martedì 27 ottobre 2015

SULLA (PRESUNTA) FORZA DEL CAMBIAMENTO

 
Quando a 16 anni mi avvicinai lentamente al rock degli anni '90 mi colpirono due gruppi in particolare: Oasis e Blur.
Non che fosse una cosa strana, all'epoca il mondo, l'Italia, la provincia si divideva (abbastanza assurdamente a pensarci ora) tra i fan dei fratelli Gallagher e quelli di Damon Albarn e Co. (sisi Graham Coxon è importante e blablabla, chissenefrega, un giorno ne parleremo).
Lo dico subito: io parteggiavo per i Blur.
Mi sembravano più freschi e innovativi e, al di là delle varie scopiazzature dei Gallagher (all'epoca era un miracolo se conoscevo i Beatles), mi sembrava soprattutto che Damon Albarn avesse il coraggio di cambiare.
Insomma, per quanto non ne capissi veramente un cazzo, 13 pareva un album di un gruppo completamente diverso da quello di The Great Escape (che all'epoca adoravo) e in Think Tank il mutamento era ancora più accentuato.
Amavo i gruppi che non si ripetevano mai (quel pazzo di Neil Young è ancora oggi uno dei miei idoli) e gli Oasis erano l'esatto opposto.
Ascoltato il primo incredibile Definitely Maybe mi sembrava di sentire sempre le stesse 10-12 canzoni: voce strascicata, chitarroni, ballatoni...due palle che in Be Here Now duravano più di 70 minuti, decisamente troppo.
Poi crebbi (ah il passato remoto che torna a galla quando leggi autori toscani...), la faida Blur-Oasis si spense abbastanza velocemente così come era stata montata dalla stampa britannica e io cominciai ad ascoltare tutt'altro, fregandomene altamente dello scioglimento o quasi di entrambi i gruppi, ma sempre attento a chi riusciva a non ripetersi.
Oggi, passati più di 10 anni, mi ritrovo a sentire per radio o nei miei raccoltoni di mp3 qualche canzone di Blur e Oasis e, pur con fastidio, devo ammettere che i classici degli Oasis sono invecchiati meglio di quelli dei Blur.
Si, il cambiamento, si, il coraggio di affrontare nuove sfide e la forza di ripresentarsi con un nuovo album in un'epoca che non è più la loro (l'ultimo The Magic Whip datato aprile 2015), ma Wonderwall rimarrà un classico senza tempo mentre Beetlebum può essere solo una canzone figlia degli anni '90.
Tutto questo sproloquio musicale-nostalgico per dire cosa?
Che forse Fabio Genovesi qualche limite come scrittore ce l'ha.
I suoi personaggi dalla parlata fin troppo semplice (in Esche vive era Fiorenzo, qui è Mario), quelli troppo attaccati al Rock (ancora Fiorenzo confrontato a Nello), quelli che finita l'università hanno perso completamente la bussola (là Tiziana, qui Renato) e quelli che, nonostante tutto l'autocontrollo imposto, vengono presi da passioni troppo forti (nuovamente Tiziana confrontata a Roberta). Gli incipit nostalgici ambientati in un passato che non è più e i finali non finali con i personaggi lasciati a correre da soli.
Ma io non ho più 16 anni e se tu scrittore hai uno stile immutato che ti permette di scrivere una nuova storia dove, cambiando l'ordine degli addendi, il risultato fantastico non cambia, beh, a me piaci comunque.
Basta che alla prossima non mi presenti un Be Here Now.

VERSILIA ROCK CITY
ANNO: 2008
AUTORE: Fabio Genovesi
GENERE: Romanzo di formazione (senza adolescenti)
VOTO: 8,5


