerlo impiccare per luoghi comuni un po’ come ogni tanto fanno con qualche regista (tanto per dirne uno Verhoeven)?
Andiamo un attimo più a fondo.
Voi tutti, compreso io quando mi devo spiegare con qualcun’ altro, quando pensate a Stephen King avete “It” davanti ai vostri occhi.
Sono sicuro che chi, come me, ha visto la faccia di “It” sullo schermo da piccolo ne sarà rimasto traumatizzato almeno per una notte intera (io dormii l’ intera notte con la luce accesa!)
Ma Stephen King non è solo “It”.
Un divertente aneddoto che lo scrittore racconta spesso nelle prefazioni dei suoi libri lo vede conversare con il suo editore a proposito del secondo romanzo da pubblicare dopo il clamoroso (quanto inaspettato) successo dell’ horror Carrie (trasposto poi molto bene da De Palma su pellicola).
Stephen ha scritto un libro sui vampiri (diventerà poi "I vampiri di Salem Lot") e uno su argomenti più realisici ed è indeciso sul da farsi al che l’ editore gli suggerisce che con un'altra pubblicazione horror avrebbe senza dubbio raccolto molti consensi ma sarebbe stato inevitabilmente bollato come scrittore di genere.
Ovviamente King pubblica lo scritto sui vampiri e diviene LO scrittore horror per eccellenza.
Questo per dire cosa?
Semplicemente per farvi capire la mentalità di King: non importa il giudizio altrui quanto le idee che si hanno in testa in quel momento.
Il Re dell' horror avrà occasione più tardi di far vedere la sua maestria in altri generi ma per i primi anni non farà altro che divertirsi con la materia a lui più congeniale senza badare tanto alle critiche che lo volevano come inutile scribacchino popolare.
Questo è quello che si può notare all’ interno della vastissima produzione Kinghiana senza soffermarsi ad uno sguardo superficiale: non c’ è solo horror e ogni amante del buon cinema dovrebbe (o potrebbe) saperlo senza tante difficoltà.
Vi ricordate il bellissimo dramma carcerario “Le ali della libertà” con protagonisti Tim Robbins e Morgan Freeman? Bene, è suo il romanzo da cui è stato splendidamente tratto.
E “Il miglio verde”? è suo.
E lo splendido ed emozionante “Stand by me” con un River Phoenix ancora molto giovane ma già grande?
E “L’ allievo”, storia di un ragazzo di provincia a dir poco folle trasposto da Bryan Singer?
Ma poi ditemi sinceramente.
Che accusa è: “Sei uno scrittore horror!” ?
È come se dicessero a me: “Tu guardi solo film di fantascienza!”
È vero? Ni.
Nel senso che si, amo la fantascienza e magari tra “Orgoglio e pregiudizio” e “Il pianeta delle scimmie” prima mi guardo il secondo, ma senza dubbio più tardi vedrò anche la prima pellicola.
Allora ditemi il senso di un accusa quale quella fatta a King.
Un accusa che riceve da quasi trent’ anni ormai e a cui non ha dato mai nessun peso.
Anzi.
Se ci fate caso più le critiche si fanno forti più King tende ad avvicinarsi al suo pubblico, a parlargli dalla pagina scritta quasi come se i suoi lettori fossero li davanti a lui e i critici…e i critici non esistessero.
Il linguaggio che King utilizza nelle sue prefazioni (e postfazioni) è quanto di più colloquiale io abbia mai letto: sembra di trovarsi la, davanti al suo camino, a sentirlo raccontare un'altra delle sue spaventose storie.
Storie che hanno terrorizzato e incantato tutto il mondo e che affascinano proprio per il modo in cui sono raccontate.
Niente fronzoli, arcaismi, snobismo letterario, King punta all’ effetto e molto spesso ci riesce.
A volte scade in prodotti insignificanti (se vi capita NON leggete mai “La bambina che amava Tom Gordon”) ma chi non sbaglia in una così lunga e prolifica carriera?
Tutta questa lunga lamentela per dirvi che cosa poi?
Che ho letto 1408, il racconto da cui è stato tratto il film che sta per uscire nelle sale italiane con Samuel L. Jackson e John Cusack protagonisti.
Si tratta della storia di uno scrittore (King ha scritto almeno 6-7 storie con uno scrittore che non crede nel suo lavoro protagonista compreso il tanto acclamato Shining che ogni tanto viene il dubbio si tratti proprio di lui) che racconta le sue avventure nei luoghi cosiddette infestati e un giorno decide di recarsi in questo Dolphin Hotel dove si narra esista una stanza maledetta, la numero 1408 cioè la 1+4+0+8= 13 casualmente sita al piano tredicesimo (mascherato da quattordicesimo).
King io me lo immagino come una macchinetta sforna storie a questo punto.
Nella prefazione ci racconta di come un vero scrittore horror (ormai ci ha preso gusto anche a lui a definirsi così anche se c’ è sempre una sottile vena d’ ironia e di sfottò per i critici nelle sue parole) debba necessariamente scrivere nella sua carriera un racconto sulla tumulazione prematura e uno su una stanza d’ albergo infestata dai fantasmi e come questo racconto sia nato in realtà per caso, come esempio sullo scrivere nella sua autobiografia (molto carina se mai vi capitasse) “On Writing”.
Ma poi la storia è venuta a galla perché come ama spesso dire il buon Stephen: “è la storia non colui che la racconta" e si è deciso quindi ad includerla nella raccolta di racconti “Tutto è fatidico- 14 storie nere”.
1408, come mi piace dire, è il classico racconto breve a la King.
A differenza dei suoi romanzi dove King ha tempo e spazio di presentare i protagonisti con tutti i loro difetti e pregi e segreti e chi più ne ha più ne metta, il racconto breve per King è una sorta di storiella da raccontare intorno al fuoco ai ragazzi per spaventarli un po’.
Niente sottigliezze quindi, nessun messaggio implicito o che altro: solo una bella storia da dare in pasto al lettore frettoloso o che non ha tempo di addentrarsi in una delle sue meravigliose (e lunghissime) avventure.
C’ è da dire che “1408”, a differenza di tanti altri suoi racconti, funziona solo a metà perché se lo conosci sai che con una storia del genere il Re del brivido avrebbe potuto fare quello che voleva e invece si limita a delle buone scene di terrore nella stanza d’ albergo per poi tranciare il tutto proprio sul più bello.
Non vi racconterò certo il finale ma vi basti sapere che si rimane con una sensazione quasi di vuoto, nel senso che si sente la mancanza di qualcosa, il succo si direbbe.
Insomma ora sta per uscire la pellicola che è stata indicata addirittura come la miglior trasposizione di King dai tempi di “Shining” ma sono pronto a scommettere che non sarà così: evidentemente qualche stupido critico (molto probabilmente lo stesso pronto ad accusare King di essere un horrorofilo) si è dimenticato di “Le ali della libertà”, “Il miglio verde”, “Misery”, “Stand by me” e “L’ allievo” mentre qualcun altro sarà già pronto con la lunga serie di motivi per cui “1408” non è “nemmeno lontanamente paragonabile” a “Shining” (qui si cade nella demenza dato che si tratta di due storie completamente diverse per lunghezza, tempo in cui sono state scritte, messaggio e intenzione dello scrittore).
Per quanto mi riguarda io sono pronto, mi son visto il mio bel trailer dove appaiono una moglie e una figlia non presenti nello scritto (certo trarre un film di almeno un’ ora e mezza da un racconto di trenta pagine sarà dura!) e ho sopportato anche la locandina con scritto “tratto da un ROMANZO di Stephen King"
Dopo la delusione de “L’ acchiappasogni” di qualche anno fa (pessimo!) che partiva già da un romanzo (questo si) mediocre mi aspetto qualcosa di più, non un capolavoro ma un buon prodotto si.
Sinceramente spero di tornare a casa e controllare se sotto il letto c' è qualcosa, qualcuno.. come quella volta due anni fa dopo aver letto "It" quando avevo una paura folle di veder sbucare la faccia di Ronald Mc Donald nel cuore della notte.
SCRITTORE: Stephen King
ANNO: 2002
GENERE: Horror
VOTO: 7
QUANTO è BRAVO KING AD INQUIETARE IL LETTORE CON POCHE PAROLE: 10
CONSIGLIATO A CHI: Non ama le stanze d' albergo

