lunedì 31 marzo 2008

DOBERMANN



Il livello estetico del film è quello di un videogame, e nell'ostentazione della violenza risulta infantile, regressivo, irresponsabile, diretto a un pubblico tra i 15 e i 25 anni, di supposti vidioti di ambo i sessi, ubriachi di pubblicità, discoteche, pornofumetti violenti.

BY MORANDINI 2008
"È molto più etico mostrare queste cose che non mostrarle, è liberatorio" ecco la tesi di questi autori, psichicamente disturbati, che hanno invaso il cinema come brutte metastasi. Kounen ha fatto un suo calcolo: "Tarantino è trash, violento eccetera, ebbene io lo sarò più di lui. I miei cattivi saranno più cattivi, i miei cervelli schizzati saranno più schifosi, il mio mondo puzzerà più del suo. E poi io ti mostro anche un bimbo nella culla torturato e questa è un'esclusiva, nemmeno Quentin era arrivato a tanto". Dobermann è un rapinatore. Si accompagna alla Bellucci muta, a un paio di teppisti e a un travestito, tutti squisitamente (ripetiamo) tarantiniani. Vengono tallonati dal poliziotto (Karyo), che è peggiore di loro (è lui che tortura il bambino, per far parlare i genitori). Dopo tutto il trash possibile il gruppetto la fa franca e si allontana festosamente in macchina. La Bellucci: carina, ma forse si capisce perché deve emigrare per lavorare. Ecco un altro titolo che entra nel club dei "nessuna stella", come Bambola, Crash, Dal tramonto all'alba & compagnia

BY FARINOTTI 2007

Ma perché io devo leggere certe idiozie prima di vedere un film?
Perché poi devo leggerle sapendo che un sacco di gente dando un occhio a queste quattro righe molto probabilmente non prenderà neanche in considerazione la pellicola considerandola pari a una cacca?
Come si può vedere un film come “Dobermann” dopo aver letto recensioni del genere?
Non si può.
Ricordo benissimo come conobbi questo film: una sera al liceo accesi la tv sul tardi e mi trovai davanti a un pazzo che rideva che nel bel mezzo di una partita di tennis (di cui lui era un giocatore) tirava fuori una pistola lunga mezzo metro e sparava alla pallina perché credeva di essere stato fottuto.
Un ricordo particolare, senza dubbio.
Il mattino dopo ricordo anche che io e un compagno ci trovammo a discutere di questa pellicola che nessuno vide tranne noi: “Dobermann” divenne quasi un mito.
E i miti si sa, vivono nella memoria.
Fino a pochi giorni fa quando, incuriosito dal ricordo, decisi di recuperarlo.
Farinotti la definisce in sostanza una pellicola Tarantiniana da quattro soldi.
Vediamo cosa posso dirvi io.
“Dobermann” è molto Tarantiniano certo (non ci vuole Farinotti per capirlo) ma è anche un film molto Europeo.
Jan Kounen (regista fino ad allora di spot tv e qualche cortometraggio) dirige una di quelle pellicole che potrebbero essere chiamate benissimo: film- bordello.
In cui succede di tutto ma in realtà non accade nulla.
“Dobermann” mette in scena una banda di criminali uno più eccessivo dell’ altro (uno grande e grosso ama i cani e gioca a tennis con il gilet di pelle, uno è un pazzo furioso che spara per ogni cosa, uno si masturba ovunque, uno si traveste, uno è un prete fuso di testa e e via dicendo) comandati dal figaccione Dobermann (con relativa compagna sordomuta) contro una squadra di poliziotti comandati da un mezzo nazista pazzo sniffatore.
Ecco, ho detto tutto.
La pellicola ve la lascio immaginare: una serie di scorrettezza di ogni tipo (la “tortura” ai danni del bambino dettata dal Farinotti non è altro che un bambino che gioca con una bomba a mano che NON esplode) tra teste che saltano, esplosioni gigantesche, pistoloni spararazzi e chi più ne ha più ne metta nel nome dell’ eccesso più totale.
A tutto questo si aggiunga quell’ Europa di cui parlavo.
Perché Kounen, pur tarantinando qua e la, ci mette quel gusto per l’ inseguimento in macchina o per la scena violenta puramente europeo: pochi fronzoli, poche sottigliezze.
Se una testa deve esplodere facciamola esplodere dentro un casco in mezzo ad una strada, se una macchina deve andare a tutta velocità in mezzo al traffico facciamo sentire questo benedetto cambio impazzito, se dobbiamo prendere una ragazza sordomuta scegliamo la Bellucci.

E nei panni del figaccione? È ovvio: Vincent Cassel.