martedì 6 ottobre 2015

SCIENTIFICITÀ E UMORISMO DI MERDA



Ho visto qualsiasi cazzata nei film di fantascienza.
Dagli alieni cattivi a quelli buoni, dagli asteroidi che vengono fatti saltare per aria da personaggi eroici a quelli che mettono finalmente fine alla vita sulla Terra, dai cloni alle navicelle impazzite, dai viaggi nel tempo a quelli nello spazio oltre la velocità della luce, dagli alieni che cambiano sesso a quelli che cambiano forma e blablablabla.
Potrei andare avanti per ore ad annoiarvi di vaccate fantascientifiche che non stanno né in cielo né in Terra, di idee assurde che nessuna persona sana di mente avrebbe partorito e a cui comunque sono stato dietro, sforzandomi di calarmi nell'irrealtà della situazione pur di gustarmi quel film (o quel libro).
Non ho mai fatto caso più di tanto alla provata scientificità di una vicenda perché per me non è quella a rendere importante una storia di fantascienza. Per quale motivo avrebbero aggiunto il suffisso fanta? Dove sta la fantasia in un libro di Arthur C. Clarke in cui ad ogni minimo spostamento nello spazio-tempo ci si affanna a spiegare come sia potuto scientificamente accadere? E soprattutto: a cosa serve la sospensione dell'incredulità?
Date le premesse di cui sopra, The Martian non avrebbe dovuto piacermi.
E invece.
E invece mi ha fatto letteralmente cagare.
Presentato come uno dei film fantascientifici più rigorosamente scientifici degli ultimi anni, con budget faraonico, regista delle grandi occasioni (nonostante Scott sia bollito da troppi anni a questa parte e chi non ci crede si guardi Exodus- Dei e Re e stia zitto per sempre) e cast di tutto rispetto, The Martian parte subito con il botto con una scena iniziale che fa davvero sperare per il meglio.
C'è adrenalina, c'è una grande fotografia e una scena vagamente confusa in cui si capisce ben poco di cosa sta esattamente accadendo a chi, ma è tutto voluto. Dopo la partenza della navicella da Marte (siamo nei primissimi minuti) la vicenda comincia davvero a delinearsi e, incredibile a dirsi, si cominciano a vedere le prime crepe: i personaggi sulla Terra.
Non c'è uomo non astronauta in questo film di terra rossa e patate coltivate in modo biologico (ci arriveremo) che non vi sembrerà un'idiota o una macchietta: c'è il supermegacapo della Nasa col tono profondo di voce che decide tutto lui, ma si fa mettere i piedi in testa da chiunque, c'è Boromir che per una volta non muore perché proprio non gli è possibile morire mentre non fa nulla per tutto il film, c'è un giappu-americano ciccione che dà sempre i tempi di consegna del suo lavoro come se fosse un italiano, viene quindi ripreso dal capo e si corregge dicendo che ce la farà anche nella metà della metà del tempo perché tanto evidentemente ha licenziato gli italiani e ha assunto dei cinesi che lavorano giorno e notte, c'è una donna bionda che sta al computer e nota cose sugli schermi (solo lei in mezzo a centinaia di altri subumani di cui si vedono solo i capelli) e un nero a cui è riuscito bene il ruolo dello schiavo un paio d'anni fa e non si sa come si è ritrovato qui a fare il direttore della missione su Marte che però, ancora troppo preso dal ruolo dello schiavo, si diverte ad avere illuminazioni e scarabocchiare quadri del pianeta rosso che trova in giro per gli uffici.













E L'Oscar per chi sta meglio seduto con la bocca aperta va a....

E poi c'è lui: il nero simpatico.
Quello che se fossimo stati negli anni '80 di sicuro ci trovavi Eddie Murphy a ridere come un semo, ma siccome siamo nel 2015 e ai neri simpatici nei film non ci crede più neanche Eddy Murphy stesso, ci hanno messo uno qualsiasi di cui non voglio neanche andare a vedere il nome, lo chiameremo nero simpatico.
Si da il caso che da qualche anno a questa parte vadano di moda i nerd, non che abbia qualcosa in contrario per carità, io lo sono fin troppo, ma la cosa sembra ormai un po' sfuggita di mano: dalla moda alle serie tv tutto è simpaticamente ed insopportabilmente nerd.
Quindi il nero simpatico è anche nerd, ma essendo un nero simpatico è anche strafatto (di caffeina o altro, non lo sapremo mai con esattezza) e alla prima occasione lo vediamo entrare in scena come i peggiori personaggi dei più brutti film di fantascienza anni '90 che vi vengono in mente. Il nero simpatico dorme, inciampa, si mette al computer, beve il caffè, finisce il caffè, vuole altro caffè, inciampa di nuovo, cade, si mette al supercomputerone della Nasa che è proprio proprio grande grande e con un portatile risolve un problema incredibile che migliaia di Nasisti erano ormai con le cervella fuse a forza di ragionarci. Non contento va dal capo che ha la voce sempre più grossa, lo piglia per il culo e con un bicchiere vuoto gli dimostra la sua grande teoria a cui nessuno è arrivato nel giro di mesi e mesi. Ovviamente tutto in simpatia tra versi insopportabili e scenette che neanche Benny Hill all'ospizio.