mercoledì 21 novembre 2007

TRE CLASSICI UN MITO PT II_ IL PADRINO LA TRILOGIA

BY LEO

- THE GODFATHER- IL PADRINO
- THE GODFATHER PART II- IL PADRINO PARTE II
- THE GODFATHER PART III- IL PADRINO PARTE III





Non spiegherò la trama del film, non darò indicazioni sui personaggi o chicche sulle produzioni, pettegolezzi sugli attori, fiches tecniche. Mi sento in dovere di accostare questi tre film con la riverenza dovuta, con i mezzi più adatti: la mitologia e il dramma. Ogni scienza si adatta all’oggetto che studia e forgia i propri strumenti d’indagine. Purtroppo, questa volta i miei non contemplano i discorsi tecnici sulla qualità speciale della pellicola o della tecnica.
Teatro tragico, teatro greco.
Ed ecco, come spettatori assisi sulle scalinate in pietra, con il nostro bel cuscino che ci ammorbidisce le asperità naturali e ci “umanizza” il contato con la pietra fredda, ecco che laggiù, proprio accanto al boccascena, le “maschere” nebbiose vengono avvistate.
Entrano, silenziose. Entrano e ci parlano. Ma non con movimenti di labbra che non possiamo vedere. Non con movimenti codificati dal genere drammatico.
Non ci parlano affatto: siamo noi a sentirle. Ad avvertirle. Dentro, come martelli a volte, o più spesso come soffici fazzoletti di seta sulla pelle. Qualche volta con la violenza del tuono, con il bruciare del fuoco, con il calore del legno che scricchiola e geme prima di rompersi nel camino. Personaggi non reali, personaggi su un palcoscenico.
Ma oggigiorno, in un mare di pubblicità e appunti veloci, dimentichiamo spesso questo: “maschera” in etrusco significava “persona”.
E come già intuì ferocemente Pirandello, non siamo forse tutti “maschere”, in un gioco eterno –un ballo di gala – di significanti e significati, intrappolati nella nostra condizione umana, dalla quale nessuna scommessa pascaliana ci può salvare?
E quale storia meglio di una saga familiare che attraversa il 900 può decidere il giudizio su questo secolo che ci siamo lasciati alle spalle?
Quale storia meglio de “Il Padrino” può essere accostata al viaggio dantesco della “Commedia”?
Una differenza è bene trarla subito dal sentiero, per evitare impacci: il viaggio viene compiuto al contrario, in un rovesciamento significativo di intenti.
Non c’è salvezza, né salvazione. S
i passa dal Paradiso idealizzato degli esordi (sicuri poi che lo fosse?), attraverso il purgatorio della flebile, iniziale, caduta alla disillusione infernale, totale, persino al disfacimento dell’ideale di pentimento.
Un errore lo si paga per sempre. Ma chi non sbaglia?
Sempre in quella Sicilia greca in cui vivono ancora i miti e le tragedie del teatro greco, in cui ancora lo spruzzo delle onde ricorda la schiuma che generò Afrodite. E che così vuole essere ricordata a forza viva dai registi italoamericani, a rischio della misera caduta in una serie di clichés pseudo-folkloristici inevitabili (e in quanti ci sono cascati).
“Il potere logora chi non ce l’ha”: è il sicario nel “Padrino pt.III”, a sigillare con queste parole la morte del politico italiano corrotto, Lucchetti.
La sicurezza non sta nei patti, né nelle parole.
Un mondo in cui fidarsi porta alla disillusione, un mondo in cui la faida longobarda non appare più come risposta necessaria: ciò che conta è la violenza totale, la mancanza di rispetto definitiva. Il tutti contro tutti, unica legge valida, unico limite concesso.
Senza decalogo da rispettare, la malavita comincia a erodere affamata sé stessa, a mangiarsi, serpente arrotolato su sé stesso, che trae giovamento dal proprio mangiarsi. Cane mangia cane.
Ma la catena si tira e lentamente si sfilaccia. Fino alla procrastinata rottura.
E allora guardiamo fino alla nausea il volto di Marlon Brando nel primo episodio, stampiamoci a memoria la faccia di lui – Don Vito Andolini, futuro don Corleone– interpretato da Robert De Niro, semisconosciuto, granitico e giovanissimo, mentre si appresta ad uccidere il prepotente don calabrese di Little Italy, don Fanucci, interpretato da un perfetto quanto elegante Gastone Moschin, vestito di bianco, di tutto punto. Ancora alle prese con un codice etico, seppure falsato perché per forza basato sulla criminalità.
Ma guardiamo poi l’arrivo della competizione della droga, l’affermarsi della prostituzione, e il passaggio di consegna a Michael – uno strepitoso Al Pacino – che decide di portare avanti tutto e contro tutti: cominciando a crearsi un vuoto intorno, un silenzio che neanche l’amore dei suoi familiari può riempire. La morte del fratello Fredo, ritenuto inadatto ai ruoli di potere, e voluta dallo stesso Michael, l’abbandono della moglie, la morte della figlia (Sofia Coppola, nel terzo episodio), e continue lotte interne fratricide: sangue, intorno, sangue, su tutto e su tutti, sangue, ovunque.
E un mare di bugie, alla seconda moglie, e alla figlia. Un mare di bugie che inchioda anche lui. Pentito.
Sì, ma senza assoluzione, senza possibilità di riscatto.
Come diceva Nicole Kidman in “Eyes Wide Shut” di Kubrick, la realtà di un sogno, o di una notte, corrisponde alla verità di una vita: così, la realtà di una vita di sangue attira lenta la vendetta di sangue nel finale. Cane attira cane. E Iddio non concederà a Michael il riposo repentino.
No.
Dovrà assistere con i suoi occhi a tutta la sconfitta. Come un personaggio biblico, Dio gli concederà tutta la vita per osservare il dramma dei semi infausti e sterili che ha seminato. Seppure malato, morirà come il padre, anziano, in Sicilia. Di morte naturale, a fianco a tanti cadaveri uccisi e trucidati per “politica” familiare. Dopo aver assistito alla propria caduta.
Passaggio di consegne all’irruente nipote Andy Garcia/Vincent : saprà reggere l’evoluzione del confronto con i potentati economici, le pressioni politiche, le violenze dei concorrenti? La risposta spira al “No”, memori della fine del padre di lui, colpito a tradimento dopo una decisione irruenta, nel primo episodio.
Rivediamo assieme la mimica di Brando nel primo film: con quale coraggio giudicheremo un altro film dello stesso genere dopo aver assistito a questa enorme figura di patriarca familiare, seppure impegnato nella malavita organizzata, impegnato a metà tra tutela della “famiglia” e rispetto delle regole basilari : no commercio di droga, no prostituzione...
Schiacciato dalla concorrenza, affida nel secondo episodio l’impero al figlio Michael, spavaldo ma freddo calcolatore, vuoto e vendicativo, solo contro sé stesso, ombra dell’uomo che era (“Non sarò come mio padre”, diceva solerte nel primo episodio), e alla fine ombra di un’ombra (“A che serve l’assoluzione se non mi pento?” dice nel terzo episodio, come un bambino che invochi piangente la madre a medicargli la ferita).
Scavarsi un posto nella nuova vita americana degli anni 60/70, mentre il ricordo va immediato ai vecchi tempi “eroici” della Little Italy newyorchese dei primi del secolo, quando Don Vito giovane/De Niro (strepitoso) si gioca le sue carte con abilità, tranquillità e savoir faire. Dopo i problemi giudiziari, la volontà di rinascere, nel commercio pulito: e ritornammo a riveder le stelle? Nessuna stella. Nessuna speranza.
Ego te absolvo, un vescovo ingiunge il perdono ad un vecchio e diabetico Michael, in lacrime, durante la confessione.
Ego te absolvo, ma è troppo tardi.
L’ennesima bugia all’ex moglie, l’ennesima copertura delle attività illecite, l’ennesima bugia del medesimo tiro alla figlia, che soffre di un vivace complesso paterno nei confronti del padre, idolatrato e amato nella figura dell’irrequieto cugino Vincent.
Il finale: l’inferno temuto ma così attirato.
La disfatta della famiglia, il rifiuto deciso dal fato nei confronti di qualunque rinascita, sulle note della “Cavalleria Rusticana”. E così come accadeva invariabilmente nelle novelle di Verga, ogni cambiamento del proprio status sociale, di ciò che si è, viene punito.
“Ora tu sei il mio orrore”, dice l’ex moglie a Michael nell’ultimo episodio.
E la mente corre a quell’ ”orrore” di cui finì preda anche il colonnello Kurtz in “Apocalypse Now”. L’orrore è stato per Michael l’incontro con il sé nascosto, occultato.
Maschera eterna, tra bugie e verità nascoste ai “cari”, per proteggerli.
Scisso per il bene della famiglia.Freddo per il bene della moglie. Silenzioso per il bene della figlia. Morto dentro, per il suo stesso bene.
Seppellito vivo.
Eppure, a ben pensarci, così siamo soliti fare anche noi: “maschere” immerse in mille differenti contesti, ad ognuno una risposta diversa, a tutti una piccola innocua bugia. Per tutti un “Io” diverso, secondo le occasioni. Alzi la mano che non ha mai detto una piccola bugia a fin di “bene”, o almeno per ciò che reputava essere il “bene” in quel momento.
Malinconici come un triste tramonto, i familiari dei Corleone scivolano sul destino come in dramma di Shakespeare, come in quel rimando all’uccisione di Seneca nella “parte seconda”: il secondo, uomo morto libero in un mare di tiranni, il primo, il tragico, l’uomo che più di ogni altro seppe rendere adatti gli stessi temi eterni e divini della tragedia greca in termini adatti ai contemporanei. Così ha fatto (o tentato di fare) Coppola.
La successione del re, il rapporto padre-figlio, il passaggio di consegne e il progressivo venir meno dall’età mitologica dell’oro, tanto sognata e spesso inseguita invano: un giorno questi temi verranno studiati guardando questi tre film.