Jan Kounen scrive un soggetto all’ ordine dell’ eccesso e degli anni ’90: personaggi disadattati, pazzi, estremi in ogni senso che però devono essere simpatici al pubblico.
E così via alle strambaggini del prete che dice un passo della bibbia mentre fa esplodere un uomo (questo è eccessivamente tarantiniano!), a quelle del pazzo la cui moglie telefona ogni volta nel mezzo delle rapine e all’ estremo rigore (ovvio) del capo della banda Dobermann che risulta sempre bello, pettinato, occhialato e sbaciucchiato.
Il regista (sempre Kounen) dirige con un occhio a Tarantino e l’ altro pure anche se, come detto, l’ Europeizzazione è forte e alcune scene (come quella psichedelica sul finale) fanno pensare a qualcosina di più che ad un emulatore mal riuscito.
Nel 1998 Guy Ritchie con il suo “Lock e Stock- Pazzi scatenati” riuscirà a rendere meglio il verbo di Tarantino nella vecchia Europa ma è logico che lo stesso Ritchie passi anche da Kounen per certe visioni che poi diverrano suo marchio di fabbrica (mi riferisco ai primi piani velocissimi che entrambi utilizzano).
“Dobermann” dal mito che era cade nella mediocrità a dirla tutta: nella sua voglia di far godere lo spettatore Tarantiniano esagera.
Non nella violenza (sopportabilissima) o nel richiamo ai pornofumetti violenti che Morandini cita (ma cosa sono???) ma semplicemente nel suo voler far apparire così eccessiva una società che così eccessiva non è.
Non si tratta più del mafioso Travolta che ci fa sorridere mentre sta seduto sul cesso o di Samuel L. Jackson che recita un passo della Bibbia prima di uccidere: qui si tratta di veri e propri pagliacci in una società pagliaccesca.
Ho perso un altro mito.
REGIA Jan Kounen
ANNO: 1998
GENERE: Pulp, Tarantino
VOTO: 6 (perché comunque alcune cosette come lo scontro finale, la scena psichedelica e qualche battutina funzionano egregiamente per il genere)
QUANTO SEMBRA IN GRADO DI RECITARE LA BELLUCCI ZITTA: 7
CONSIGLIATO A CHI: agli amanti del pulp e di questo genere di pellicole esagerate
NON CONSIGLIATO: a Pino Farinotti.

lunedì 24 marzo 2008

10000 B.C.- 10000 A.C.

Volevo lasciar qualche giorno in più Vaporidis e company in testa ma 10000 A.C. non può aspettare.
Non può assolutamente.

Io l’ho sempre sostenuto.
Nessuno mi dava mai retta ma io ci credevo sempre.
Vedere un film davvero brutto al cinema vale come e forse più di vederne uno bellino o anche bello.
E invece no.
Tutti a dire: “Ma va Den ma che cazzo dici, cioè minchia ma ci stai con la testa? Cioè tu non sei normale! Minchia ma oh butteresti 6,50 per vedere un film di merda?”
A parte il fatto che nessuno dei miei amici parla in questo modo altrimenti avevo come amici Capsula e Nucleo, la sostanza era quella, con poche eccezioni.
Spendere 6,50 per vedere un filmaccio non è decisamente il massimo della vita per nessuno.
O almeno.
Non lo è per molti.
E attenzione.
Non vi sto parlando di quei filmetti mediocri, banali o semplicemente scarsi e ignoranti come quelli di De Sica e Boldi.
Vi sto parlando di vere e proprie cagate colossali.
Di quelle che quando vai a prendere il biglietto trovi in fila quindicenni rincoglioniti che si bullano con i loro amici delle loro scarpe nuove o trentenni ancor più rincoglioniti che impestando il cinema con il loro profumo appena comprato in Via Roma a Torino se la tirano con la loro nuova fiamma (che molto probabilmente è al loro livello di genialità perché Dio li fa e poi li accoppia).
Di quelle che quando arrivi alla cassa e dici “Uno per 10000 A.C. la cassiera fa finta di nulla ma dentro di se pensa: ecco un altro prodotto di questa società in putrefazione”.
Che poi lei sia li a stampare biglietti con un lavoro che non è proprio il massimo che uno può volere dalla vita non gli passa per la testa.
Che poi io vada al cinema a vedere 10000 A.C. solo perché so già che farà schifo in modo colossale….beh quello non passa per la testa quasi a nessuno.
Anche perché altrimenti tutti andrebbero a vedere 10000 A.C.
Ma aspettate un attimo…. 10000 A.C. almeno al botteghino Usa è stato un successo!
Ora mi sorge un dubbio: eran tutti felici di andare a vedere una cagata colossale o in America son tutti dei quindicenni- trentenni convinti.
Vedere 10000 A.C. al cinema è un esperienza che ti cambia.
Uscito dalla sala sai già che niente sarà più lo stesso.
Anzi.
Dopo 2 minuti circa di film sai già che niente sarà più lo stesso.
Perché 10000 A.C è un apoteosi di effettoni speciali, tecniche digitali, scene di massa, paesaggi straordinari e stronzate.
Detto senza termini.
10000 A.C. è LA stronzata.
Non una di quelle che vedi e poi te la dimentichi dopo un mese perché si, qualcosina c’era da salvare in tutto quel polpettone mal fatto.
10000 A.C riesce a mettere in fila una serie di gag involontarie impressionante.
Roland Emmerich è un genio.
Questo è sicuro.
Non è Michael Bay che ti mette sempre qualcosa che alla fine dici: mah si, nel suo genere non era neanche male, anzi….era fatto anche bene!
Roland Emmerich costruisce filmacci di serie Z e li spaccia per blockbuster Holliwoodiani di massa.
Roland Emmerich solo per essere riuscito a trovare qualcuno che pagasse e distribuisse una cosa del genere dovrebbe avere una statua in ogni città che si rispetti.
Altro che Kubrick, Spielberg, Kurosawa, Fellini.
Guardate Roland Emmerich.
Lui vende cacca per oro e tutti si vestono di cacca.
Felici.
Perché il quindicenne truzzo di periferia e il trentenne rasato che va in palestra ogni giorno che se non vai in palestra le ragazze non ti guardano e poi mi metto il profumo di Armani che costa tanto ed è buono e mi diverto a impestare i cinema che poi tanto non ho neanche i soldi per mangiare, loro ne escono soddisfatti.
Loro mentre sei al cinema a scompisciarti di fronte a un tizio sconosciuto che rifiuta la “Lancia del potere” (che già su una cosa del genere ci sarebbe da parlare per ore) sono serissimi.
Anzi.
Ti guardano male.
Non capiscono cosa ci sia da ridere a vedere una tigre dai denti a sciabola nel deserto, uno struzzo gigante assassino nella giungla e dei Mammuth che scalano delle piramidi che nel 10000 avanti Cristo se sapevano cos’era un triangolo eran già dei fenomeni.

