mercoledì 3 novembre 2010

EAT, PRAY, LOVE- MANGIA PREGA AMA

Con questa recensione ho iniziato (ormai un mese e mezzo fa) la collaborazione con il sito persinsala per cui scrivo recensioni cinematografiche e seguo qualche festival.
Qui potete trovare la medesima recensione sul sito e cliccando sul mio nome in alto a destra (daniele bellavia, casomai qualcuno cercasse di cliccare su 21 settembre 2010...) tutto ciò che scriverò per il sito!
Ogni tanto pubblicherò anche qui le recensioni, ma per averle..diciamo in anteprima..sarà meglio seguire persinsala.
Sperando che qualcuno mi segua in questa nuova avventura eccola qui la recensione del nuovo film con la donna dai 76 denti: Juuuuulia Roberts!
A voi!

PUBBLICATO SU PERSINSALA


Ci sono film in cui tutto è perfetto: il soggetto è qualcosa di eccezionalmente valido ed originale, la sceneggiatura è scritta in modo invidiabile, il regista e la sua troupe non sbagliano un inquadratura e gli attori sembrano nati per recitare quella parte.
Mangia, prega, ama NON fa parte di questa categoria tanto quanto Hot Movie non fa ridere, It non fa paura e Australia non emoziona.
Il nuovo film con la superdiva Roberts è la più classica delle opere buttate al vento, come solo gli americani sanno fare.
Prendono un soggetto, qualsiasi esso sia, e dopo averlo girato e rigirato in padella, impanato e pastellato lo servono sul piatto crudo, ma con un sacco di condimenti.
Ci mettono lo sceneggiatore-regista promessa che ha fatto il botto con le serie tv (Nip/Tuck e Glee), gli attoroni Hollywoodiani con cachet stellari e Oscar in tasca e le location più affascinanti al mondo.
Il film, quello vero, quello fatto di attori che recitano una sceneggiatura ben scritta, ripresi da un regista che non usa la telecamera per girare uno spot tv è poi lasciato lì, in attesa che il vento se lo porti via.
Ad un’introduzione che sembra promettere bene, nonostante l’ex Pretty Woman sfoggi una bocca se possibile ancor più grande del solito (siamo ormai al 60% del viso occupato dalle sue labbra e dai 56 denti), seguono tre parti assolutamente non convincenti.
Liz (Julia Roberts appunto), alla ricerca di un suo equilibrio interiore, divorzia dal marito e, dopo una breve storia con un giovanotto meditativo (moralina sui baby fidanzati tanto di moda oggi), parte alla ricerca di se stessa in un giro per il mondo di un anno, prima tappa: Italia.
Spaghetti, case fatiscenti, romanacci che sparlano, frasi latine da scrivere sul diario delle medie, traffico, bar intasati di folle impazzite che urlano per un caffè, napoletani, pizze margherite, panni appesi tra le vie, gente che gesticola manco fosse sordomuta, famiglie della Mulino bianco riunite a mangiare la pasta, suore che si gustano un gelato in piazza davanti ad una fontana, monumenti grandiosi e dulcis in fundo una bella partita di calcio al bar con persone che si abbracciano e baciano al goal della squadra di casa.
Siamo al culmine dello stereotipo e Ryan Murphy (regista e sceneggiatore) me lo vedo a disperarsi per non essere riuscito ad infilarci un mafiosetto con lo stuzzicadenti in bocca.
In compenso le scenette sul cibo sono tante e sempre più esasperate con primi piani abbacinanti di formaggio grattato che cade come neve sugli spaghetti (??) e olio che scivola leggiadro sugli asparagi (???) fino ad arrivare alla tavola illuminata dai raggi del sole obliqui, come se dovesse scendervi Cristo da un momento all’altro.
Altro che Barilla.
Giusto il tempo di vedere la Roberts che ingrassa (ovvero non gli entrano i pantaloni anche se nessuno la può vedere ingrassata con il teschio che si ritrova al posto del viso) e siamo in India.
Il mio collega recensore indiano, a questo punto, metterà giù la lista degli stereotipi sul suo paese, che io non sto neanche a fare, mentre l’americano si vedrà dipinto come il solito texano sgrezzo (e in cerca di redenzione) che da consigli fondamentali ad una persona in difficoltà.
La seconda parte, quella del “prega”, del perdono di se stessi, è la peggio riuscita: tra tagli senza motivo e personaggi-macchiette che parlano come fumetti (sempre l’americano che continua a chiamare Liz “mandibola” come se facesse ridere per 20 minuti) ci si ritrova ormai senza speranza pronti all’ultima parte.
L’ “ama”, ambientato a Bali, riesce fortunatamente a risollevare un poco il giudizio generale.
È vero che lo sciamano sembra il maestro del primo Karate Kid ma Javier Bardem, nel ruolo di un brasiliano che parla genovese, non se la cava male e la sceneggiatura sembra concedergli qualcosa in più rispetto a tutti gli altri personaggi appena abbozzati che popolano questo film buttato al vento.
Ovviamente, senza star a rivelare un finale che diventa scontato fin dalla seconda parte, l’equilibrio interiore di Liz verrà trovato nell’ammore, nonostante i primi 20 minuti vogliano convincerci che la protagonista cerchi qualcosa di molto più profondo di una simpatica storia con un compagno più simile a lei.
Lasciando perdere un doppiaggio italiano imbarazzante (la ragazza indiana parla come una sdentata, lo sciamano come un cinese nei film degli anni ’80 e di Bardem ho già detto), ringrazio il cielo che i titolisti non si siano sbizzarriti un’altra volta con qualche titolo delirante del tipo: “Un piatto di spaghetti, l’India e l’ammmore”, non mi sarei stupito comunque, ci tengo a dirlo.
Insomma, non si fosse capito, Mangia, prega, ama non è un bel film.
In mezzo a tanti difetti di sceneggiatura, regia (a tratti davvero fastidiosa e senza nessuna sensibilità) e attori sbagliati (la Roberts con quel sorrisone non centra nulla con il personaggio oltre a sembrare fintamente naturale per tutta la pellicola e Bardem, per quanto bravo, sembra un’imitazione di se stesso nelle ultime pellicole) ci sono anche buone cose come la colonna sonora con brani di Eddie Vedder e Neil Young e certi discorsi che Liz esprime con voce fuori campo ma, senza nemmeno aver letto il libro, si ha l’impressione che questi siano semplici brani estrapolati dallo scritto.
Rimane poco se non pochissimo: una buona idea scarabocchiata su un foglio di carta, pasticciata fino a renderla abbastanza lunga da sembrare un film e poi buttata in mano a persone che, non sapendo che farsene, l’hanno fatta diventare la solita commedia sentimentale americana.
Brutta.