REGIA: FRANCIS FORD COPPOLA
GENERE: Dramma, Azione
CONSIGLIATO A CHI: c’è ancora qualcuno che si è perso questi film?!? Nulla è perduto; non è mai tardi per il buon Francis.

IL PADRINO
ANNO: 1972
VOTO: 10+ (Brando eterno. Scolpito nel fuoco della memoria. Cast spettacolare. Capolavoro del genio artistico. Si sprecano analisi psicanalitiche, sociologiche, sociali, storiche...)

IL PADRINO PARTE II
ANNO: 1974
VOTO: 8 (Un vivace De Niro supera Pacino, che nella sua calcolata freddezza rimane eccelso e un po’ ghiacciato. Spettacolare confronto tra ieri e oggi, scontro e differenze generazionali)

IL PADRINO PARTE III
ANNO: 1990
VOTO: 7- (il più fiacco ma anche il più sottovalutato; sfugge al mero esercizio di stile, ma si arena in lunghezze eccessive. Però un Pacino sfavillante finalmente solo senza l’ingombrante figura di Brando o De Niro: dà il meglio e salva il film, che altrimenti scivolerebbe di un punto verso la sufficienza. Il voto va tutto a lui. Da notare i fili intrecciati dell’ultima scena a Palermo, all’Opera: i nodi - intricatissimi - della vicenda vengono tutti al pettine)

CONSIGLIATO A CHI: c’è ancora qualcuno che si è perso questi film?!? Nulla è perduto; non è mai tardi per il buon Francis.
QUANTO IL DOPPIAGGIO ITALIANO E’ MIGLIORE RISPETTO ALL’ORIGINALE (MA AVETE SENTITO CHE STUPIDAGGINI DICONO IN UN SIMIL-ITALIANO STANTIO?!?!?): 10+

martedì 20 novembre 2007

JOHNNY CASH- HURT

I brividi sulla schiena, le lacrime sulle guance, quella sensazione di non essere più qui ma in un altro universo.
Dove Johnny Cash è ancora vivo e canta ancora di tutti quelli che conosce che sono andati via.
La moglie suo primo e ultimo appoggio se ne era appena andata.
Lui la seguirà di li a breve, giusto il tempo di guardare nello scatolone dei ricordi un vecchio disco d’ oro con la cornice rotta.
Giusto il tempo di rivedersi giovane, lui l’ uomo in nero.
Un tempo padrone del mondo.
Oggi un signore anziano come tanti se non fosse per quella chitarra.
Se non fosse per quella voce.
Se non fosse per il fatto che lui è Johnny Cash e non se ne andrà mai realmente.
Se avete 4 minuti della vostra vita a disposizione caricate il video, spegnete tutte le luci della vostra stanza, eliminate ogni rumore, pigiate play, chiudete gli occhi e fatevi trasportare.
In un altro universo.



I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that's real
The needle tears a hold
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything

[Chorus:]
What have I become
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end
And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

I wear this crown of thorns
Upon my liar's chair
Full of broken thoughts
I cannot repair
Beneath the stains of time
The feelings disappear
You are someone else
I am still right here

[Chorus:]
What have I become
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end
And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

If I could start again
A million miles away
I would keep myself
I would find a way