Non capiscono molto probabilmente neanche cosa stia accadendo sullo schermo.
Anzi forse si, forse lo capiscono dato che una voce biascicante tenta per tutta la durata dell’immensa pellicola di spiegare cosa sta succedendo in modo che neanche un babbuino possa fraintendere qualcosa.
Mentre il popolo si muove nel deserto senti la voce dire: “E andarono per il deserto”, mentre arrivano alla giungla senti “E arrivarono alla giungla” (poi come fa ad esserci una giungla con gli struzzi carnivori a un metro dal deserto con sullo sfondo le montagne quello davvero nessuno sa spiegarlo), mentre uno dei protagonisti muore senti addirittura “E morì”
Ma certo che muore!
Lo vedo che sta morendo non è che son proprio così babbeo!
Ma Roland Emmerich conosce i suoi polli!
Roland Emmerich è un genio, non lascia nulla al caso.
Nulla.

Se la “Lancia del potere” o quello che è non basta (e il nostro amico Roland sa che non basta) lui ci mette dentro di tutto e di più nell’immenso pentolone in cui cucina tutta quella cacca.
Così vedi popolazioni sempre peggio agghindate fino a che vedi dei neri con dei legnetti sulla faccia che se il prossimo è vestito coi Lego non ti stupisci neanche.
Anzi se il prossimo è vestito coi Lego Roland Emmerich è Dio.
Ma Rolly (sempre il nostro amico Roland) sta ancora scalando l’ Olimpo, non è ancora arrivato in cima.
Anche se si avvicina di gran carriera.
Perché solo un semidio può pensare a una popolazione simil egizia in cui c’è un tizio che non si vede mai in faccia che si dice essere una divinità in cui gli uomini lavorano insieme ai Mammuth per la costruzione di piramidi dalla punta ovviamente dorata.
Perché solo Roland dopo una serie immensa di stronzate senza capo ne coda (la tigre dai denti a sciabola che si ricorda del protagonista che l’ha salvata e lo lascia vivere mentre tu ti aspetti anche che dica qualcosa tipo “Salve protagonista, ti lascio vivere perché tu sei stato buono!”) può costruire un finale del genere.
E il finale.
Il finale è un capolavoro nel capolavoro.
Nel finale Rolly si sbizzarrisce come se si fosse tenuto a freno per tutta la pellicola (quando tutti sappiam benissimo di cosa è già stato capace).
Nel finale Emmerich da il meglio che il suo cinema cacca- Hollywoodiano può offrire a qualsiasi celebroleso di questa Terra.
Nel finale Emmerich tocca la punta dell’ Olimpo.
E ci mette dentro scene colossali con Mammuth che corron giu dalle piramidi all’ impazzata come una mandria di bisonti, immensi edifici che non capisci che cazzo siano che vanno magicamente a fuoco grazie a delle frecce incendiate che ti chiedi da dove siano spuntate ma poi dici “Ah ma è un film di Emmerich!” e non te lo chiedi più.
E ci mette le scene al rallentatore.
Ebbene si, Roland ci mette le scene al ralenty.
Di quelle che non si vedevano da anni perché persino Michael Bay sa che si rischia di cadere nel ridicolo con scene del genere.
Roland ce le mette.
E non una.
Non due.
Almeno tre ne mette.
E le rende epocali.
E le rende stratosferiche.
E le rende il massimo che un quindicenne rimbambito possa volere dalla sua vita devastata dall’ ignoranza.
Roland Emmerich usa il ralenty come se fosse una cosa fighissima.
Non lo fa con scazzo, come dire: “Magari ci metto anche il ralenty per soddisfare qualcuno dei miei polli!”.
Lui lo fa convinto.
Lui è convinto.
È quello il bello alla fine.
Che Emmerich è convinto.
È partito come un qualsiasi creatore di blockbuster Hollywoodiano e ora è convinto di essere il Kubrick del blockbuster.
Roland usa il ralenty.
E lo ripeto per la milionesima volta perché voi non avete idea della goduria nel vedere un tizio che tira una lancia addosso a quello che tutti credono un Dio al rallentatore, il corpo del "Dio" cadere mentre mezzo secondo dopo una mosca gli vola già intorno al viso (la decomposizione secondo Emmerich!), e ancora il protagonista che si gira e fa: “LUI NON è DIO!” e tutti urlano “EEEEEEEEEEE” e tu lo vedi il quindicenne che sbava di fronte a quella marea urlante che l’indomani racconterà quella scena persino a sua mamma che molto probabilmente penserà cosa ha fatto di male lei per meritarsi una cosa del genere.
E voi non sapete cosa sia vedere il protagonista correre al rallentatore verso l’amata (che ovviamente non sono stato a raccontarvi tutta la storia ma è logico che ci sia una bella ragazza da recuperare dalle mani dei cattivoni) e vedere la freccia del nemico che parte dall’arco e il protagonista urlare “NOOOOUUUUUUUU” con la faccia storta da quello che si vuol far credere disperazione mentre tu sei li che ormai rotoli sulle poltroncine in preda a risate convulse.
Ma a Roland non basta.
Non bastan la lancia del potere (che ovviamente è tutta bella bianca e arzigogolata e baroccosa e plasticosa!), l’amico che si sacrifica (che ovviamente è buono e simpatico e leale e saggio e muore biascicando per trenta volte una cosa tipo “Tuo padre, tuo padre, tuo padre…”), la tigre dai denti a sciabola, gli struzzi giganti assassini (che io darei un premio già solo a chi li ha pensati dei cosi del genere), i mammuth (che Emmerich stesso ha detto son costati tre volte Brad Pitt….e gasiamocene anche!), gli uomini vestiti coi bastoncini, le barche a vela nel deserto che vanno ai due all’ ora ma che il protagonista decide magicamente di non inseguire via terra (come sia possibilr che gli inseguitori le definiscano timorosamente "gli uccelli sulle acque" e 20 minuti dopo son li a parlare di schiavitù come se si parlasse di pastasciutta, quello andatelo a chiedere a Emmerich perchè nessun umano ci può arrivare!), le rivoluzioni del popolo nella città del finto Dio (che è la cosa più culturale che Emmerich riesce a infilare nel suo pentolone melmoso).
Roland prima di chiudere in bellezza ci mette la perla finale.
Fa morire la ragazza.
E lo vedi il trentenne insieme alla sua amata (o quello che è) fingere di disperarsi per quell’ accadimento imprevisto, lo vedi che cerca di fare una smorfia di dolore che non gli riesce perché gli si gonfiano i muscoli del collo che l’ultima volta che ha fatto una smorfia di dolore è stato quando gli si è rotta la palestrina in casa.
Lo vedi e ti vien da ridere perché non sai ancora cosa Roland ha in serbo per te.
Perché Emmerich no si ferma davanti a nulla.
Dobbiam fare una cagata?
E facciamola fino in fondo!
Cos’è quella ragazza che muore?
Non centra assolutamente nulla!
Ma come si fa?
è morta, non è che possiam farla resuscitare!
Ah no?
Questo lo dici tu!
Perché Roland è Dio e Dio può tutto.
Dio può far resuscitare la ragazza facendo esalare l’ultimo respiro a una vecchia sciamana (anche su questa figura ci sarebbero pagine da scrivere) e uscirne ancora più forte.
Ancora più esaltato.
Ancora più convinto di essere er massimo che ce sta in circolazione.
Altro che Michael Bay che nei suoi film prova persino a mettere qualcosa che assomigli a una trama rispettabile.
Roland Emmerich sta 10 gradini più su.
Roland Emmerich non lo ferma più nessuno.
Provate a vedere 10000 A.C. e ditemi, provate a convincermi che non è una goduria vedere un film del genere al cinema.
Provate a dirmi che non ne avete parlato per due ore di quella scena al ralenty senza senso.
Provate anche solo a chiedervi come sia possibile che esista un film del genere.
Provate a chiedervelo e pensate a quanti l’han visto, a quanti giovani e non giovani saranno rimasti folgorati dalle immense vicende di Emmerich.
Provate a immaginarvi uno storico di fronte a una serie così impressionante di nefandezze.
Provate a immaginarvi che mondo sarebbe senza Roland Emmerich.
E un' unica frase mi gira in testa.
é talmente brutto che è bello.
REGIA: Roland Emmerich
GENERE: Fantascienza
ANNO: 2008
VOTO: 1
VOTO TRASH: 10
QUANTO FA RIDERE: 10
CONSIGLIATO A CHI: Chiunque voglia vedere uno dei più bei blockbuster trash mai creati.