REGIA: Ryan Murphy
GENERE: commedia romantica
ANNO: 2010
VOTO: 5- 

PUBBLICATO SU PERSINSALA

domenica 29 agosto 2010

LAW ABIDING CITIZEN- GIUSTIZIA PRIVATA



Ci sono film peggiori dei film semplicemente brutti.
Solitamente metto in questa prestigiosa categoria quelle cose immonde chiamate film inutili: pago il biglietto, entro in sala, lo vedo, dico "carino...", mi siedo a prendere una Coca Cola, ricordo cosa diceva la Pimpa nel libretto che leggevo a 5 anni ma non cosa succedeva 10 minuti prima sullo schermo.
Alzheimer? Potrebbe anche essere.
Eppure esiste qualcosa che sta ancora più in basso dell'inutile.
Sono i film con il finale buttato nel cesso.
Ho un idea buona per un lungometraggio,cerco un produttore senza trovarlo (e qualche dubbio dovrebbe venirmi data la quantità di porcate prodotte in America), cerco un regista e un cast ma mentre finisco di scrivere la sceneggiatura vengo colto da diarrea fulminante, per cui scrivo il finale da 10 pagine in tre righe fitte fitte su un pezzo di carta igienica.
Praticamente: ci sono Jamie Foxx con la sua attaccatura disegnata col righello e le squadrette e Gerard Butler che fa, al solito, lo Stallone de noartri con gli occhioni lucidi o duri a seconda della necessità e un po' di bocca storta- sogghigno- sorriso che non fa mai male.
A Gerardo Buttero uccidono la moglie e la bimba e lui non la prende tanto bene perchè la giustizia fa schifo e la Volpe che fa l'avvocato permette il patteggiamento a uno dei due assassini.
Tale Kurt Wimmer (sceneggiatore e regista di capolavori quali Equilibrium e Ultraviolet) sembra un genio della scopiazzatura senza citazione di fonti, così mette giù l'ennesima storia di vendetta  personale vista e stravista che neanche le pubblicità della Findus.
Ma Kurt per un'ora e mezza sa farsi voler bene, non risparmia nessuno e anzi sembra provare un certo sadismo e far morire gente che effettivamente non centra un cazzo nella faccenda e magari sa anche recitare a differenza di moglie e figlia di Foxx, reduci da "L'albero azzurro, posto felice, l'albero azzurro posto di amici".
Poi il dramma.
Lo sceneggiatore-  produttore (che se ci fosse stato un vero produttore qualche calcio nel culo glielo avrebbe dato almeno) viene attaccato dal misterioso virus intestinale.
"Succederà qualcosa di biblico", è l'ultima frase nella sceneggiatura scritta da un uomo ancora sano di mente.
E tu ti aspetti qualcosa di veramente mai visto, qualcosa di eccezionale.
Certo, alcuni segnali c'erano già: il sindaco si comporta come un demente mettendo il coprifuoco all'intera città perchè sono morti sei avvocati e la famiglia di Ray Charles pare quella del mulino Bianco ma per il resto tutto scorre quasi alla perfezione.
Ultimi 10 minuti: per gli ultimi 600 secondi il buon Kurt mette su carta qualcosa che osceno è dir poco.
Vorrei poter scrivere cosa succede ma per quel poco buon gusto che mi è rimasto non lo farò.
Confido che chi, come me, ha visto tutto ciò per davvero su uno schermo del cinema lo dimentichi al più presto e lo sostituisca con il finale che tutti, e dico veramente tutti, avrebbero voluto.
Quindi voi, che ancora non avete visto tale scempio fate una cosa.
Andate a vedere "giustizia privata" e all'ora e 35 uscite dalla sala e immaginatevi il vostro finale perfetto: state tranquilli non sarà sicuramente quello scarabocchiato sulla carta igienica da Kurt Wimmer.
Lui e il suo violoncello.
Io un idea per dove metterglielo in una scena dopo i titoli di coda ce l'ho.
Che anch'io voglio la mia giustizia privata.

REGIA: F. Gary Gray
GENERE: triller
ANNO: 2010
VOTO: 4

lunedì 9 agosto 2010

LE MIE PIù PROFONDE SCUSE (OVVERO COME IL MIO PC MORì...)

C'era un tempo in cui scrivevo su questo blog almeno due-tre volte la settimana, era il tempo in cui sulla Terra uomini e I-phone convivevano ancora pacificamente, i primi semplicemente tenevano sotto il loro giogo i pochi secondi mentre la maggioranza delle persone ancora preferiva avere sotto mano un Nokia senza nessuna pretesa di toucchabilità.
Oggi gli I-phone si stanno ribellando, pretendono improbabili code di esaltati da servizio di Studio Aperto davanti agli Apple Store e vogliono essere presi solo in determinati modi, pena il rifiuto di funzionare.
Il mio pc è un adepto degli I-phone ma con qualche annetto in più, un po' come quegli anziani barbuti presenti a Woodstock che si facevano le canne e ballavano nudi dentro una pozzanghera con i ventenni.
Ecco, immaginatelo così, un povero pc ormai rincoglionito e strafatto che da più di un mese si rifiuta di accendersi nonostante accorati appelli da più parti del globo terracqueo.
Per questo non riesco a scrivere nonostante i milioni di film visti, libri letti, cd ascoltati.
Il pc di mio padre, da cui scrivo ora, sembra ancora all'insaputa della ribellione del suo simile ma non ci vorrà molto.
Io cercherò di recuperare tutte le mie recensioni e scrivervi ancora ma non so per quanto riuscirò a fuggire, la macchinetta del caffè sembra già guardarmi in cagnesco.
La fine è vicina.
Fate attenzione.

sabato 15 maggio 2010

UN LIBRO UN FILM & ORIGINAL AND REMAKE

Questa è la classica recensione- follia mastodontica che nessuno leggerà mai me ne rendo conto e lo capisco, il motivo che mi spinge a scrivere e pubblicare certe cose ancora non mi è chiaro, per un mio ordine mentale forse, o forse no, sono semplicemente matto.

WHO GOES THERE- LA COSA DA UN ALTRO MONDO
THE THING FROM ANOTHER WORLD- LA COSA DA UN ALTRO MONDO
THE THING- LA COSA

Ci sono due leggi che dominano il cinema da sempre:
- La trasposizione su pellicola di un libro letto, al 99% è una delusione;
- Il remake di un film visto, al 99% è una delusione.
Non si scappa.
Non è importante l’anno, il genere, il regista o l’autore del libro, la delusione vi attende, sempre pronta a colpirvi girato l’angolo, appena vi scorderete di una delle due regole.
Io non le dimentico mai, anzi, mi piace prenderle di petto: le mie sole risorse nell’affrontarle sono la pazienza e la voglia di farmi stupire mentre loro continuano a colpire basso, con trucchetti di bassa lega (attori di grande richiamo per il pubblico più giovane) e artiglieria pesante (effetti speciali strabordanti).
Il 99% delle volte vengo sconfitto brutalmente da trasposizioni orride e remake senza motivo di esistere, al punto da chiedermi in ogni occasione perché..ma soprattutto peeerchè?
Effettivamente non ho ancora trovato una risposta, se non quell’1% di probabilità di successo, capace di darmi immense soddisfazioni.
In questi giorni ho riportato due grandi vittorie e una sconfitta cocente.
Non voglio aggiungere nulla riguardo quest’ultima, vi basti quel che ho scritto alcuni post fa riguardo “La notte dei morti viventi” di Tom savini.
Mi soffermo piuttosto sulle due vittorie, ancor più clamorose se penso che vengono entrambe da un'unica pellicola, remake di una vecchia trasposizione.

Ciò da cui tutto ha avuto inizio è il romanzo breve (o racconto lungo, un giorno qualcuno mi spiegherà la differenza) di John W. Campbell Junior, “Who goes there”, trovato (mi riferisco ovviamente alla mia esperienza) in un libro pubblicato nel 1977 dalla Fanucci dal titolo omonimo, che raccoglie alcuni dei suoi racconti migliori (qui sopra la copertina).
Considerato uno dei padri della fantascienza moderna per aver diretto per anni una delle riviste americane di fantascienza più famose e aver scoperto gente del calibro di Asimov o Heinlein, Campbell è oggi poco considerato in Italia per i suoi scritti.
Vi basti una breve ricerca su internet alla ricerca di qualche ristampa recente delle sue opere: vi troverete di fronte al nulla.
Sicuramente scorgerete qualcosa che riguarda la sua “Cosa da un altro mondo”, ma per il resto dovrete rivolgervi ai buoni vecchi Urania usati, abbondanti su bancarelle o Libracci vari.
é un peccato.
Mentre fioriscono ristampe su ristampe di autori come Asimov (nulla da dire sull’opera, ma i libri della Fondazione si trovano in trilogia, quadrilogia o separati in tre edizioni diverse) o Heinlein (l’unico libro letto, Starship Troopers, non è niente di eccezionale), Campbell viene abbandonato alle edizioni degli anni ’60 e ’70, considerato antiquato per il pubblico di oggi.
Ingiustamente.
Sto andando fuori tema, lo so, (il giovane Holden ne sarebbe entusiasta) ora cercherò di rientrare sui binari prestabiliti, ma se vi piace la fantascienza e non avete letto ancora nulla di questo autore procuratevi almeno racconti come “Crepuscolo”, “Notte”, o “Il pianeta del silenzio”, pensate agli anni in cui furono scritti, e domandatevi quanti geniali idee contenevano questi brevi e densi racconti.