lunedì 19 novembre 2007

ORIGINAL AND REMAKE_ TRAVOLTI DAL DESTINO

-TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO NELL' AZZURRO MARE D' AGOSTO
-SWEPT AWAY- TRAVOLTI DAL DESTINO




È stata una decisione difficile.
Di fronte al mio porta dvd ieri sera ci ho pensato un quarto d’ ora prima di scegliere questo film (e quindi il più temibile remake da vedere subito dopo).
Dopo settimane di stagionatura (la prima volta che mi venne in mente di vederlo fu all’ epoca della mia prima recensione di questo blog, non a caso “Lock e Stock” di Guy Ritchie, regista del remake con la moglie Madonna) mi sono deciso.
Ho preso il dvd, l’ ho messo dentro al mio computerino e ho detto: “Basta! Ora lo vedo!”
Vibra il telefono, tempo di rispondere ad un messaggio e sono già indeciso.
Mi chiedo se ne valga la pena.
Un film italiano del 1974 di Lina Wertmuller dove senza alcun dubbio ci sarà un aspetto di critica sociale (il 90% dei film dell’ epoca che conosco lo hanno, non vedo perché questo doveva fare eccezione!) e una storia strappalacrime.
“Ne sei così sicuro? Davvero poi avrai il coraggio di vederti il remake criticatissimo che passa almeno 3 volte all’ anno in tv su rete 4 o canale 5 quando hanno dei buchi nel palinsesto? Ti ricordi che una volta ne hai visti 10 minuti e sei scappato al campo sportivo a giocare da solo con la porta?”
“Si, me lo ricordo. Ma questa volta sono deciso.”
“E poi almeno l’ originale non può essere così brutto!”
Infatti.
Mi decido finalmente a premere play e via, verso nuove avventure.
Ci troviamo su una barca a vela affittata da un ricco uomo e da una ricca donna che intendono fare una bella crociera con i ricchi amici negli splendidi mari dell’ Italia del Sud (ricchi di pesce, tanto per non sbagliarsi!)
Oltre ai ricconi sulla barca sono presenti degli inservienti tra cui tale Gennarino, siciliano barbuto che non fa altro che borbottare ad ogni assurda lamentela della riccona viziata Raffaella: “E la pasta è scotta e il caffè è riscaldato e le vostre magliette puzzano” e Gennarino è sempre li li per esplodere trattenuto dal capitano che gli ricorda come siano pagati bene per quello sporco lavoro.
Ma l’ imprevisto è in agguato.
Per uno stupido capriccio la viziata Raffaella decide di andare in mare con il gommone accompagnata da Gennarino e capita che, nel bel mezzo del nulla, il gommone si fermi.
“E fai qualcosa e sei incapace e che marinaio sei? E se fossi venuta con il capitano non sarebbe successo” e Gennarino si trattiene mentre esplode la tempesta dopo giorni di vagheggiare senza meta e in men che non si dica si ritrovano sulla terraferma.
Sembra la fine di un incubo per Raffaella e invece si tratta ancora più drasticamente della fine di una vita.
Della sua vita precedente.
“Trattasi di isolotto deserto, senza nessuno” urla dalla cima di una rupe Gennarino con il suo incredibile accento siciliano ma lei no.
“E figurati se non c’è nessuno e ti pare che possa esistere un luogo senza l’ uomo e” e basta.
Perché Gennarino questa volta esplode: “Ora mi hai rotto davvero la menghia, io faccio quello che stracazzo mi pare, vaffanculo, bottana industriale, troia, zoccola, sottana, maiala, meretrice, sgualdrina, fetusa gran mignotta! Uno poverazzo deve sopportare e poi arriva un momento che se caga u cazzo o no? Ora per tia sono cazzi da cagare! Bagascia, sgualdrina, prostituta!” E via di questo passo, di insulto in insulto.
Ma come si fa a sopravvivere su un’ isola deserta? Mentre Gennarino si da da fare per costruire una rete per i pesci e cercare un riparo, Raffaella (non più tanto ricca) si lamenta, trascina i piedi, si lamenta, cammina a vuoto, si lamenta, piange e si lamenta e quando vede il compagno di naufragio mangiare un pesce cotto sul fuoco lo insulta dicendogli che bisognerebbe mandarlo in galera perché mangia da solo senza dar nulla a lei che, povera, non è riuscita a procurarsi nulla.
Ma qui non siamo più sulla barca, Gennarino è libero di dire quello che pensa finalmente: “Se c’ era una legge del genere tutti i ricchi sarebbero in galera”
La pellicola si trasforma, lo vedi nel volto di Gennarino che si incattivisce, lo vedi nel volto di Raffaella che lascia finalmente la sua arroganza dopo una notte passata all’ addiaccio per colpa di un insulto di troppo.
“Ora tu stai sotto e io sto sopra!” dichiara Gennarino.
E così è.
Dopo botte in faccia che ti senti bruciare le guance persino tu che la stai guardando sullo schermo Raffaella cede in toto e si trasforma letteralmente nella schiava di Gennarino.
Gli lava le mutande, cucina, lo serve e infine dopo essere stata quasi stuprata sulla spiaggia dopo un lungo inseguimento lo vuole.
Ma lui vuole una schiava d’ amore, non una donna che semplicemente lo ami e così via ad altri mille servigi fino alla sottomissione totale: mentre Gennarino infilza un coniglio per cuocerlo sul fuoco lei si prostra davanti a lui, gli dice di sentirsi come quel povero animale infilzato e gli bacia i piedi.
Inizia una nuova vita fatto di un amore quasi normale dove la donna deve però sottostare alle leggi dell’ uomo fino ai dubbi di Gennarino: lui vuole una prova.
Esisterebbero loro due fuori di li?
E mentre lei dice che non c’ è bisogno di pensarci, che non gliene frega più niente del mondo di fuori, lui vede una barca e riesce a richiamarne l’ attenzione.
Sono salvi, la moglie di Gennarino in porto lo abbraccia, lo bacia, lo adora ma lui non ci pensa.
Con i soldi donatigli dal marito di Raffaella le compra un anello e la aspetta al peschereccio in fondo al porto pronto a ripartire con lei.
Non arriverà mai e mentre Gennarino lancia l’ ultimo ricordo della sua avventura (un orecchino di lei) contro l’ elicottero di Raffaella in partenza si avvia mesto dietro la moglie infuriata fino a raggiungerla, come se un giorno potesse di nuovo ritornare a capo della coppia.
The End?
Già “The end” se nel 2002 Guy Richie non avesse avuto la brillante idea di farne un remake e Lina Wertmuller non avesse deciso di lasciare i diritti a Madonna per l’ammirazione nei suoi confronti.
Madonna?
Si Madonna, moglie di Guy Richie, interprete protagonista della nuova pellicola al posto della tanto odiosa quanto fantastica Mariangela Melato nei panni di Raffaella.
E Gennarino- Giancarlo Giannini con chi lo sostituiamo?
Facciamo una cosa cool!
Prendiamo il bel figlio Adriano Giannini e facciamogli fare il ruolo del padre!
Ganzissimo!
Già me lo vedo Richie tutto esaltato all’ idea del figlio di Giannini, come se fosse l’ idea più geniale di questo mondo.
Già.
Geniale.
Peccato che non ci sia nulla di geniale in questo remake.
La storia è praticamente identica a parte il finale leggermente meno amaro che vede Madonna abbandonare Giannini non per scelta sua ma per colpa del marito un po’ stronzo (ma neanche tanto alla fine è sua moglie!) ma tutto cambia.
Là dove la pellicola della Wertmuller si basava su una forte critica sociale che metteva in contrapposizione i democratici (nel senso che votavano Democrazia Cristiana) contro i comunisti la pellicola di Richie decide bene di sorvolare sull’ argomento facendo solo un leggero accenno al capitalismo.
Là dove l’ originale sceglieva di rappresentare un’ Italia spezzata in due con i milanesi ricchi e democratici (o di destra) da una parte e i siciliani poveri e comunisti dall’ altra Richie riduce l’ ambientazione italiana a stupide musichette tipicamente italiane, di quelle che senti nel classico ristorante “italiano” all’ estero, tutte mandolini e melodie (italiane! Provate piuttosto a sentirvi la splendida colonna sonora dell’ originale vincitrice di un David di Donatello a cura di Piero Piccioni).
Là dove Giancarlo Giannini era la perfetta incarnazione del siciliano che sovrastava la donna con tutta la sua forza, Adriano Giannini sembra arrancare dietro la scia del padre. Ne imita l’ accento ma non è neanche paragonabile. Ne imita la forza ma non è credibile (guardate uno schiaffo tirato da Giancarlo alla Melato e uno tirato dal figlio a Madonna, sembra una carezza in confronto!). Ne imita la bellezza e forse almeno in questo riesce (ma non tocca a me giudicare!). Ne imita la barba ed è meglio lasciar perdere perché sembra un quindicenne spelacchiato!
Là dove la Melato la volevi prendere a schiaffi per la prima ora e poi riusciva a farti pena dopo tante botte e supplicavi Giannini di smetterla con quegli schiaffi, Madonna ti viene voglia solo di urlargli “Basta! Smettila! Stop! Non sai recitare ti prego basta!”
Là dove la regia sobria della Wertmuller risultava adatta ad un film di questo tipo (non per niente se lo è anche scritto!), quella di Richie cerca sempre il colpo ad effetto anche quando non ce n’ è alcun bisogno. E così via a scene veloci in parallelo dei due protagonisti che dicono cose opposte (dovrebbe far ridere? Dimmelo tu Guy!), via a scenette nella cambusa della nave che sembra il classico sobborgo da città inglese così ben rappresentato da Richie in “Lock e Stock” (con annessi classici personaggi a la Richie!), via a inquadrature che inseguono l’ anello lanciato in aria da Giannini.
Via al niente.
Già perché Richie non è in grado.
Adriano non è in grado (per quanto sia il migliore del lotto!)
Madonna non è in grado (mamma mia se non è in grado!)
Nessuno è in grado in questo filmaccio ma allora perché rovinare una pellicola del genere?
Certo anche quella della Wertmuller aveva i suoi difetti (in primis una voglia di mostrare il proprio punto di vista politico troppo sfacciato) e metafore nascoste come un elefante potrebbe fare dietro un palo della luce ma nel complesso risultava un film più che buono.
Senza dubbio nel 2002 appariva un po’ invecchiato come film con tutti quei riferimenti alla Democrazia Cristiana e al “Partito” ma perché Richie?
Non lo si poteva lasciar in Inghilterra a dirigere le sue belle pellicole pulp- noir (perché male non sono come potete vedere dalle mie precedenti recensoni si “Lock e Stock” e “Snatch”)?
E Madonna non poteva rimanere a cantare le sue belle canzoncine (beh oddio anche qui ci sarebbe da dirne ma almeno un disco davvero bello nel pop glielo concedo.. magari un giorno lo recensirò pure!) ?
“Perchèèè? Ma soprattutto perchèèèèè?” si domandava un giorno un personaggio a “Mai dire gol”.
Me lo chiedo anch’ io.. e nel frattempo cerco di recuperare la memoria di un mitico Giannini che urla a Raffaella sull’ elicottero “Bottana industriale” !

TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO NELL’ AZZURRO MARE D’ AGOSTO
REGIA: Lina Wertmuller
ANNO: 1974
VOTO: 7/8

TRAVOLTI DAL DESTINO
REGIA: Guy Ritchie
ANNO: 2002
VOTO: 3—

GENERE: Drammatico (e di critica sociale l' originale)
CONSIGLIATI A CHI: Vuole vedere come non si fa un remake
QUANTO FA RIDERE GIANNINI CON TUTTI I SUOI BRONTOLII IN SICILIANO NELLA PRIMA PARTE DELL’ ORIGINALE: 10
QUANTO NON è IN GRADO SUO FIGLIO DI PARLARE SICILIANO: 10

domenica 18 novembre 2007

THE HEARTBREAK KID- LO SPACCACUORI



2 premesse se mi permettete:
- Mi sono rifiutato di riportare l’ orribile locandina italiana con il culo in vetrina acchiappa dodicenni
- Sotto di questa trovate la recensione dei Robinson che ho tenuto pochissimo in alto per la delusione che mi ha portato a scrivere questa recensione quindi dategli ancora un occhiata se volete.