sabato 22 marzo 2008

QUESTA NOTTE è ANCORA NOSTRA


Sento che non dovrei scriverne.
Sento che non dovrei scriverne perché scrivere di un film visto con lunghe pause di sonno non bisognerebbe scrivere.
Non dovrei scriverne perché perdersi mezz’ora su un’ora e mezza di pellicola e per di più al cinema addormentandosi come un sacco di patate accasciato sul seggiolino basterebbe a non essere credibile agli occhi di nessuno.
Non dovrei scriverne perché vedere un film del genere dopo una serata passata tra macchine bocciate e occhiali scassati certamente ti segna.
Ti fa dire: “Ma che bella serata di merda!”
Lo dici col sorriso sulle labbra, convinto che poi tanto ci sarà quella persona che saprà risollevarti con un sorriso.
Però lo dici.
Perché vedere un film del genere dopo una serata del genere è una merda.
E non piccola.
Direi abbastanza da vacca.
Una di quelle che quando vai in montagna e posi il tuo bel telo pulito sull’erba convinto che quello sia il miglior posto su un versante di centinaia di metri quadrati e poi lo alzi e vedi che eri posato su una delle 10 merde di tutto il prato ti rendi conto che poi tanto fortunato non sei.
Anzi.
Sei abbastanza sfigato.
E se quella merda è pure fresca.
Oh be, non c’è bisogno di dire che sei davvero un pirla.
Non dovrei scriverne perchè a scrivere di certe cose io quasi non ci riesco.
Mi aggiro tra l’ incazzato, l’imbarazzato e il semplicemente imbecille ad aver scelto di vederlo.
Questione di orari, questione di posti, questione di serate in cui non te ne va bene una che sia una.
Andiamo a vedere “Questa notte è ancora nostra”, tanto ormai siam abbonati a quella faccia da schiaffi di Vaporidis.
E si entra.
E la cassiera pretende pure di avere 6,50 per vederlo, come se fosse un film, come se l’ Euronics e l’ Algida non gli avessero dato già abbastanza soldi a Brizzi (sceneggiatore), Genovese e Miniero (registi???).
Come se davvero io dovessi pagare per vedere Vaporidis non recitare e non fosse lui che deve venire a pregarmi in ginocchio di andarlo a vedere che se no non sa davvero cosa fare nella vita.
Con quella faccia da schiaffi che si ritrova.
Che se riguardo “Che ne sarà di noi” dopo aver visto ormai 4 film con questo essere infido credo si tratti di cinema di alta classe francese.
E Muccino non è forse Marlon Brando?
Il trailer di Wall E prima della proiezione provoca un solo effetto: il rimpianto di non essere davvero alla prima del nuovo film Pixar.
Poi il calvario ha inizio.
Lo vedi dalle immagini che si fanno terribilmente “italiane” e da quelle due o tre facce che se non sono attori italiani quelli tu sei a vedere un film francese di alta classe.
Lo vedi che sta per iniziare e ti chiedi ancora cosa fai li.
Seduto su una poltroncina abbastanza comoda a sorbirti qualche buona gag in attesa che il Vaporidis show inizi veramente.
Perché tanto lo sai.
Lo senti dagli starnazzi della fila dietro che sei andato a vedere Vaporidis.
Non è che riesci a convincerti in extremis di esser di fronte al nuovo capolavoro di Spielberg.
Sei dentro Vaporidis.
E ci sei dentro fino al collo.
E ti senti stanco, terribilmente stanco di quella serata di merda e decidi che alla prima apparizione della protagonista ragazza di turno (cinese con accento romano che fa tanto ridere) non ne puoi più.
E lasci crollare la testa, il corpo, le gambe e tutto quello che ti porti appresso mentre il tuo cervello è già in vacanza da quando hai solcato le porte del cinema comunale e ti addormenti pesantemente.
Ogni tanto apri gli occhi e hai giusto il tempo per vedere banalità assortite con un contorno di Vaporidis.
Vaporidis che fa il figo mentre canta.
Vaporidis che fa il figo mentre parla.
Vaporidis che fa il figo mentre tenta di far la figura dello sfigato.
Vaporidis che fa il figo mentre si incazza.
Vaporidis che fa il figo mentre si innamora.
Vaporidis che fa il figo mentre cammina.
Vaporidis che fa il figo mentre fa il figo.
Vedi Mattioli tentare di tener su tutto il baraccone con qualche buona puntata qua e la ma i pali son marci.
E Califano non fa che tirarci delle accettate mentre tu tenti di capire che cazzo bisbiglia quella sorta di uomo senza dignità.