Dunque “Who goes There” o, come è meglio conosciuto, “La cosa da un altro mondo”.
Mi sembra onesto mettere subito in chiaro che non si tratta del migliore racconto presente nella raccolta anche se, senza dubbio, è quello con una più forte componente horror, e quindi quello più appetibile per il pubblico adolescenziale dei drive-in degli anni ’50, lo stesso che seguirà, pochi anni più tardi, le storie incredibili raccontate, tra gli altri, da Jack Arnold.
Il cinema sci-fi ha bisogno (un tempo per forza di cose e oggi ormai solo per abitudine) di tensione e di una storia piena di azione. “La cosa” di Campbell si prestava bene al gioco della trasposizione, certamente più di un racconto come “Crepuscolo” che oggi, con i mezzi tecnici a disposizione, potrebbe essere messo su schermo ma che non interesserà mai, probabilmente, a nessuno per la mancanza dell’ormai onnipresente azione (a meno di adottare la soluzione “I robot”, come fatto per Asimov).
Senza stare a perdersi in una trama più che conosciuta, passo al film di Niby, o, più precisamente, di Hawks come risultava già assodato pochi anni dopo la sua uscita: la mano esperta e il fatto che Niby, dopo un film notevole come questo, sia sparito praticamente nel nulla, la dice lunga sull’intervento pesante del regista di “Un dollaro d’onore”, qui ufficialmente solo produttore.
Il film “La cosa da un altro mondo”, uscito nel 1951, è un film importante.
È uno dei primi sci-fi degli anni ‘50, come vengono definiti oggi, e quindi costruisce topoi che verranno riutilizzati in seguito milioni di volte, ma è allo stesso tempo in grado di distruggerli non essendone imprigionato.
Un esempio ne è il confronto uomini di scienza- militari, sempre presente in questo genere di film: lo scienziato (biologo, etologo, geologo e quanti ologhi vi vengono in mente) è sempre chi rimane affascinato dall’evento che accade (alieno invasore, torri che si alzano dal nulla, formiche giganti) e vuole capirlo, mentre il militare è chi, per il bene della popolazione, risolve il problema distruggendo l’ imprevisto.
In “La cosa da un altro mondo” non accade diversamente, se non che lo scienziato (solitamente nel giusto, dato che la minaccia diventa tale solo dopo l’attacco dei soldati) è qui tanto dedito alla scienza da passare noncurante sopra le vite degli uomini, mentre i militari si vedono costretti a ricorrere alle armi per fermare il pericolo imminente.
Il film di Hawks, come molti nel suo genere, viene accusato oggi di essere un’ allegoria del pericolo d’oltrecortina in cui la Cosa rappresenta il nemico Rosso infiltrato ma, a dir la verità, il paragone sembra forzato rispetto a film come “Assalto alla terra”.
Il mostro del film, a differenza di quello del libro di cui parlerò a breve, è, secondo gli stessi protagonisti, un carotone intelligente ad un livello che l’uomo non può comprendere.
La Cosa ha sembianze umane, è vero, ma è tanto disumano quanto quel Michael Myers a cui John Carpenter pensò parecchi anni più tardi nel suo “Halloween” ispirandosi (almeno per quanto riguarda l’immagine esterna) a questo indistruttibile gigante senza volto.

Carpenter con il suo “The thing”, nel 1982, da vita al remake di una vita.
Il regista devoto di Hawks (“Distretto 13: le brigate della morte” si rifa a "Un dollaro d’onore") e del suo “The thing from outer space” (numerose le citazioni in Halloween ma non solo) nel suo periodo di maggior successo commerciale, con un budget di tutto rispetto, ha il via libera per un remake di cui si parlava ormai fin dalla metà degli anni ’60 (già nel ’62 si vociferava di un remake ad opera di George Pal che poi non si fece per mancanza di fondi).
“La cosa” di Carpenter non è la stanca riproposizione del film di Hawks con una spruzzata di effetti speciali e una bella fotografia patinata, perché il regista di “Halloween” e “1997 fuga da New York” decide di usare le nuove tecnologie per ridare finalmente a chi di proprietà quell’opera: John W. Campbell.
Qualche anno più tardi gli U2 in " Rattle and Hum" compiranno un’ operazione simile, riportando, con un interpretazione fantastica di Bono, Helter Skelter nelle mani dei Beatles dopo decenni in cui era divenuta semplicemente LA canzone di Charles Manson e della sua…
Ma sto vagando per campi fin troppo aperti.
Cominciamo a riannodare i fili di tutto il discorso.
“The thing” è infedele al film di Niby e Hawks tanto quanto quest’ultimo lo era nei confronti del racconto da cui tutto è nato.
Quello che Campbell descriveva come un mostro in grado di prendere sembianze umane e canine a suo piacimento, venne trasformato da Hawks nel gigante invincibile di cui si è parlato prima, così come i protagonisti del libro vennero sostituiti da personaggi più consoni al genere di film che si voleva creare: spuntò una fanciulla dal nulla, il bel capitano a proteggerla e uno scienziato talmente folle da voler letteralmente coltivare la creatura scesa dal cielo.
Carpenter, grazie a effetti speciali davvero ben riusciti, ricreò, invece, la creatura multiforme e i protagonisti originali, riportando alla luce le vicende raccontate nel libro.
“The thing” però, nella sua infedeltà al film di Hawks, non vuole essere critico: Carpenter, anzi, omaggia continuamente la pellicola del ’51 e, a ben vedere, sembra quasi crearne un seguito; il cane che raggiunge la base americana è sfuggito ad una base in cui “La cosa” ha già mietuto le sue vittime e quando i protagonisti riguardano i filmati delle telecamere di sorveglianza per farsi un’idea di quel che è accaduto si rivede sullo schermo la famosa scena del ritrovamento del disco volante nel primo film in cui gli scienziati si mettono in cerchio per delimitare il perimetro dell’oggetto caduto dal cielo.
Il cane, a voler guardare bene, potrebbe essere uno di quelli infettati nel primo film di cui nessuno si era più accorto e il blocco ghiacciato, ritrovato nella base attaccata, ha esattamente la forma che aveva quello nel primo film.
Insomma Carpenter riesce a omaggiare Hawks pur essendogli infedele e a rendere moderno un racconto del 1938 pur essendogli fedele.
In tutto questo rimandare e rifarsi ad altri, il regista riesce comunque a fare de “La cosa” un film marchiato a fuoco con il suo nome: Kurt Russel, al massimo della sua forma, è splendente nell’interpretazione dell’eroe solitario carpenteriano e le citazioni che Carpenter sparge per tutto il film (una su tutte quella, ancora dopo Dark Star, da “2001: odissea nello spazio” in cui i due protagonisti si rifugiano sullo spazzaneve come gli astronauti facevano sul modulo di salvataggio) sono, come al solito, Carpenter 100%.
Una regia attenta al minimo dettaglio (da manuale l’incipit con il cane che fugge nella landa desolata ripresa dall’alto) e un finale tanto epocale quanto lo era stato quello del film di Hawks (“Tutti voi che ascoltate la mia voce, dite al mondo, ditelo a tutti dovunque si trovino: attenzione al cielo, dovunque, scrutate il cielo!”) rendono “La cosa” il remake-trasposizione perfetto.
Quello che, una volta su cento, mi fa gridare alla vittoria.
L’insuccesso economico a cui andò incontro la pellicola, dovuto forse a una differenza troppo abissale con il film di Hawks, preso come modello a discapito del racconto di Campbell, la dice lunga sull’ incomprensione della grandezza di un regista come Carpenter che, dopo questo film, si vide nuovamente costretto a lavorare con budget ridicoli per creare, comunque, ancora grandi cult.
Verrà il giorno, ne sono cosciente oggi più che mai, in cui qualcuno penserà ad un bel remake del film di Carpenter, un ottimo remake di un remake (“La cosa”), di una trasposizione (il film di Hawks), con qualche bell’attorucolo tirato fuori da qualche serie tv (vedi remake di “The Fog”) e qualche regista incapace accompagnato da uno sceneggiatore della stessa risma (vedi remake di “Distretto 13”).
Sarà il giorno in cui, ancora una volta, perderò la mia battaglia personale.
Non la guerra.
Quella è ancora molto lunga.
“E allora Mac?”
“Allora niente”.