Posso dirlo?
No?
Be lo dico lo stesso.
Che schifo!
Che cosa?
Ma questo film ovvio!
Praticamente costretto a vederlo per mancanza di altre pellicole (la scelta era tra questo, ginocchio Boldi e Beowulf) sono entrato in sala con poche speranze.
La paura di vedere l’ ennesimo film con Stiller che fa sempre le stesse facce e sempre le stesse scenette era davvero forte ma mi sono fatto coraggio insieme agli amici.
Mi son detto che così brutto non poteva essere.
Insomma sono i fratelli Farrelly e “Tutti pazzi per Mary” e sono politicamente scorretti e blablabla… basta!
E va bene: la storia è più che scontata perché si tratta della solita commedia rosa con uno che si innamora della persona sbagliata e poi capisce che la ragazza della sua vita è un'altra, ma questo ci sta… il genere vuole questo (oltre al fatto che si tratta di una sorta di remake del “Il rompicuori” quindi la colpa della storia non è tutta da imputare ai registi e sceneggiatori!)
Va bene anche che si creino equivoci di ogni tipo per cui Stiller si prende come al solito un sacco di botte e si fa un gran male fisico e morale ogni secondo… questo lo vuole il personaggio Stiller e le sceneggiature dei Farrelly.
Ammetto pure che le due ragazze (ma quanto è bella Michelle Monaghan?) e Jerry Stiller che interpreta il padre di Ben non se la cavano affatto male.
Però basta!
Ma certo la sala ride e anche a me ogni tanto la risata scappa ma su un 1 ora e 45, 45 minuti sono di silenzio angosciato e un po’ interdetto.
Ti viene l’ angoscia a vedere che fine farà quello sfigato di Stiller, se riuscirà a lasciare la moglie sbagliata per la donna della vita anche se lo sai come andrà a finire.
Ti viene l’ angoscia a rivederti magari in qualche scenetta, il marito (o il ragazzo) frustrato che si prende la colpa per ogni cosa e “si appiccica un sorriso falso sul volto per 40-50 anni fino alla morte” .
Ma soprattutto ti viene l’ angoscia per le bassezze di questo film.
In certe scene sembra di assistere all’ ennesimo film dei Vanzina: passi la scoreggia della moglie e passi anche l’ orribile ciuffetto dell’ amico di Stiller ma una che si tira giù le mutande facendola vedere a tutti e poi piscia sulla schiena di Eddie (Ben) no.
Va bene che sono andato a vedere un film dei Farrelly ma mamma mia che tristezza!
Dopo mezz’ ora io e il mio amico di fianco abbiamo cominciato a lanciarci occhiate storte ad ogni nuova terribile scenetta.
Dopo un’ ora è arrivata la frase tanto temuta: “Ma quanto manca alla fine di sta roba?”
Tanto.
Troppo.
Magari Stiller s’ è divertito ad interpretare finalmente un personaggio della sua età con tutti i suoi capelli bianchi ma qualcuno gli dica che fa sempre la stessa parte! Ma certo fa ridere la scenetta con i messicani che suonano e lui che gli dice di smetterla (anche nel trailer) però ogni volta sai già che faccia avrà quell’ uomo. Quell’ espressione un po’ frastornata con l’ occhietto mezzo abbassato e la faccia un po’ stupita. Ahah che ridere Ben. Però davvero non ne posso più!
Magari i Farrelly si sono divertiti a scrivere l’ ennesima commediuola senza sforzarsi troppo ma qualche idea un po’ originale non guasterebbe ogni tanto (se poi le 2-3 scenette migliori non finissero nel trailer sarebbe ancora meglio!) . Meno scoregge e un po’ più di intelligenza non guasta mai a nessuno.
Magari c’ è anche qualcuno che è uscito soddisfatto da questo filmetto: si è fatto le sue due buone risate su Stiller, sulla ragazza pazza, sui messicani stereotipati (che neanche i Vanzina) e su un finale col botto (una roba che neanche vi immaginate! Ma per favore!) ma io spendere 6, 50 per una cosa del genere mi girano anche un po’ se permettete!
Loro e il loro politically scorrect.
REGIA: Bobby e Peter Farrelly
ANNO: 2007
GENERE: Commedia sentimentale
VOTO: 5 (ah beh è sicuramente meglio di quello di Boldi senza averlo neanche visto e supera di pochissimo anche “2061: un anno eccezionale”.. ma non di molto lo ammetto.)
QUANTO SONO BASSI I MODI PER FAR RIDERE: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole gustarsi l’ ennesima commedia romantica un po’ amara (per tanto così vi consiglio assolutamente “Ti odio ti lascio ti…” molto più fresca di questa cosa trita e ritrita!) e le solite faccette del simpatico Ben (ti prego Ben stai perdendo tutta la mia stima smettila di girare certe oscenità! Anche “Una notte al museo” era più simpatico!)

sabato 17 novembre 2007

MEET THE ROBINSONS_ I ROBINSON- UNA FAMIGLIA SPAZIALE



Eccolo finalmente.
Quando tempo fa mi lamentavo nella recensione di “Basil l’ investigatopo” che di cartoni come quelli non se ne fanno più (come i vecchi lo so!) non avevo ancora visto questa pellicola.
Per cartoni animati come un tempo intendo quei piccoli gioiellini che puntavano semplicemente a far rimanere un bambino a bocca aperta di fronte alle meraviglie di un mondo fantastico o spaventato di fronte all’ ennesimo cattivone oscuro.
Non si interessavano agli adulti, non avevano doppi sensi che solo un maggiorenne (o comunque uno che ha più di 12- 14 anni) può comprendere, non cercavano di far ridere lo spettatore con scoreggie o bassezze simili.
Erano semplicemente delle bellissime favole per bambini.
Se la Disney anche con l’ avvento della Pixar e della computer graphic ha tentato di rimanere su questa lunghezza (si veda il bellissimo “Alla ricerca di Nemo” o il padre di tutta una generazione di nuovi cartoon quale è “Toy Story” ), la Dreamworks ha puntato tutto su un innalzamento dell’ età media per la visione dei suoi cartoni animati.
Ecco così spuntare Shrek (1, 2, 3, 1000!), Shark Tale e Madagascar pieni zeppi di riferimenti cinematografici e non e battute a doppio senso che solo un adulto può comprendere.
A seguire, come in un circolo vizioso, anche la Disney per non perdere terreno ha provato a fare la stessa cosa con “Gli incredibili”.
Sia chiaro: io non ho assolutamente nulla contro i cartoni della Dreamworks che, anzi, apprezzo molto ma resta il fatto che di cartoni per bambini ne rimangono ben pochi!
L’ ultimo fenomenale “Ratatouille” della Disney ha riportato la casa del Topolino più famoso del mondo sui suoi passi facendoci notare come una storia piuttosto semplice possa ancora conquistare i cuori di tutti noi adulti seriosi troppo presi dal folle ritmo della quotidianità.
Ma prima di Ratatouille e dopo Gli Incredibili e il mezzo flop di Cars c’è stato un film.
Una pellicola nata senza la collaborazione della fidata Pixar (la terza dopo “Chiken Little” e “Uno zoo in fuga”) che non è stata oggetto del solito tremendo battage mediatico che ti fa venir voglia di non andare più al cinema per sei mesi.
I robinson- Una famiglia spaziale nasce nel 2007 e si ricollega al filone delle pellicole adatte ai bambini.
La storia è quella di un bambino abbandonato in orfanotrofio che dopo 12 anni non è stato ancora adottato da nessuna famiglia a causa della sua mania per le invenzioni (che il 90% delle volte esplodono!)
Lewis condivide la camera con il piccolo e dolce Grufolo e la sua vita è destinata a cambiare con l’ arrivo dal futuro del coetaneo (o quasi, ha un anno in più) Wilbur che dice di venire dal futuro e lo incita a non arrendersi di fronte all’ ennesima invenzione “esplosiva” e per convincerlo della sua provenienza lo porta con se sulla macchina del tempo.
Da qui in poi il film si trasforma in un enorme sogno coloratissimo: macchine volanti, persone che viaggiano attraverso tubi trasparenti, i bizzarri famigliari di Wilbur (da ricordare assolutamente nonno Bud che non si capisce se si veste al contrario o si mette la testa al rovescio) e un nemico oscuro (l’ uomo con la bombetta) che non da pace ai due ragazzini.
Tra simpatiche gag confezionate appositamente per un pubblico molto piccolo (ad eccezione del piccolo riferimento a Tom Selleck in una scena!) e un piccolo- grande colpo di scena l’ ora e mezza della pellicola scorre via abbastanza velocemente anche se la prima parte un po’ macchinosa può far temere il peggio.
Insomma non ci troviamo di fronte ad un capolavoro (quale è “Ratatouille” a mio parere) ma “I Robinson” è senza dubbio una buona pellicolina.
Un passo indietro nel senso della ripresa di uno svolgimento a la vecchia maniera che rappresenta, a mio parere, un enorme passo in avanti per riportare i bambini al cinema senza che, all’ ennesima battuta a doppio senso di Shreck, rimangano con la bocca mezza spalancata ad interrogarsi se devono ridere perché lo fa il papà o se devono starsene zitti e buoni mentre tutti gli adulti si divertono al loro posto.
REGIA: Stephen J. Anderson
ANNO: 2007
GENERE: Animazione
VOTO: 7
QUANTO SOMIGLIA LA MAESTRA PAZZA A DORIS DI “ALLA RICERCA DI NEMO”: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole tornare un po’ bambino e non pretende di assistere a chissà quale capolavoro