Oh si è nerd, guardate quanto è nerd quando si mette in piedi sul letto con la scala per andare a scarabocchiare là in alto! ed è pure scientifico, lo scrive pure... SCIENCE!


Ma ritorniamo su Marte.
A milioni di chilometri di distanza e a un'ora circa dalle vicende del nero simpatico (che grazie a Dio compare solo dopo la prima metà del film), dove ci sarà sempre e solo Matt Damon, un botanico astronauta della Nasa.
Un botanico.
Matt Damon si estrae del metallo dalla pancia e si cuce, Matt Damon mangia e ragiona, Matt Damon disseppelisce vecchie navicelle spaziali, Matt Damon costruisce cose, Matt Damon guida, caga e dorme, Matt Damon ha le intuizioni e Matt Damon crea l'acqua. Poi non contento Matt Damon trova delle patate sottovuoto lasciate lì per il giorno del Ringraziamento (boh...), le pianta, ci mette della cacca umana liofilizzata come concime e le fa crescere.
Nel frattempo Matt Damon (lo chiameremo d'ora in poi McGyver perché mi sembra più giusto) ascolta dell'orrenda discomusic e non si perde mai d'animo nemmeno nelle sfighe più tremende, arrivando ad urlare per ben tre volte “God” quando qualcosa andrà talmente storto da esser ormai più di là che di qua.
Quindi Santo McGyver si riprende dalla batosta perché lui è un vero americano intelligente che risolve tutto con il suo megacervello (altro che computer Nasa e neri simpatici) e riesce, con una superdieta a base di caccapatate e medicine come condimento, ad andare avanti ancora per un'altra ora di film.
E gli astronauti ex compagni di Mc? No, non me li sono dimenticati.
Gli amici stronzi che lo hanno abbandonato per sbaglio hanno una parte fondamentale nel film e incredibilmente paiono anche i personaggi meglio scritti dell'intera sceneggiatura: parlano come persone dotate di un cervello, si muovono senza inciampare e ragionano quasi normalmente. Tolto un momento di follia generale in cui la canzone Starman di David Bowie dà il via ad una serie di scenette dementi riguardanti l'intero cast (mi vedo anche Scott divertito mentre si mangia le caccole nascondendosi dietro la camera mentre a me viene un ictus per la rabbia), i loro rimangono i momenti migliori di un film che fa della scientificità e dell'umorismo di merda il suo punto forte.
Non mancheranno poi:
  • personaggi dalla voce profonda che dicono guardando in camera: “a meno che qualcosa non vada storto”, cambio scena e disastro totale;
  • Computer con lo schermo spesso mezzo metro al servizio della Nasa;
  • Michael Peña, insopportabile anche se interpretasse un personaggio muto;
  • Cinesi con segreti militari che, dopo 10 secondi di indecisione, ostentano il loro “volemose bene” come neanche la Ferilli quando pubblicizza i divani;
  • finali con gente che vola come Iron Man.
The Martian vorrebbe mettere l'intelligenza umana e il ragionamento davanti a quel coraggio e quell'eroismo insano alla base di tutti i capisaldi della fantascienza degli anni '90 (Indipendence Day, tanto per dirne uno) e finisce per sembrare invece un Armageddon fuori tempo massimo, con situazioni e personaggi tipicamente Novantiani che fanno da sfondo a un McGyver dello spazio, come non se ne vedevano da S.O.S. Naufragio nello spazio del 1964.
E insomma si, The Martian mi ha fatto veramente cagare.
E il problema è che non ho nemmeno le patate da coltivare.
 




THE MARTIAN – SOPRAVVISSUTO_THE MARTIAN
REGIA: Ridley Scott
ANNO: 2015
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4,5