GENERE: Fantascienza
VOTO RACCONTO DI CAMPBELL "WHO GOES THERE"  DEL 1938: 6,5
VOTO FILM "THE THING FROM ANOTHER WORLD" DI NIBY DEL 1951: 7
VOTO FILM "THE THING" DI CARPENTER DEL 1982: 9

mercoledì 28 aprile 2010

UN ANNO DI VISIONI: 2008- SETTIMA PARTE

31. Fist of the north star- legend of the true savior chapter of death for love_ Ken il guerriero- la leggenda di Hokuto



É Ken e per me non c’è oggettività con lui.
Eppure c’è qualcosa che non convince nell’insieme.
Forse aver compresso troppo (personaggi, storia, vicende così diverse) in così poco spazio fa perdere qual pathos che la serie anime originale indubbiamente aveva.
La morte di Shu (e tutte le vicende che vi sono legate) che rivista ancora oggi nella serie tv fa venire le lacrime agli occhi, qui appare fredda, quasi distaccata.
Ken al cinema però è un’ emozione.
REGIA: Takahiro Onimura
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: la Divina scuola di Hokuto contro la Sacra scuola di Nanto
CONSIGLIATO: si, se siete cresciuti con lui.
VOTO: 7

32.Get Smart_ Agente Smart- casino totale

Non mi ricordo niente.
Ma niente niente niente.
Forse ad un certo punto Steve Carrell veniva trascinato da un aereo su un carrello e faceva pure ridere, ma non ne sono sicuro.
Il fatto che mi ricordi “Un amore di testimone” più di questo non è un buon segno.
Per niente.
REGIA: Peter Segal
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: inutile?
CONSIGLIATO: si, se volete raccontarmi cosa succedeva.
VOTO:5 perché non mi ricordo nulla.

33.Funny Games

Violenza senza alcuna giustificazione in un film che angoscia e stuzzica lo spettatore fino a far diventar violento lui stesso nel momento in cui un telecomando porta indietro tutto.
L’originale non ho ancora avuto l’occasione di vederlo.
Ma quella faccia da schiaffi di Michael Pitt che praticamente non mi è mai piaciuto è perfetto nella parte.
REGIA: Michael Haneke
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: viuuuulenza!
CONSIGLIATO: si, ma senza bimbi potenzialmente psicopatici al seguito.
VOTO: 7

34. Hellboy 2: The Golden Army

Il miglior film puramente fantasy dell’anno.
E senza dubbio superiore a quel Batman che è si fantastico ma non fantasy e con cui comunque non ha nulla da spartire.
Guillermo Del Toro è un genio e questa ne è solo la conferma dopo la visione di quei tre semi e capolavori che sono “Cronos”(7-), “La spina del diavolo” (7,5), “Il labirinto del Fauno” (9) e quel filmetto che è “Mimic” (6, ma solo per l’apocalittica visione iniziale di bambini che muoiono per una strana epidemia).
Ed Hellboy è sicuramente il mio cinefumetto preferito.
REGIA: Guillermo Del Toro
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: Fantasy
CONSIGLIATO: Assolutamente si, anche solo per vedere cosa è capace di immaginare Del Toro.
VOTO: 8

35. Il cavaliere oscuro

A distanza di mesi rimane purtroppo secondo me un film semplicemente sopravvalutato.
È sicuramente migliore di tutta quel ciarpame venuto dopo Tim Burton (compreso Batman Begins) e senza dubbio porta il cinefumetto ad un livello di realtà superiore a quel che si è mai visto sullo schermo.
Heath Ledger e il tanto sospirato Oscar postumo è stato quasi meritatamente meritato.
Detto questo la Batmoto è ridicola (come tutto l’inseguimento mal realizzato) e sembra sempre di vedere un film che vuole prendersi sul serio ma piacere anche ai ragazzini riuscendo forse di più in questo secondo obbiettivo.
Felice per loro.
A me non ha convinto del tutto.
REGIA: Christopher Nolan
VISIONE: cinema (2 volte)
UNA PAROLA: Oscuro.
CONSIGLIATO: si, non c’è confronto con gli ultimi 3.
VOTO: 7

venerdì 2 aprile 2010

UN ANNO DI VISIONI: 2008- SESTA PARTE

26. Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo




Ne potete leggere di tutti i colori.
Provate a scrivere il titolo dell’ultimo Indiana su google e troverete un miliardo di recensioni circa che vanno dal “pura merda” a “Il ritorno in grande stile del vecchio Indy”.
Nessuno urla giustamente al capolavoro.
Ma rimane uno dei migliori titoli fantastici (di fantasia sia chiaro, sono dislessico ultimamente, ma non ai livelli di Nikki di Tropical Pizza…) dell’anno.
REGIA: Steven spielberg
VISIONE: cinema e dvd
UNA PAROLA: Indiana Jones!
CONSIGLIATO: assolutamente si!
VOTO: 8

27. Sex and the city



É Sex and The City.
Inutile incazzarsi se sembra di stare a vedere una sfilata di moda lunga due ore, tanti sono i cambi d’abito.
E dopo tanti anni è anche inutile chiedersi perché Sarah Jessica Parker è sempre vista come la scapolotta più figa di New York quando sappiamo tutti che una del genere, nella realtà, non se la filerebbe nessuno.
Poi c’è Mr Big, le amiche more (svampite), rosse (nevrotiche) e bionde (troioni da sbarco è troppo?) e le gag più o meno riuscite (compresa cacarella che fa tanto “Vacanze di natale”).
Rimane comunque un buon Sex and The City.
REGIA: Michael Patrick King
VISIONE: dvd
UNA PAROLA: modaiolo.
CONSIGLIATO: Si alle ragazze, ni ai ragazzi.
VOTO:7-

28. E venne il giorno




Adoro gli apocalittici.
E Shyamalan, di cui ho visto praticamente tutto, l’ho sempre ammirato.
Quindi capolavoro?
No.
“E venne il giorno” è quanto di più odioso e inguardabile un uomo possa trarre da una buona idea.
Wahlberg è inguardabile come nei tre quarti dei suoi film, Zooey Deschanel passa il tempo a strabuzzare gli occhi (molto meglio in “Yes man”) e Shyamalan scrive una sceneggiatura che andrebbe bene per pulirsi il culo se non fosse stampata su fogli di carta sicuramente troppo ruvidi.
E mi fermo qui perché sono un uomo fine.
REGIA: M. N.Shyamalan
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: irritante
CONSIGLIATO: si, se volete vedere come si rovina una buona idea.
VOTO: 3

29. Made of honor- Un amore di testimone


Commediola romantica (l’ennesima, ma quante ne producono all’anno?) con protagonista il dottore di quel dramma-commedia romantico-ospedaliera che è Grey’s Anatomy.
Senza arte ne parte.
Ne carne ne pesce.
Trovate voi qualche altro sinonimo.
Le Ebridi si risollevano un po’ dall’annacquamento generale in quanto isole (potete uccidermi se faccio un’altra battuta del genere).
REGIA: Paul Weiland
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: il solito.
CONSIGLIATO: per il disimpegno.
VOTO: 5,5