venerdì 16 novembre 2007

GRASS: A NATION' S BATTLE FOR LIFE


BY DEN

“ Ma volevo citarti un altro film di Schoedsack (sempre in collaborazione con Cooper), che forse conosci già; è un bellissimo documentario del 1925 "Grass: A Nation's Battle for Life" ”
Da un commento su “La pericolosa partita" di Luciano.

Sono partito da qui per la scoperta di questo documentario.
Il mio progetto di analisi (la posso chiamare così o risulta troppo altezzoso?) delle opere di Merian Cooper e di Ernest Schoedsack e dei personaggi legati in qualche modo a “King Kong” prosegue quindi.
Dopo ”Il mondo perduto” , “La Pericolosa partita” , “King Kong” e “Il figlio di King Kong” eccomi qui.
A parlare dell’ opera prima di questi due fantastici matti che sono Cooper e Schoedsack.
Siamo nel 1925 e si tratta di un documentario questa volta: “Grass- A Nation’s Battle For Life” nella versione recuperata e restaurata nel 1991 dalla Milestone Film & Video.
Ora vi chiedo: “Secondo voi sono normale?”
Molti amici in questo periodo mi credono matto, vado a recuperare film assurdi e passi “King Kong” ma quando gli vado a dire che ho visto un film muto russo di fantascienza del 1924 (Aelita) li vedo.
Mi guardano strano, come a cercare quella scintilla di pazzia che tutti i matti hanno negli occhi.
E io da buon personaggio matto di Edgar Allan Poe vi dico che non sono assolutamente matto, solo i miei sensi sono troppo sviluppati.
No.
Semplicemente non resisto alla tentazione di andare sempre indietro.
Così come ho fatto con la musica mi interessa scoprire da dove è nato quel film, quel genere, quell’ effetto e finisco poi per concentrarmi su certi personaggi come Schoedsack e Cooper di cui cerco di scoprire di tutto e di più.
È inutile che fate quella faccia!
Ve l’ ho detto che non sono pazzo!
Se non ci credete sentite qui cosa sono andato a recuperare.
Grass- A nation’s battle for life (facciamo che d’ ora in poi lo chiamo solo Grass ok?) è, come detto, un documentario.
Anzi, “Grass” è IL documentario.
Datato 1925 e posteriore solo a “Nanuk l’ eschimese” (1922) da quanto ne so io (purtroppo non sono riuscito a recuperare questa pellicola, se voi ne sapete qualcosa ditemi pure!), il documentario realizzato da Schoedsack e Cooper con la partecipazione “attoriale” di Marguerite Harrison può essere diviso in due parti fondamentali.
La prima vede la ricerca da parte dei Nostri della cosiddetta “Forgotten people”, una tribù persiana che viene raggiunta grazie all’ aiuto di alcuni locali (la partenza è fissata ad Angora, in Turchia) attraverso villaggi caratteristici, deserti infiniti con annesse tempeste di sabbia e montagne nevose attraversate con cammelli arabi.
Cooper e Schoedsack (ci viene spiegato all’ inizio che il primo ha avuto l’ idea e il secondo l’ ha attuata) mettono subito in chiaro le loro intenzioni con le divertenti immagini di presentazione: non si tratta di un documentario alla Piero Angela per intenderci (contro cui non ho nulla, anzi).
Certo siamo nel 1925, i mezzi sono diversi e blablabla ma quello che vi voglio dire è un’ altra cosa: io da un documentario del 1925 mi aspettavo un certo rigore, una certa serietà.
Niente di tutto questo.
Quei due pazzi (e poi capirete perché continuo a indicarli come folli) non si prendono per niente sul serio.
O almeno, se lo fanno, non lo fanno pesare a nessuno.
Intervallano scene maestose di attraversamenti montani a piccole battute come quella sui poliziotti arabi nel deserto: si inquadra la stazione di polizia e si spiega che qui si combattono i predoni del deserto e subito dopo la scritta ci dice che comunque si tratta di una stazione di polizia qualunque dove si fanno le cose che la polizia fa in tutto il resto del mondo.
L’ inquadratura successiva vede due poliziotti seduti a terra a giocare a uno strano gioco da tavola!
I Nostri ci mostrano con poche immagini uno stile di vita che nessuno (credo) si immagina neanche nell’ America del 1925.
Ci fanno vedere un uomo del loro gruppo che, dotato di un fucile anteguerra (di quelli che si caricano con un solo pallino e la polvere da sparo per intenderci) si nasconde dietro a una sorta di aquilone (un pezzo di stoffa romboidale) per avvicinarsi sempre più a un camoscio sulla cima di un dirupo per poi sparagli.
Schoedsack e Cooper sembrano quasi scusarsi con gli spettatori quando ci dicono che quell’ uccisione non è per sport (in qualche modo criticano la nostra società) ma per sopravvivere.
Ma la parte davvero interessante deve ancora venire.
Dopo 20 minuti circa i nostri riescono finalmente a raggiungere il popolo dimenticato e mentre ci spiegano come sia possibile ritornare alle nostre origini proseguendo verso Est come se si stesse sfogliano un libro al contrario partendo dall’ ultimo capitolo (la nostra società), la seconda parte ha inizio.
La seconda parte mette in scena il viaggio di 48 giorni effettuato dai nostri insieme alla tribù dei Baktyari (ma questo nome ci viene svelato solo alla fine).
Dapprima ci vengono presentati i componenti della tribù durante la loro vita quotidiana: si tratta di una popolazione nomade che vive ancora grazie alla caccia e agli allevamenti di mucche, cavalli, capre, pecore e chi più ne ha più ne metta.
Il capo è Haidar Khan mentre suo figlio Lufta rappresenta in sostanza il suo aiuto e il suo diretto successore.
L’ addio al pascolo che ha ormai esaurito le sue risorse è praticamente immediato (avviene la mattina successiva all’ arrivo di Cooper e Schoedsack) e se ci si è stupiti vedendo cosa hanno dovuto affrontare i nostri per raggiungere la gente dimenticata, ora ci sarà da spaventarsi.
Ore di cammino portano al primo dei tre grandi ostacoli che i nostri dovranno superare per raggiungere le fertili terre dell’ Iran.
Il fiume Karun.
Un corso d’ acqua molto largo e profondo e dalle forti correnti.
“Il rumore di 50000 esseri viventi in movimento” ci avvertono Schoedsack e Cooper e vediamo arrivare una marea nera sulle sponde del fiume.
Senza barche, canotti o qualsiasi cosa vi possa venire in mente utile ad attraversare un fiume vediamo queste persone costruire con le pelli di capra delle zattere per portare gli animali sulla sponda opposta.
Ma se questo può sembrare quasi possibile, quello che viene dopo è tanto reale quanto spaventoso : migliaia di persone si gettano nel fiume dalle acque gelate e a nuoto contro corrente trasportando pecore e capre sulle spalle, con bambini legati in vita con cibarie in mano lottano fino al raggiungimento della meta prestabilita.
15-20 minuti di pellicola sono utilizzati per raccontarci del maestoso attraversamento e proprio mentre sei li che tiri il fiato per loro dopo aver visto centinaia di persona trasportate dalla corrente per centinaia di metri stai già osservando una montagna dalle pareti quasi lisce e li vedi rimettersi capretti in spalla, li vedi spingere a mano i cavalli, li vedi prendere i tori per le corna per farli salire e pensi che finalmente dietro la cima vedranno la loro terra promessa.
Niente di tutto questo.
Il viaggio prosegue senza soste e ci troviamo all’ ultimo immenso ostacolo, “Il nemico più grande”: il monte Zardeh Kuh, 12000 piedi di neve e ghiaccio.
E mentre pensi che ora si girano e tornano indietro perché nessuna popolazione di 50000 esseri umani e mezzo milione di animali può attraversare un luogo del genere li vedi togliersi le scarpe (delle semplici fasciature di tela) e incamminarsi sulla neve.
Scalzi.
Provi freddo persino tu a vederli li e quando poi noti che hanno delle piccole vanghe in mano ti chiedi cosa vogliano farci.
Scavano.
I primi del gruppo scavano un passaggio a zig zag che tutta la tribù seguirà.
50000 persone che salgono una montagna ghiacciata e la discendono come se fosse la cosa più normale del mondo.
Le terre promesse li aspettano e tu pensi a quei due pazzi di Cooper e Schoedsack.
Te li immagini con le loro telecamere abnormi (siamo nel 1925 non dimentichiamolo) ad attraversare il fiume ghiacciato, a salire le ripide pareti della montagna, ad attraversare chilometri di neve.
Te li immagini mentre salgono sul punto più alto per filmare i 50000 esseri viventi che si muovono, te li immagini mentre discutono sul dove posizionare la telecamera per dare quell’ idea di grandezza, maestosità ed epicità che contraddistingue un viaggio quanto mai straordinario.
Te li immagini in sala montaggio mentre aggiungono le parole alle loro riprese.
Quei “beeeee, beeeee, beee” che ci sbattono sul muso inquadrando una pecora legata che attraversa il Karun.
Quel “Brrrrr” tremolante che accompagna la prima visione degli uomini scalzi sulla neve.
Te li immagini mentre 8 anni dopo pensano e realizzano "King Kong" e pensi che dopotutto nel 1933 non si sforzarono poi molto in confronto al lontano 1925, pensi a Fay Wray e ti viene in mente Marguerite Harrison, pensi alle popolazioni indigene dell’ isola di Kong e ti viene in mente la tribù dei Baktyari, pensi alla montagna in cui Kong porta la sua bella e ti viene in mente Zardeh Kuh
Va bene io sarò pazzo se volete, ma Schoedsack e Cooper sono da manicomio!