Ti risvegli e la prima frase che pronunci mentre il tuo amico capisce che no, non eri morto, è una cosa del tipo: “Ora si son innamorati, manca solo la parte in cui litigano e poi si riappacificano”
E va tutto come previsto.
In quel clima da “Notte prima degli esami” che permea tutto e tutti vedi i personaggi muoversi come delle marionette su un palco di cartone.
C’è il bagno nella fontana, c’è Vaporidis che si incazza, ci son le incomprensioni che dovrebbero far anche sorridere ma che ti fan venire la tristezza dentro, c’è la soluzione finale che è di una banalità quasi sconcertante.
C’è quella frase di quel mio amico al mare che rideva di gusto alla prima volta di una gag e dopo averla vista tre volte diceva: “Bello bello, però basta!”
Dovrebbero dirlo a Brizzi.
Che non è che puoi prendere Vaporidis, costruirgli un film intorno, metterci il profumo di Arbre Magique alla “Notte prima degli esami” e sperare che funzioni tutto come se fossimo tutti degli idioti.
O meglio.
Magari l’ oca giuliva della fila dietro (lungi da me criticare chi ride al cinema, ma per Vaporidis no! Per questo film proprio no!) se ne uscirà soddisfatta della sua visione culturale della settimana ma che Brizzi non pretenda da me di uscir contento.
Ho posato il telo esattamente sull’unica merda fresca del versante.
Me ne rendo conto e me ne vergogno.
Non c’è assolutamente bisogno che lo faccia qualcun altro.
REGIA: Paolo Genovese, Luca Miniero
GENERE: commedia
ANNO: 2008
VOTO: 4,5
QUANTO L’HAN PAGATO SILVESTRI PER COMPORRE LE CANZONI DEL FILM: 10 (non so cosa, ma 10 di sicuro!)
CONSIGLIATO A CHI: Non ha alcuna pretesa e vuole rivedere “Notte prima degli esami” senza rivederlo.

martedì 18 marzo 2008

LIGABUE- SU E GIU DA UN PALCO

Questo è il tipico esempio di una mia recensione-non recensione.
Se trovate scritto qualcosa su Ligabue molto probabilmente mi è solo scappato.

C’era un tempo in cui Ligabue mi piaceva.
Era prima dei Litfiba, prima degli Afterhours, prima dei Nirvana, di Johnny Cash, di Neil Young, Pearl Jam, Led Zeppelin, Beatles, Blur, Iron Maiden, Battiato, Love, Timoria, Springsteen e chi più ne ha più ne metta.
Era prima.
Era prima che cominciassi ad appassionarmi veramente alla musica.
Era il periodo degli 883, di Vasco che cantava degli spari sopra, dell’ Amiga in camera con tutti i suoi mille videogiochi pazzeschi, delle giornate passate al campo sportivo a giocare in due ai rigori immaginando di essere Roberto Baggio e Romario.
Era il periodo in cui non mi preoccupavo minimamente di cosa succedeva in Pakistan, in Italia, a Roma o nella più vicina Alessandria.