30. Wanted- Scegli il tuo destino




Forse il miglior film tamarro con una storia della stagione (per la tamarraggine più pura shootem' up non ha rivali) con una trama ben costruita e un regista con le palle.
A qualcuno forse faranno venire il mal di stomaco le zoomate, le accelerazioni e i ralenty improvvisi di Bekmambetov e alcune scene sono di una tamarraggine che forse solo Vin Diesel.
Eppure convince e colpisce.
Come una tastiera di un pc in piena faccia.
E Angelina Jolie è perfetta nella parte.
REGIA: T. Bekmambetov
VISIONE: cinema e dvd
UNA PAROLA: tamarro ma con una storia.
CONSIGLIATO: si
VOTO: 8

venerdì 26 marzo 2010

THE NIGHT OF THE LIVING DEAD- LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI (1990)

Dev’essere una particolarità tutta degli anni ’90 quella di generare remake incredibilmente inutili di capolavori degli anni 60.
Non tanto brutti, inguardabili, osceni e senza rispetto per l’originale.
Solo e semplicemente inutili.
Cominciamo da lontano: qualche anno fa un gruppo parecchio famoso, il cui leader se ne andava in giro bullandosi del suo cappellino rosso girato al contrario e dei suoi pantaloni a tre quarti, pensò bene di realizzare una cover di un vecchio pezzo degli Who.
Era alla fine dei suoi anni d’oro, siamo d’accordo.
Il tipo col cappellino rosso, superati ormai i 30 anni, pensò a lungo ad un metodo per liberarsi di quell’immagine da teenager numetallaro troppo cresciuto e comprese che l’unica alternativa alla trasformazione in vecchio emogay (linkin pork docet) era la composizione di un ballatone strappamutande da fattone grunge.
Ma tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, in questo caso quello dell'ispirazione: tale Fred non teneva conto che la sua (se mai ne avesse avuta una) era andata a farsi fottere a forza di motherfu%&er e sh%&t e c%&k e blablablafu%&er vari.
Pensò bene a quella cover quindi, Behind Blue Eyes degli Who.

Fosse stata una canzone sua, nessuno avrebbe avuto nulla da dire sulla riuscita del pezzo, ma di rifacimento si trattò e quindi di confronto si dovette parlare per forza di cose.
Cos’era e cos’è la Behind Blue Eyes dei Limp Bizkit rispetto all’originale degli Who, se non una versione acustica e tranciata di netto sul finale strumentale elettrico, rispetto all’originale?

Niente di più e, anzi, molto di meno.
È una versione scialba e senza mordente di una song (quanto fa gggiovane dirlo) che puntava a essere sicuramente molto più di una semplice ballata, proprio grazie a quel finale volutamente fuori posto.
È, in sostanza, una cover inutile.
Ora prendete tutta quest’immensa introduzione e mettete come termini di paragone l’originale Notte dei morti viventi di Romero e il remake di Tom Savini oppure, se il gioco vi diverte, l’originale Psycho e quello di Gus Van Sant.
Non voglio stare a ripetere nuovamente ciò che dissi per Psycho nella sua recensione e quel che ho appena scritto qui sopra per Behind Blue Eyes.
Semplicemente il film di Tom Savini è una pellicola totalmente inutile.
Si può discutere a lungo sulla pessima qualità degli attori rispetto all’originale, ma quel che più salta agli occhi è semplicemente la futilità di questo remake.
Savini non è Romero così come Van Sant non è Hitchcock, dovrebbe bastare questo.
Ma il mondo vuole delle spiegazioni per tali ignobili operazioni e si finisce così con lo spacciare come omaggi delle scopiazzature riuscite male, riproduzioni sbiadite di capolavori che sono tali per un amalgama di elementi difficile, se non impossibile, da ricreare.
Ha voglia il nuovo regista di indurire il carattere della protagonista, di cambiare di una virgola il finale e di anticipare quella presa di coscienza degli zombie che in Romero avverrà (rispetto all’originale “Notte dei morti viventi” ed era già avvenuta nel 1990) solo con “Zombi” e “Il giorno dei morti viventi”, ma il risultato non cambia.
I colori tolgono fascino alla storia originale, gli attori di pessimo livello certamente non aiutano e pensarla come una pellicola fortemente voluta da Romero per recuperare qualche soldo dalla perdita dei diritti dell’originale “Notte dei morti viventi” fa venire anche un po’ di tristezza, a dirla tutta.
Film inutile non come la maggior parte dei remake, ma come solo questi “omaggi” sanno fare, e che di certo non da lustro a quei vecchi morti che camminano Romeriani che già nel 1990 non impressionavano più di tanto: lenti, goffi e in più di un’occasione ridicoli (a chi protesta: “Ma ormai lo scopo di Romero non è più spaventare ma solo criticare attraverso queste figure”, dico semplicemente che nei primi due film della saga è già detto tutto).
Se già con “Il giorno dei morti viventi” il regista degli zombies aveva perso una buona occasione per smetterla con i suoi living dead, con questo remake, di cui si fa produttore e cosceneggiatore, non fa altro che cadere più in basso.
Passerà più di un decennio per rivedere Romero direttamente all’opera con le sue amate creature ciondolanti ne “La terra dei morti viventi”, un’ idea senza dubbio migliore ma realizzata, forse, nel peggiore dei modi.
È il caso di dire: “Lasciateli riposare in pace”?

GENERE: horror
ANNO: 1990
REGIA: Tom Savini
UNA PAROLA: Inutile e brutto
VOTO: 3,5

lunedì 15 marzo 2010

LA DOLCE VITA

A 24 anni vedo per la prima un film di Fellini e.
Mi vergogno.
Mi rendo conto di quanto sono indietro.
Mi prostro di fronte alla sua grandezza.
Mi rendo conto che non avrei nemmeno il diritto di scrivere queste due righe per quanto sono ignorante in materia.
Ma.
Mi piace l’idea di scrivere qualcosa su un Fellini che poco conosco, se non per qualche storiella sentita in qualche documentario sulla Rai.
Nessuna base su cui poggiare, nessuna conoscenza di stilemi vari ed eventuali del regista o dello sceneggiatore che ti fanno digerire un film per vie traverse, senza nemmeno volerlo.
Molto probabilmente un giorno, con maggior competenza in materia, mi stupirò delle castronerie che seguono ma, ora come ora, al massimo, sarete voi a stupirvi e insultarmi.
Suggerimento.
Sicuramente di fronte a film così grandi ognuno ha una propria visione dettata dalle proprie esperienze e dalle sue convinzioni.
Completamento.
E molto probabilmente ciò accade perché in tali opere sono contenuti più temi di quanti una persona sia disposta in un primo momento a percepire, senza tenere conto di visioni forzate che si allargano a macchia d’olio con il passare del tempo e l’accumularsi di conoscenze sullo specifico autore.
Via.
Senza dover stare a raccontare per filo e per segno ma nemmeno per solo filo la trama di “Una dolce vita” che ognuno può trovare sul sito che più gli aggrada, voglio concentrarmi su quello che mi ha trasmesso.
Una critica alla società, dura ma soprattutto profonda, come in pochi o forse nessun film mi è capitato di vedere.
Una critica di quella spettacolarizzazione lucrosa del nulla e del marcio che oggi regna incontrastata su tutto.
Quella che fa dei bambini visionari un evento mediatico di immensa portata, dove ognuno (padre, madre, zio, conoscente) interpreta il suo ruolo volente (“Quelli so’ i miei nipoti”) o nolente (“Si metta così, guardi di là”) solo per la gioia dei paparazzi (così chiamati da "La dolce vita" in poi persino da Lady Gaga) urlanti, scomposti e violenti e quindi della massa (urlante, scomposta e violenta).
Una spettacolarizzazione che butta nello stesso calderone attrici dalle forme prorompenti e dalla gioia di vivere incontenibile (se non con la violenza), a omicidi-suicidi tragici di personaggi illustri.
Una spettacolarizzazione così eccessiva, e in cui sguazza per comodità Marcello, che porta lo stesso a diventare, infine, oggetto di spettacolo triste e decadente in mezzo a povere piume lanciate dall’interno di un cuscino per l’uscita di scena.
E niente può salvarsi da una società così forte da trascinarsi in basso con le proprie mani.
Non importa che tu sia una diva del cinema al tuo massimo splendore, uno scrittore realizzato che vive "nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita" o un giornalista casanova che affascina e fa innamorare perdutamente.
È cemento fresco la società tutta.
E una volta dentro i piedi, il cemento si asciuga sopra ad un oceano senza fondo.
E si comincia a sprofondare sempre più giù, tanto più giù quanto più i piedi sono entrati a fondo in quel cemento fresco, fino al punto in cui non si vede più nulla.
Aristocratici tanto in basso da non riconoscersi più come tali, che non sanno dove dirigersi, dove sbattere la testa per riaccendere anche solo un piccolo lume che li guidi verso qualcosa o perlomeno li faccia divertire in quel nulla buio.
Il nulla.
Quello in cui Marcello, seguendo le orme del padre esperto di champagne e di donne ben prima di lui, entra con tutto se stesso al termine di un percorso inevitabile.
Dal Nord al centro del mondo.
Dallo scrittore in erba al paparazzo.
Dal paparazzo al centro del mondo al giornalista PER chi quel mondo lo dovrebbe guardare dall’alto e invece finisce per esserne completamente sommerso.
Esseri umani così sordi all’affetto vero di un'altra persona da baciarne una seconda mentre la prima dichiara il proprio amore, eppure incapaci di rinunciare alla prima abbandonandola e ritornandola a prendere continuamente su una strada in mezzo al niente in cui avrebbero paura di perdersi senza di questa.
Esseri umani che un tempo, quando erano bimbi, prendevano in giro tutti rincorrendo ridenti una visione della Madonna e salutavano con gioia quel signore una volta seduto alla sua macchina da scrivere e oggi arenato su una spiaggia come una manta ormai morta ma che insiste a rimanere con gli occhi aperti e a guardare.