((Un grazie particolare a Luciano che mi ha fatto scoprire una perla che mi stavo per perdere)

REGIA: Ernest Schoedsack, Merian Cooper
ANNO: 1925
GENERE: documentario
VOTO: 10 (e non è un 10 regalato credetemi)
QUANTO DOVEVANO ESSERE FOLLI ALL’ EPOCA SCHOEDSACK E COOPER PER AVERE UN’ IDEA DEL GENERE: 10
CONSIGLIATO A CHI: vuole vedere un documentario davvero favoloso in tutti i sensi possibili

mercoledì 14 novembre 2007

ELIZABETH- THE GOLDEN AGE


BY LEO

Tanto per cominciare in quarta, lo spettatore dietro di me, durante la visione del film in sala, russava della grossa.
Tanto per continuare in salita, all’uscita, nessuno dei partecipanti ha osato dire nulla sulla riuscita di questa pellicola.
Perché sinceramente è un film veramente brutto, esempio per l’esercizio di stile nel riconoscere i film pessimi a naso, memorandum per le volte a venire. Prego che il regista vada immantinente in pensione, perché tediare ed abusare dell’intelligenza della gente in questo campo deve essere da oggi considerato alla stregua dei reati contro l’umanità (ritengo essere peggiore della “cura Ludovico”).
Inghilterra, 1558. La regina Elisabetta (un’eterea Cate Blanchett) deve affrontare il problema del numero ancora alto di cattolici nel paese, da poco entrato a far parte del protestantesimo. Questo perché i lealisti cattolici sostengono Maria Stuart (o Stuarda), detenuta in Scozia dalla regina inglese, e potrebbero fioccare attentati contro la regale persona di Sua Maestà Elisabetta I.
Essenzialmente più che un problema religioso si tratta di solita routine politica europea.
Ma il regista ce lo presenta come uno scontro di religione pazzesco e di dimensioni pan-globali, senza che vengano spiegate le differenza tra anglicani protestanti e cattolici (ma forse perché il protestantesimo anglosassone ancora differisce non troppo dal cattolicesimo, ricevendo difatti la sua forma attuale solo nel XVII secolo...).
All’uccisione della Stuart, insorge Filippo II re di Spagna, il figlio di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, detentore di un regno che si estendeva fino al Nuovo Mondo, dalla Borgogna alle Fiandre, dalle terre austriache alla Spagna.
Peccato che il figlio di cotanto padre, ch’ebbe in regno la penisola iberica e i territori del Nuovo Mondo ispanico, venga liquidato in un paio di sequenze come un mezzo imbecille, dedito più alla monomania religiosa, paranoide del cattolicesimo più oltranzista, nonché politicamente miope, che alla salute del regno.
Ricordiamo che la Spagna era lo stato più potente dell’epoca: allora, il primo dubbio mi sfiora...ma che Bignami ha consultato il regista??
Ma perché ho studiato anni di Storia all’università per beccarmi queste immonde schifezze al cinema??
Comunque, essendo il film cominciato da relativamente poco, vado avanti spavaldo, ridendo in faccia ai primi pedissequi dubbi storici.
Ma quando inizia una storiella d’amore ridicolmente tratteggiata tra Sir Walter Raleigh (colui che portò il tabacco in Europa, ricordato persino in “The Continuing Story Of Bungalow Bill” dei Beatles, del 1968, “...and of course Sir Walter Raleigh he was such a stupid git...”), con una Elisabetta I paranoide nei confronti del sesso tanto quanto Filippo lo è nei confronti della religione, la quale punisce gelosa la protetta per essere rimasta incinta del prode Raleigh (interpretato da un piattissimo Clive “King Arthur” Owen), beh, gli occhi mi cadono in bocca, e il sonno devastato dalla noia mi appesantisce le membra.
La recitazione è vergognosa: al confronto, i cartoni animati della Russia sovietica erano da Oscar.
Ho ancora un tiepido sussulto prima della morte cerebrale: dopo quasi due orette, gli ambasciatori avvertono che Filippo II prepara l’invasione dell’Inghilterra, a causa dell’uccisione della cattolica Maria (ma perché nei film storici gli ambasciatori gironzolano sempre liberi per palazzi e castelli e, quando dopo aver tramato alle spalle dei re, PER CASO incontrano per i corridoi le Altezze Reali, non fanno altro che lanciare insulti e gridare “alla guerra!”??? Qualcuno dica ai registi che questa è la politica di oggi, ma che fin dall’epoca dei Greci e dei Romani, la diplomazia era regolata da codici e costituzioni...).
Che i Cattolici siano interpretati da attori brutti, che appaiono più brutti dei Protestanti, stupidi, beceri, ottusi, ignoranti, totalitaristi, terroristi e anche un po’ stronzi, non mi va.
Per una semplice ragione: non era così. Ma su questo torneremo tra poco.
Per ora concludo dicendo che c’è ancora tempo perché si svolga una battaglia tra le veloci navi corsare inglesi e l’enorme Invencible Armada degli Spagnoli (non vi dico come finisce, tanto è in tutti i libri e i sussidiari di Storia, descritta meglio del film!), un appello insignificante e insipido di Elisabetta I al popolo inglese, in blando stile Giovanna d’Arco, un monito finale di quest’ ultima agli spettatori, tipo Papa: “Sono la Regina Vergine. Sono la vostra Regina. Che Iddio mi aiuti a sostenere questa enorme libertà”.
Fine.
Per sfortuna, non così presto come avrei desiderato.
La mia noia non è mai stata così felice e non vede l’ora di rivederlo in dvd, aspettando con ansia le prossime esaltanti uscite del regista.
Ora, il regista è indiano.
Venne declamato al tempo dell’uscita al festival di Roma come un buon esempio di integrazione globale, e poi fa molto gossip e inutile/stupido servizio da Italia1, il regista indiano che si cimenta bene con la storia europea.
Mi venne un dubbio: ma cosa sapranno della storia europea i giornalisti del suddetto canale televisivo? (Nulla, ovvio). E cosa saprà mai combinare un regista così con questo soggetto? (Nulla, ovvio).
Bene. Le mie previsioni erano corrette.
La banalità del film si staglia ampia come un gonfalone spagnolo al largo delle coste inglesi.
Scene ridicole che appaiono stupidamente lunghe. Una scena in cui il bagno della regina, con lei a mollo nella tinozza, pare essere più un bagno nobile del Bengala che una stanza regale con arredo inglese del XVI secolo.
Un’atmosfera da Bolliwood che assolutamente risalta e risulta fuori luogo.
Scene che paiono strappate a forza dalla BhagavadGita che da un libro di storia redatto nell’Inghilterra d’allora.