Sinceramente io sapevo solo cosa succedeva nel mio piccolo paesello o ancora meglio: io mi preoccupavo solo di come stava la mia amica vicina di casa e il mio amico del cuore delle elementari dopo la morte del suo papà.
Mtv si vedeva solo sul 25 o giu di li, era un canale regionale che si prendeva male e io odiavo mio fratello che al mattino si alzava e attaccava sta cosa inguardabile al posto di vedere i cartoni pre-pulmino della scuola.
Io sentivo la radio ogni tanto, o almeno sentivo la radio che sentivano i miei.
Sentivo l’ ultimo elettronico disco di Battisti, che alla mia mamma piaceva tanto e che io non capivo perché aveva deciso di non uscire più per strada e sentivo quel che passava la radio.
E poi lo cantavamo tutti a scuola perché poi tutti alla fine ascoltavamo le stesse cose.
C’ erano le sigle dei cartoni, “Hanno ucciso l’ uomo ragno”, Vasco e Ligabue che ovviamente tutti cantavano “Certe notti” che era la più famosa in assoluto (e quindi la più bella!)
C’ era un tempo in cui Ligabue non cantava della sua vecchiaia, dei suoi anni che passano, delle donne che lo sanno, di Oriali che giocava a centrocampo e di lei che è bellissima.
C’ era un tempo, so che non ci crederete, in cui Ligabue non si atteggiava a uomo conoscitore dei giovani perché anche lui era giovane e forse qualcosa ci capiva davvero.
O almeno io credevo ci capisse qualcosa.
Cantava cose possibili, avventure da ragazzi di paese e cose che non capivo neppure ma che mi piacevano comunque, con quella voce era difficile non stargli dietro.
E poi lui era rock mi dicevano!
Insomma una volta Ligabue qualcosa di buono l’ ha fatto.
Almeno fino al 1997, tra Lambrusco e Pop Corn, Libera Nos A Malo e Buon Compleanno Elvis, Ligabue sapeva come far impazzire una fascia di età che andava dai ragazzetti delle elementari (insomma in quinta ci sentivamo tutti un po’ già grandi!) a quelli che frequentavano le mitiche superiori.
Addirittura Ligabue faceva delle belle canzoni.
Scopiazzava a destra e manca, prendeva assoloni chittarrosi da pieni anni ’80 li mescolava con una bella batteria potente e ci metteva quel pizzico di melodia che non guasta mai.
Poi prendeva un bel racconto ottimista su un ragazzo che conquista la sua ragazza, su un amico morto che comunque è nel suo cuore, su avventure che capitavano a tutti i ragazzetti di paese e ci metteva un ritornellone che se eri al concerto e riuscivi a non cantare o eri Mario Luzzato Fegis o semplicemente un imbecille.
E così Ligabue nacque, diventò grande, esplose con “Buon Compleanno Elvis” e decise di mettere fine a tutto (o quasi) con “Su e giu da un palco”, live con due fantastici cd pregni di classicissimi o se volete di potenziali classici.
Poi si dedicò a Oriali e a fare il figo.
E mentre ascolto “Su e giù da un palco” sinceramente un po’ mi viene la tristezza.
A pensare al campetto sportivo polveroso su cui ho segnato mille gol, al papà del mio amico che molto probabilmente pochi ricordano, al mio amico che ho visto l’ altro giorno per la prima volta dopo 7 anni, alla mia vicina di casa con cui ogni tanto ricordo i bei momenti e a quell’ altro mio amico che un giorno si mise in testa che dovevamo allenarci in due per battere due ragazzi più grandi che dicevano di essere più forti a calcio.
Ci allenammo per 15 giorni.
Perdemmo in una storica partita due contro due di 4 ore (non so come facevo a giocare così tanto, non chiedetemelo ma credeteci!) di una decina di gol e il giorno dopo ricominciammo ad allenarci per la rivincita.
Che non ci fu mai.
Oggi non ho idea della fine che ha fatto il mio ex compagno di squadra, girava alle medie con la sigaretta sopra l’ orecchio e diceva che lui pestava tutti.
Chissà.
Mi rimane Ligabue o meglio i vecchi dischi di Ligabue, o ancora meglio le vecchie cassettine di Ligabue che incredibilmente ancora funzionano.

E mentre ascolto “Viva” mi chiedo se tutto l’ ottimismo che mi porto dietro non sia altro che il risultato di un infanzia vissuta più che felicemente grazie a tutti quei miei amici fantastici, al pallone, a Max Pezzali (che oggi è per tutti lo zio Fester) e dai, un pochino grazie anche a Ligabue che ce la metteva tutta per farmi cantare come un matto “A che ora è la fine del mondo?” senza capire minimamente che cosa stessi cantando.
10.
E fanculo a tutti i pregiudizi, agli snob della musica, a me che ogni tanto nascondo di essere stato un fan di Ligabue, a Ligabue che ora si diverte a fare il figo con le sue mille rughe e la sua voce inalterata da 40 anni.
ANNO: 1997
GENERE: Rock italiano
VOTO: 10
QUANTO ERA MEGLIO IL LIGA D'ANNATA: 10000
CONSIGLIATO A CHI: è cresciuto con Ligabue, 883 e gli anni 90.