REGIA: Federico fellini
GENERE: Commedia
ANNO: 1960
UNA PAROLA: Profondo
VOTO: 10

venerdì 5 marzo 2010

UN ANNO DI VISIONI: 2008- QUINTA PARTE

Un mese di pausa per i maledettissimi ultimi esami e si riprende...
Maledettissimi anticipa il libro appena letto e nelle prossime settimane recensito.

21. Step Up 2- The street_ Step Up2- La strada per il successo

Ehm…si…dunque…c’è questa ragazza a cui piace ballare.
E indovinate?
Realizzerà il suo sogno!
Tra mille difficoltà e imprevisti improbabili vari ma ce la farà.
Scaricatevi l’ultima scena di ballo e lasciate perdere tutto il resto.
Sono sicuro che anche il regista ha fatto così.
REGIA: John Chu
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: Ballo!
CONSIGLIATO: ehm…
VOTO: 5-

22. L'altra donna del Re

 Se volete vedere la Johansson con lo sguardo da maialino intorpidito, la Portman corrucciata e i muscoli di Eric Bana su una storiella tutto sommato apprezzabile bene.
Se invece cercate la vera storia di Enrico VIII compratevi pure una biografia e attendete che la smettano di girare “Troy” e company.
REGIA: Justin Chadwick
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: Storico?
CONSIGLIATO: ni.
VOTO: 6

23. The Darjeeling Limited- Il treno per il Darjeeling

Altro film, altra non recensione.
Si può scrivere di un film così colorato e surrealmente folle?
Wes Anderson ti lascia ancora una volta con la bocca semiaperta a fine pellicola mentre ti chiedi se sei tu che non lo capisci e se è lui che non vuole farsi capire.
È tutto eccessivo e stralunato eppure non così divertente come uno pensa possa esserlo.
O forse si?
Colonna sonora stupenda.
REGIA: Wes Anderson
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: stralunato.
CONSIGLIATO: si
VOTO: 7-

24. Saw IV

Già al terzo capitolo con maiali marci squartati sopra la testa di protagonisti senza nessun senso di esistere ci si chiedeva a cos’altro bisognava assistere per vomitare finalmente quei due popcorn che riuscivi a mandare giù prima di maciullamenti vari.
La risposta sta in questo quarto merdaviglioso capitolo.
Quel che più schifa non è nemmeno più il sangue, le budella, le teste che esplodono o chissà che altro.
Semplicemente pensi che nessun essere umano dotato di intelligenza avrebbe potuto scrivere una così immane cazzata.
E invece qualcuno c’è riuscito.
Mi dirigo verso il bagno.
REGIA: Darren Lynn Bousman
VISIONE: dvd
UNA PAROLA: orrore (non horror).
CONSIGLIATO: no
VOTO: 2

25. Notte brava a Las Vegas

Simpatica commedia non romantica con finalino straannunciato.
La differenza la fa il divertimento in mezzo.
REGIA: Tom vaughan
VISIONE: cinema
UNA PAROLA: caciarona.
CONSIGLIATO: perché no?
VOTO: 6,5

giovedì 28 gennaio 2010

UN LIBRO UN FILM_ STARSHIP TROOPERS

Leggermente preso dal periodo-esami ma così finisco il percorso su Starship Troopers.


Ci sarebbe da dividere questa recensione in due parti.