Insomma, c’è un vivo senso di anacronismo storico. Come se il regista abbia trasposto -malamente e a casaccio- temi ed immagini da una sensibilità indiana. Esempio: una nave incendiaria inglese viene lanciata a forza contro un galeone spagnolo. Questo prende fuoco, devastato dalle fiamme. Un cavallo bianco scalcia. Il cavallo salta fuori dalla barca in una scena al rallentatore, con tanto di magna musica e tamburi d’orchestra. Lo rivediamo una decina di minuti dopo, mentre infuria la battaglia, nuotare felice verso le coste inglese...MA CHE COSA MI RAPPRESENTA QUESTA SCENA, PIAZZATA Lì SENZA CAPO Né CODA?!?!?!?
Questo è un tipico esempio di ciò che dicevo prima, cioè di stilemi culturali altri incollati senza spiegazione nel film in questione.
Vorrei conoscere i consulenti storici del film, per condannarli a vedere musical in lingua hindi per il resto della loro vita (contro i quali non ho nulla da dire, sia chiaro). Se questo è un esempio del cinema d’integrazione globale, tra le culture del mondo, beh, è evidente che questo obiettivo è fallito miseramente, e che è meglio evitare i film girati secondo queste prospettive.
Ultima questione: la guerra di religione. I cattolici sono dipinti come fanatici, le frasi nel film secondo cui “sulle navi spagnole arriverà l’Inquisizione!”, “Non ci sarà più libertà, quando arriveranno gli Spagnoli!!”, e spauracchi agitati senza senso farciscono la visione dell’inutile e pretenzioso film.
Mancava solo “Mangia la minestra, altrimenti arriva l’Uomo Nero che ti prende e ti porta via lontano!”
Credo di aver capito il punto di vista (malato!) del regista: ha trasposto fedelmente l’arrivo, nel XVII secolo, della dinastia Moghul in India, di religione musulmana, dando vita all’India che conosciamo oggi, alla creazione della quale contribuì pure l’Inghilterra dell’800: puritana, sessualmente bloccata, tradizionale e arroccata sulla difesa delle proprie tradizioni più conservatrici. Insomma, soffocando la sperimentata libertà di pensiero e sessuale/morale che vigevano da tempo immemore nel subcontinete indiano, di religione hindu (e ci sarebbe molto da dire a livello di decostruzionismo per tutta l’immagine assolutamente falsata ed edulcorata che l’Occidente ha della vita in India, glorificata come esempio di libertà. Ma tanto basti per ora).
Peccato che qui non c’entri ASSOLUTAMENTE NULLA. Peccato che qui si tratti dell’Europa del XVI secolo. Peccato che la Spagna di Filippo II non fosse così scellerata. Peccato che i Protestanti non fossero così lungimiranti ed esenti da ogni macchia, anzi. Tutt’altro. Ma non sprecherò altre parole per descrivere e correggere il film.
Non vi dirò cose del tipo “Ma perché in questo dannato film in costume i luoghi e le chiese dove hanno girato le scene sembrano antichi di 3/4 secoli, quando all’epoca dovevano essere nuovi, e ben curati? Perché in una scena si vede addirittura la grata metallica di scolo (moderna) all’interno di una chiesa?? Ma perchè un dizionario del cinema notissimo (no stavolta non è il Morandini!) ha ignobilmente dato 1 pallino e 1/2 ad “Alexander” di Oliver Stone, un voto pari ad “Alien vs. Predator, e il secondo ne esce meglio del primo?????????????????????????? (No, Deneil, stai calmo! Mantieni la calma!) etc...etc...etc...
Se volete sprecare alcune ore della vostra vita invano, andate a vedere i Vanzina. Almeno non hanno pretese e sono più onesti (No, non scherzo).
Ah, c’è anche Geoffrey Rush, forse il migliore del lotto, nel ruolo di Sir Francis Walsingham; ma in costume è senz’altro meglio come Barbossa di “Pirati dei Carabi”. E questa la dice lunga.
Se siete interessati alla vicenda, guardatevi “Il favorito della grande regina” del 1955, con Bette Davis, è di gran lunga più corretto di questo giocattolone circense.
P.S.1: Non posso esimermi dal far notare che quando Sir Raleigh entrò a corte Elisabetta aveva circa una sessantina d’anni...ma evidentemente la giornalista che parlò così bene del film non sapeva fare i conti senza la calcolatrice... Ma che fine ha fatto la flotta fiamminga del Duca di Parma, al servizio di Filippo II??!? Beh, non pretendiamo troppo da questo filmetto.
P.S.2: “Alexander”è uno dei migliori film storici in assoluto, e certamente la migliore ricostruzione della vita di Alessandro Magno. Non per altro il regista (O. Stone) s’è avvalso di Robin Lane Fox, autore della migliore monografia su Alessandro il Grande mai uscita (edita in Italia da Einaudi). Ma tornerò in seguito sulla questione, con una scheda apposita.
Per ora torno ai cartoni animati di “Ghost In the Shell” (questo sì un capolavoro di integrazione culturale tra Oriente ed Occidente, tra filosofia, azione, alchimia, e tecnologia), per consolarmi di quest’ ”americanata” (leggi: stupidaggine angusta ed inutilmente becera) di “Elizabeth. The Golden Age”. Quale fosse l’età dell’oro, in un film così brutto, ancora non l’ho capito.
P.S.3: Se volete dare un’occhiata agli errori del film di Kapur, leggete un libro di Storia moderna, uno qualunque, purchè recente, vedrete con i vostri occhi le castronerie demenziali del film...fosse almeno recitato bene...In ogni caso c’è sempre Wikipedia. Fate una scheda excel con i 10-15 punti principali della Storia d’Inghilterra dell’epoca. Organizzate poi visioni a premi del film in questione. Invitate a casa gli amici dopo cena e cercateli tutti: chi ne trova di più vince una retrospettiva completa del regista. Con il commento entusiasta di mio e di Deneil (spero come sottotitoli del film, in tempo reale!)
P.S.4: L’ultima nota, lo giuro...Sembra che lo stesso regista, non pago dello scempio perpetrato ai danni dei poveri avventori di cinema, stia lavorando alla Trilogia della Fondazione di Asimov (NOOOOOOOOOOOOOOO! Sarà una porcheria! Qualcuno lo fermi!) e al terzo capitolo della vita di Elisabetta I d’Inghilterra, dopo il primo capitolo del 1998 (altro polpettone zeppo di magagne ed errori, appena migliore, va comunque detto, di quest’ultimo) e quest’ultimo indegno episodio (altro polpettone zeppo di magagne ed errori, appena migliore, va comunque detto, di quest’ultimo).

REGIA: SHEKHAR KAPUR
ANNO: 2007
GENERE: Storia, dramma, amore (mah)
VOTO: 2--
CONSIGLIATO A CHI: soffre d’insonnia. Ricetta consigliatami dall’ignaro spettatore russante dietro di me: una cena bella pesante, niente tè e caffè, una bella tazzona di camomilla, e il film di Kapur. Risultato garantito.
QUANTO E’ BRAVO CLIVE OWEN A RECITARE TUTTE LE EMOZIONI DEL FILM CON LA STESSA FACCIA IMBELLE: 10++