domenica 16 marzo 2008

WE OWN THE NIGHT- I PADRONI DELLA NOTTE



Se a morire un paio di mesi fa fosse stato Joaquin Phoenix al posto di Heath Ledger non mi sarei stupito così tanto.
Se fosse stato quell’ uomo con i capelli scuri tirati indietro e la faccia da eterno tormentato maledetto interprete eccezionale di Cash in “Walk The Line” e non il buon biondino dalla faccia innocente che si divertiva con le musiche dei Queen in “L’ultimo cavaliere” allora sarebbe stato decisamente diverso.
Già me li immagino.
Titoloni come “La maledizione dei Phoenix” o “Un altro Cash scomparso” o peggio ancora “L’ultimo maledetto di Hollywood ci ha lasciato” sarebbero comparsi a fiotti su internet e sui giornali e sui muri dei bagni dell’università e sulle pareti di qualsiasi ragazza quindicenne persa nei suoi sogni adolescenziali.
Pensate a tutte le stronzate che hanno scritto su Heath Ledger e sul suo ultimo ruolo maledetto (il Joker nell’ ultimo già osannato Batman) e moltiplicatele per 100.
1000.
10000.
Perché Phoenix si prestava benissimo al gioco.
Con quella faccia così particolare, con quella famiglia così unica, con tutti quei ruoli da incompreso, maledetto, ribelle.
Immaginate cosa poteva venirne fuori.
Una gallina dalle uova d’oro.
Ma Phoenix c’è ancora.
E, si spera, ci sarà ancora per molto.
Vedere un film per la presenza di un attore.
Da quanto non mi capitava?
Senza sapere una cippa sul regista, sulla trama, sul film in generale.
Vedi Phoenix sulla locandina e dici: “Ma si, perché no? Almeno ne varrà la pena per lui!”
E Phoenix non delude le aspettative.
Le uniche che avevo su una pellicola di cui non conoscevo nemmeno il titolo.
“Uno per “I padroni della notte” ”.
E si entra.
E la prima affermazione dopo 5 minuti di film è “A me sembra un “The Departed” dei poveri”.
E, detto senza modestia, ci ho quasi preso.
“I padroni della notte” prende il poliziesco anni ’70 un po’ sporco, un po’ violento, un po’ tamarro, un po’ mafioso, un po’ esagerato lo porta negli anni 80, gli da una fotografia anni 2000 in stile anni ’70 (ovvero come uno si immagina debba essere un poliziesco degli anni 70 senza averne visto uno), gli sbatte dentro due stelle di Hollywood, mescola il tutto dentro il contenitore di “The Departed” e ne tira fuori un ibrido che si fa fatica a giudicare.
Nonostante la dormita, nonostante le ore passate dalla visione ancora sono indeciso sul giudizio.
Senza dubbio “I padroni della notte” non è l’ultimo capolavoro di Scorsese.
E senza alcun dubbio non è nemmeno un prodottaccio per tappare qualche buco.
Al di la di qualche svista da fiction italiana (collanine che appaiono magicamente al collo di personaggi e calze che scompaiono da un secondo all’ altro o altre bazzecole del genere), “I padroni della notte” sembra un prodotto ben curato ma non troppo.
Sembra di trovarsi davanti a una di quelle camere dove tutto sembra perfetto finchè non si guarda sotto il letto dove sta tutto il disordine scomparso.
“I padroni della notte” è così.
Di primo acchito sembra di trovarsi davanti ad un buonissimo prodotto, magari non originalissimo (credo che nessuno avesse intenzione di far un prodotto originale con un copione del genere) ma comunque molto curato in ogni sua parte.
Poi pian piano qualche problema vien fuori.
Facciam finta che l’ambientazione possa sembrare reale nonostante manchi solo il Joypad per prendere il controllo di qualche omino e sparare all’impazzata sulla folla come in GTA, fingiamo pure che Eva Mendez sia capace a recitare e non a mostrare facce corrucciate e gambe sinuose per tutta la pellicola.
Fingiamo.
Il problema è che su altre cose non si riesce davvero a passar sopra.
Perché mai il padre (un comunque grande Robert Duvall) di Bobby e Joseph deve sembrare così dannatamente Clint Eastwood (quando poi è in palestra che allena ti aspetti da un momento all’altro che spunti Hilary Swank)?

Perché mai tutti i ruoli (compreso quello di Phoenix) devono essere così stereotipati da sfiorare l’ assurdità?
Perché mai il trafficante di droga deve essere lo stereotipo dello stereotipo dello stereotipo dello stereotipo del trafficante di droga?
Ma soprattutto: perché mai non c’è un filo di sole in sta benedetta città?
L’ avrete capito.
“I padroni della notte” soffre di stereopatizzazione acuta.
E se magari io riesco a passarci sopra per vedere un Joaquin Phoenix davvero in forma (e perfettamente calato nel SUO ruolo) e uno strepitoso inseguimento stradale che trasmette tensione da ogni angolo (magistrale il fucilone che esce dal finestrino e la voce del padre alla radio che continua a ripetere “Cambia strada Bobby!”) capirò chi ne uscirà con un retrogusto amaro in bocca.
Anche perché James Gray sembra addirittura non preoccuparsi del girato di alcune scene che risultano decisamente forzate e finte fin quasi all’ inverosimile (la litigata tra la Mendez e Phoenix sembra una scena di “Carabinieri”).
Senza alcuna aspettativa e con in mente il solo Phoenix, “We own the night” con un finale anch’esso stereotipato rimane comunque un buonissimo film se si apprezza il genere.
Che genere?
Il poliziesco anni 70.
Stereotipato.
REGIA: James Gray
ANNO: 2008
GENERE: poliziesco
VOTO: 7
QUANTO JOAQUIN è BOBBY:10
CONSIGLIATO A CHI: riesce a passare sopra a una trama decisamente non originale.

giovedì 13 marzo 2008

FANTASTIC FOUR- I FANTASTICI 4

Questa recensione è stata scritta almeno 2-3 mesi fa quindi contiene riferimenti a fatti di allora.
Che io la pubblichi ora è solo un caso dovuto alla mia pigrizia nello scrivere di questo periodo anche se le idee finalmente cominciano a farsi avanti!
Buona lettura!