Quel che penso del libro a se stante.
Il libro di Robert A. Heinlein datato 1959 è esattamente il tomo di fantascienza che ti aspetti edito dalla Nord, quella simpatica casa editrice i cui libri si trovano a milioni negli scaffali della fantascienza usata solitamente di colore argentato o dorato (vengo a sapere ora che i volumi dorati sono i classici e quelli argentati i contemporanei).
Tomi (il cui autore non compare quasi mai sulla costa del libro per motivi a me oscuri) spesso illeggibili se non dannosi per l’intelligenza umana: avventure spaziali americane tipiche degli anni ’50 con eroi e cowboy spaziali che combattono contro creature improbabili ma sempre e comunque cattivissime per salvare una donna o un’intera nazione-pianeta-galassia.
Prendete Conan di Howard, un film di cowboy degli anni ’40, qualche futuribile e ridicola arma spaziale e metteteli in un bel frullatore: ecco un buon (???) libro dorato per la Nord.
Starship Troopers a queste caratteristiche fondamentali aggiunge un sottotesto di critica alla nostra società odierna, una critica ai metodi spesso troppo indulgenti verso i criminali e al cosiddetto diritto di voto universale portata avanti con argomenti validi che fanno pensare a un’ idea politica decisamente contrastante con quella dei nostri tempi.
Quel che Heinlein vuol far comprendere è che la sua società futura non è una società fintamente utopica come quella di Huxley ne “Il mondo nuovo” ma un serio progresso della democrazia dei nostri tempi.
Ora immaginatevi 350 pagine.
Di queste 350 pagine una cinquantina dedicate alla descrizione di questa società del futuro e alla sua politica e le restanti 300 da addestramenti (la parte più interessante) e infinite battaglie contro aracnidi e esseri oblunghi con descrizioni particolareggiate dei movimenti dell’esercito e delle decisioni spettanti ai comandanti, tenenti, sergenti, soldati semplici e così via.
Ora.
Al di là del fatto che per chi non ha mai avuto nozioni militari (e non si è mai interessato ad averne) è abbastanza delirante comprendere i vari gradi di comando e i vari schieramenti in battaglia, ci si può concentrare per 20 pagine sulla descrizione di una tuta potenziata usata per combattere?
Può anche essere stata un idea innovativa, geniale e ben sviluppata tanto da aggiudicarsi un premio Hugo nel ‘59 ma sinceramente oggi è qualcosa di quantomeno pesante se non ridicolo (si legga idea invecchiata male).
Sento che se leggessi un libro di cucina oggi non vorrei soffermarmi per 20 pagine sulla descrizione di una patata geneticamente modificata da usare in futuro per migliorare il mio riso con patate.
Poi magari, forse, molto probabilmente, nel futuro tutti useranno la patata geneticamente modificata per il loro riso con patate e ne tesseranno le lodi (di forma oblungamente perfetta, senza un baffo e deliziosa al palato) ma comunque si, sono noiosamente inutili queste avveniristiche 20 pagine sulla PGM.
Insomma il libro di Heinlein è sicuramente un libro ben scritto e su questo non si discute, che scorre via velocemente come nessun tomo della Nord è in grado di fare (almeno tra i letti) e presenta anche spunti interessanti su un’ ipotetica società militarizzata del futuro ma si ferma appunto a ottimi spunti che non vengono sviluppati a sufficienza rispetto ad una trama principale fatta di battaglie alla lunga frangipalle.
Quel che penso del libro rispetto al film.
Ho già parlato a lungo della trilogia di Starship Troopers cinematografica (di cui solo la prima pellicola si ispira esplicitamente al romanzo di Heinlein) quindi cercherò di non dilungarmi troppo concentrandomi giusto su pochissimi aspetti.
La società utopica di Heinlein è in Verhoeven una società falsamente utopica e il regista non fa altro che ripeterlo ossessivamente con i vari video di propaganda fascio-militare sparsi per tutto il film.
Sarà una lettura sballata di Verhoeven, sarà una volontaria rilettura, fatto sta che sembra davvero di stare di fronte a due società simili nei fatti ma opposte nell’idea che vogliono trasmettere.
Discorso diverso per l’esercito: se i fanti sono in entrambi i casi carne da macello, quello che Heinlein sottolinea più volte è il numero eccessivo di volontari che invece a Verhoeven non sembrano bastano mai.
L'esercito-bordello in cui uomini e donne si lavano e si strusciano insieme non era esattamente l’idea dello scrittore che fa della mancanza del sesso femminile una delle “malattie” di questi uomini superaddestrati.
Infine le tute potenziate.
Heinlein ne parla per 20 pagine approfonditamente, ne descrive ogni minuzia e durante ogni battaglia tiene a precisare come questa guerra del futuro sia molto diversa da quella di oggi grazie ad esse.
Va bene, Heinlein esagera nel descriverle e nel farle notare ad ogni possibile frangente ma a Verhoeven ste benedette tute potenziate cosa avranno fatto di male?
Forse nel ’97 non c’erano effetti visivi sufficienti, forse non gli sembravano importanti, forse semplicemente gli stavano in culo ma perché eliminarle del tutto dal film per poi farle comparire (in una versione moooolto personalizzata e tamarra) nel terzo film (di cui Verhoeven è produttore) che, se possibile, a livello visivo è ancora peggio?
Ruggeri cantava “Mistero!”
AUTORE: Robert A. Heinlein
ANNO: 1959
GENERE: Fantascienza
VOTO: 6,5
CONSIGLIATO: ai cultori della fantascienza più classica.

NOTA: Al momento di pubblicare controllando su internet scopro che il libro di Heinlein è stato pubblicato dalla Nord, non so se meravigliarmi della mia intuizione o rivalutare un poco la bistrattata Nord.

sabato 16 gennaio 2010

AVATAR

Finalmente.

C'è poco da dire.
3Damente parlando (così Cameron quando legge è contento se lo metto al primo posto) siamo a livelli improponibili rispetto al presente.
È come se 18 anni fa qualcuno avesse reso credibile un personaggio che si scioglieva e si ricreava come se nulla fosse.
Come se con 4 milioni di dollari e 36 giorni a disposizione sul finire degli anni ’80 potessi fare un film di fantascienza credibile.
Come se nel ’97 uno potesse ricreare un transatlantico in scala 1 a 1 spendendo 200 milioni di dollari e andare ancora in attivo di centinaia e centinaia di milioni dollari.
Ecco è un po’ una cosa così..
Non siamo al luna park, Cameron se ne sbatte di oggetti che ti vengono addosso e corse folli su carrellini da minatori, ti prende la testa e te la immerge in una vasca da cui non vorresti mai riemergere.
Si, graficamente parlando è una rivoluzione.
Storicamente parlando siamo sui livelli di un “Pocahontas”, “Battaglia per la terra”, “Braveheart” e chi più ne ha più ne metta.
Leggasi: uomo del popolo X che entra nel popolo Y per studiarlo e distruggerlo ma infine se ne innamora e comprende che il popolo bastardo è X, non Y.
No Cameron, non è assolutamente niente di nuovo, nemmeno il fatto che noi umani siamo alieni è innovativo (tanto per dirne uno recente “Placet 51”).
Si Cameron, è sempre una storia esaltante non posso darti torto.
Personaggisticamente parlando siamo dalle parti delle accette.
La dove i personaggi son tratteggiati col machete e persino il protagonista viene trascurato per far spazio a Pandora.
Pandoristicamente parlando: Sbav (Si veda Ratman per traduzione di sbav).
Fantascientificamente parlando: luce dei miei occhi.
Un “District 9” avrà una storia molto più innovativa, un “Terminator Salvation” sarà molto più apocalittico, Un “Il mondo dei replicanti” avrà un protagonista molto meglio tratteggiato ma un fan di fantascienza, fantasy e fantasia in generale non può che inginocchiarsi e sbavare ettolitri di bava fumante per tanto spettacolo chiuso in 2 e 40.
E ne vorresti ancora di più.
Vorresti vedere come vive il popolo del mare.
E quello delle pianure.
E scoprire ancora di più le montagne fluttuanti.
E esplorare tutta Pandora.
E cosa mangiano i Na’vi.
E qual è la loro storia.
E chi sono i loro antenati.
E com’è strutturata la loro famiglia.
E come vanno in bagno.
Ti prego Cameron.
Ancora.

REGIA: James Cameron
GENERE: fantascienza, fantasy.
ANNO: 2010
UNA PAROLA: portatevi un bavagliolo per la bava.
VOTO: 10-

venerdì 8 gennaio 2010

TRE CLASSICI UN MITO: STARSHIP TROOPERS

Due settimane di vacanza e si riprende...con un perdonabile giorno di ritardo.

STARSHIP TROOPERS: LA FANTERIA DELLO SPAZIO

STARSHIP TROOPERS 2: HERO OF THE FEDERATION- STARSHIP TROOPERS 2: GLI EROI DELLA FEDERAZIONE

STARSHIP TROOPERS 3: MARAUDER- STARSHIP TROOPERS 3: L’ARMA SEGRETA



A vedere certi film a volte ci si fa un torto.
Quelle pellicole con cui si è cresciuti, che si sono viste una o mille volte ma che inevitabilmente (e a volte inspiegabilmente) rimangono nella memoria.
Passano settimane.
Mesi.
Anni.
E ogni giorno il nostro simpatico cervelletto sovraccarico di immagini e ricordi di ogni genere si diverte a cancellare, ingigantire e reinventare particolari su particolari.
Io Starship Troopers lo ricordavo più o meno così: quel film che ci sono gli insettoni giganti su un pianeta e gli uomini vanno per ucciderli ma vengono tutti smembrati brutalmente.
Grossolanamente sarebbe anche accettabile come storiella da raccontare al bar il mattino dopo.
Non grossolanamente e rivedendolo almeno 8 anni dopo l’ultima volta si scoprono elementi più o meno incredibili per i miei ricordi annebbiati.
Innanzitutto Verhoeven regista, lo stesso malato di mente di quegli altri due cult visti e stravisti da bambino di nome Robocop (quello che lui all’inizio lo maciullavano e poi tornava mezzo robot e uccideva tutti e c’avevo anche il gioco dell’Amiga) e Atto di Forza (quello con Schwarzenegger che andava su marte e alla fine c’era la scena che lui si salvava con tutte le vene in testa che gli stavano per scoppiare e, particolare non trascurabile, una donna con tre tette).
In secondo luogo l’anno di uscita: il 1997, non così vecchio come pensavo.
Infine, cosa (forse) più importante, il film.
Quello con gli insettoni sul pianeta alieno che smembravano tutti si, ma soprattutto quello che nella prima ora ci mostra un futuro molto Robocopesco in cui scene di addestramento militare per la fanteria spaziale si alternano a folli slogan per il reclutamento sui fantomatici schermi delle tv del futuro.
Quello in cui a recitare sono chiamati i peggiori bellocci da Beverly Hills che Verhoeven potesse trovare sulla piazza e in cui gli effetti speciali (eccezion fatta per gli insettoni, mostruosi e credibili) sono al livello di uno Star Trek qualsiasi degli anni ’80.
Quello che a vederlo oggi è uno dei film di fantascienza più stranamente trash che si possano immaginare: con quei modelli e modelle che si aggirano per lo schermo con battute da film di serie C ed espressioni da telenovela nello spazio.
Ci sarebbe da ridere per ore ma Verhoeven mette qualcosa in quegli “spot- slogan” militareschi che inquieta.
O meglio.
È qualcosa che stona.
Quasi si volesse fare un film volutamente trash e pieno di messaggi fin troppo espliciti (qualcuno su internet ha il coraggio di parlare di sottili metafore… manca solo il faccione di Verhoeven che urla al pubblico quel che pensa dell’esercito e degli Usa in generale ed è un documentario di Michael Moore!) per prendere in giro a sua volta un modo di fare cinema (quello della fantascienza anni ’30 prima e anni ’80 poi) volgarmente americano.
Il dubbio che Verhoeven ci faccia o ci sia (da quel che ricordo ora di Robocop e Atto di Forza) rimane e forse si rafforza.
Quel che è certo è che Starship Troopers rimane un film sicuramente particolare nel suo genere, direi anche “difficilmente giudicabile” data l’assurda volontarietà di cadere nel ridicolo-spazzatura in ogni suo elemento.
Non ci vuole molto coraggio a dire che se fosse stato girato dalla Troma (dico Toxic Avenger ) e non voglio aggiungere altro) un film come questo sarebbe entrato di diritto nell’olimpo dei film caciaroni visibili solo in gruppo sotto l’effetto di troppo alcool.
Il fatto che sia stato girato da Verhoeven lo ha trasformato invece in un cult di (ormai) altri tempi in cui molti (compreso me stesso) sono sviati dal vedere qualcosa di così grossolanamente brutto e famoso e doverci cercare obbligatoriamente un significato nascosto o almeno una volontaria tendenza alla spazzatura.
Apro e chiudo una parentesi che tanto parentesi non è: il discorso fatto negli ultimi 2 capoversi è il simpatico sunto di quel che penso di molti film di registi ormai diventati intoccabili per una critica pecorona che non sa far altro che ripetersi e attorcigliarsi su se stessa in un elogio dei soliti noti. Tutto ciò, se proprio vogliamo ricordarlo, è anche il motivo per cui ho aperto questo blog.
Chiusa parentesi.
REGIA: Paul Verhoeven
ANNO: 1997
UNA PAROLA: Trash d'autore?
VOTO: 6,5



Uno degli elementi che differenzia maggiormente questo primo episodio dal secondo capitolo di cui ho scoperto l’esistenza solo un anno fa è proprio questo: Starship Troopers 2 non è trash.
Almeno non come il primo episodio.
E non ha gli attorucoli, non ha gli effettacci speciali (su questo molti su internet dissentono ma il dubbio che il loro sia solo attaccamento emotivo (e pecorone) per il primo capitolo è forte) e nemmeno un po’ di ambiguità.
Si farebbe prima a dire l’unica cosa in comune delle due pellicole per cui qualcuno quasi dieci anni dopo è riuscito a tirar su ancora qualche soldo sfruttando un marchio abbastanza famoso: gli insettoni.
Detto questo Starship Troopers 2 è tutt’altro.
A volerlo descrivere con tre parole si potrebbe dire Alien, Pitch Black e Tremors.
Alien: nell’ambientazione cupa e claustrofobia che la pellicola assume per tutta la sua durata e nel particolare tipo di insetto che infesterà questi ultimi uomini sopravvissuti.
Pitch Black: nei colori bui e oscuri e se vogliamo nel protagonista “fuorilegge” muscoloso e dalla voce ruvida (fa quasi impressione pensarlo poi in Desperate Housewifes nei panni del normalissimo maritino Karl Mayer).
Tremors: solo e soltanto nei radar che segnano l’avvicinamento degli insettoni.
Starship Troopers 2 è molto più classicamente sci-fi-horror di media categoria del suo predecessore: gli attori sono tutti più o meno buoni, la storia si fa più """"introspettiva"""" (meno battaglie a viso aperto e più momenti di mistero-tensione-riflessione) e nonostante alcune buone sorprese tutto si può ricondurre a qualcosa di già visto e stravisto.
REGIA: Phil Tippet
ANNO: 2004
UNA PAROLA: scontato
VOTO: 6


Infine Starship Troopers 3.
Quel che più incuriosisce di questo terzo capitolo è la ripresa della storia dalla fine del primo, come se il secondo episodio non fosse mai esistito.
Sarebbe anche quasi lecito (non è sicuramente la prima volta che qualcuno se ne infischia di seguiti vari per far riprendere la storia dove si vuole) ma la presenza di Neumeier come regista e sceneggiatore fa un po’ sorridere dato che lo stesso Starship Troopers 2 era stato comunque scritto da lui.
Lavaggio del cervello?
Molto più probabilmente e semplicemente il ritorno di Verhoeven alla produzione.
E così riecco il benedetto Rico far capolino nuovamente sullo schermo con la stessa faccia di tolla di Casper Van Dien che nel frattempo ha quasi imparato a recitare.
Per il resto mancano tutti, ma basta la sua presenza per portare tutti indietro nel tempo.
Non fosse che.
Gli effetti speciali con un budget evidentemente ridicolo rispetto al primo episodio sono ancora più penosi per quanto riguarda le navicelle (quelle del 1997 erano veramente pessime, ma queste in rapporto all’anno di produzione del film sono terrificanti) e inguardabili per quanto riguarda gli insetti (nel secondo episodio a fronte di un budget ridotto si erano intelligentemente evitate scene che richiedevano troppo impegno “visivo”)
Le scenografie sono di polistirolo, le armi di gommapiuma, i dialoghi spazzatura.
Gli attori pessimi come ai bei vecchi tempi e quel tocco di humour da film della Troma (la vanga che trancia in due il soldato nella scena iniziale è quanto di più trash io abbia visto dopo Dude Postal che si divertiva a far sotto bambini e vecchiette!) da il colpo finale.
Starship Troopers 3 non sarebbe neanche un brutto film a volerlo spogliare di un qualche centinaio di difetti ma ne rimarrebbe uno scheletro sottile sottile fatto di rimandi al film di Verhoeven (le trasmissioni tv propagandistiche del futuro) e al libro Starship Troopers di Robert A. Heinlein di cui questo terzo episodio riprende uno dei temi più cari non affrontati da Verhoeven: le tute potenziate.
Che poi queste tute potenziate diventino nel finale il pretesto per una delle scene più tamarre e ridicole che io abbia mai visto in un film di fantascienza (dico solo: Padre Nostro in sottofondo, robottoni giganti con lanciafiamme che incendiano insetti giganti e un ralenty di quelli che solo Emmerich nei momenti migliori…) è tutt’altra storia.
Non c’è mai fine al peggio si dice.
Magari un bell’episodio in 3d…
REGIA: Edward Neumeier
ANNO: 2008
UNA PAROLA: trash e basta.
VOTO: 4,5