Non so quando pubblicherò questa recensione.
Non ne ho assolutamente idea perché la mole di recensioni scritte e non pubblicate si sta accumulando nel mio pc come mai prima d’ ora.
Credo che dipenda in parte dal fatto che sto vedendo più film del solito ma soprattutto perché ho qualcosa da dire in ognuna di esse.
Che sia interessante o meno credo tocchi a voi deciderlo.
Io ce la metto tutta.
Cose da dire.
Questa volta tutto nasce da un film visto sul divano un po’ controvoglia e da una discussione su un altro blog.
Una di quelle discussioni che un po’ tutti i blogger cercano di evitare, o almeno… questa è l’ impressione che mi sono fatto i questi sei mesi di scrittura.
Una di quelle discussioni che nasce dal mettere in discussione (cercata e voluta la ripetizione!) un’ idea del proprietario del blog.
Non si fa mai.
È una di quelle regole non scritte che, da quanto ho capito, tutti cercano di rispettare o perlomeno di non infrangere troppo pesantemente.
Un po’ come quando vai a casa di qualcuno e se mangi da schifo devi comunque sorridere e dire: “buono!”
O al massimo “Non era male!”
Fin qui ci siamo.
Ora scateniamo la bufera.
Io non credo sia giusto.
Non credo sia bello andare a spargere sorrisi falsi a destra e a manca come fossero noccioline per gli elefanti.
A qualcuno è mai venuto in mente che gli elefanti dopo un po’ si stancheranno delle benedette noccioline?
Perché andare a dire a una persona che ha ragione se tu la pensi diversamente?
Certo sei a casa sua, non lo si vuole offendere eppure credo che così facendo ci si offenda comunque.
Si offende l’ intelligenza dell’ altro.
Come potrà mai capire di stare sbagliando se ognuno che passa di li gli dice: bravo! Complimenti! Sei sempre il migliore!
La cosa migliore sarebbe non scrivere su quel blog direbbe qualcuno.
Se io non amo il calcio non vado a scrivere su un blog che parla della Juventus.
No, infatti.
Ma io parlo di cinema.
Io sto parlando di un altro blog di cinema, un altro blog che magari ho seguito per un po’ di tempo con passione ma da cui poi ci si è distaccati.
Per divergenza di idee, per quello che volete voi.
Io non credo sia giusto passare ancora di li e dirgli: bravo, complimenti, sei il migliore!
Io credo sia meglio passare e dire la propria opinione, magari senza urlare di rabbia o che so io ma ritengo sia giusto nei confronti dell’ altro esprimersi.
D’ altronde io scrivo per questo.
Per avere uno scambio d’ opinioni.
Non scrivo ne perché Dio mi ha detto di farlo ne perché non ho nulla da fare nella vita che starmene davanti a un pc a schiacciare degli stupidi tasti con le letterine sopra.
Io cerco un sincero scambio d’ opinioni.
Come potrò mai imparare qualcosa se tutti mi dicono: bravo, bene, bis?
Come potrò mai aggiustare il mio punto di vista se tutti mi dicono: già anch’ io la penso così… tu hai sempre ragione!
Non ho sempre ragione.
Mi piacerebbe.
Ammetto di essere una di quelle persone che nella realtà prima di cambiare idea per dar ragione ad un altro ci deve pensare almeno una settimana, ma mi piacerebbe sentirmi dire ogni tanto: secondo me ti sbagli, io la penso in altro modo.
Sentiamolo quest’ altro modo e ti dirò se si, se no, se forse, se ci devo pensare.
Ma mi sono perso.
Come al solito.
Stavo parlando di una discussione su un altro blog di un appassionato di cinema.
E su quel blog è nata una discussione da una frase di apertura: “Il cinema non è intrattenimento”
Qualcuno tra i lettori magari si ricorda del blog in questione, io preferisco non nominarlo.
Non perché io sia smemorato o falso o chissà che altro ma semplicemente perché credo di aver già chiarito le mie posizioni al blogger proprietario e non ci sia più niente da dire tra noi due al riguardo.
E anzi, sapete una cosa?
Pensandoci bene non credo ci sia nulla da dire neanche qui al riguardo, o perlomeno non subito.
Magari nei commenti.
Perché alla fine il mio voleva essere solo un breve aggancio per descrivere un film che ho visto questa sera e si è trasformato nel solito sproloquio, questa volta leggermente più polemico del solito.
Uno sproloquio che potrebbe farmi piovere addosso qualche critica.
Magari costruttiva, sarebbe bello.
Il cinema non è intrattenimento si diceva.
E cosa mai sarebbe “I fantastici 4” se non intrattenimento?
Intrattenimento puro e semplice.
Tim Story (che sinceramente con un nome così sembra anche lui un personaggio dei fumetti) al suo esordio (ma cosa faceva prima quest’ uomo? Ogni tanto mi viene il dubbio che a Hollywood crescano registi come funghi…) dirige un film d’ intrattenimento sul celebre quartetto della Marvel.
Niente di più, niente di meno.
INTRATTENIMENTO!
Non mi stanco di ripeterlo.

Sono intrattenimento i grandiosi (ma in tv la pelle elastica è ridicolmente finta!) effetti speciali, sono intrattenimento le varie scene d’ azione, sono intrattenimento i dialoghi farciti di battute dei Nostri ed è intrattenimento la regia di Tim.
Non Burton, non bestemmiamo!
Che poi gli effetti speciali non servano a coprire una sceneggiatura piatta (non scritta male! Semplicemente piatta in quanto non accade nulla!), che le scene d’ azione sono viste e straviste (uomini che cadono dai grattacieli, persone che volano, camion che si distruggono…), che le battute facciano ridere una volta si e 10 no è un altro conto.
Si tratta di intrattenimento di serie B.
O c.
O d.
Ma sempre di intrattenimento.
Nulla più.
Io non ci leggo assolutamente nessun significato nelle inquadrature del regista, non trovo nessuna rivelazione nelle immagini che mi passano davanti e sinceramente si, parlai al cinema durante la proiezione.
Maleducato, ignorante, non rispettoso degli altri.
Ma sinceramente io di star più di un’ ora con la bocca chiusa a vedere uomini di fuoco o omini che si allungano non riesco a starci.
Il commento ogni tanto scappa, con buona nevrosi di quello che mi sta davanti che magari sta cercando un significato per quell’ uomo di pietra a cui le porte dell’ ascensore si chiudono in faccia lasciandolo solo.
E si, dato che con un post come questo posso anche salutare qualche lettore indispettito vi dico anche che mi son fatto due risate quando alla proiezione di “Rocky Balboa” alcuni incitarono Rocky ad alzarsi dopo l’ ennesimo sganassone spacca mascella.
E feci anche l’ applauso finale.
E dissi “Che cazzata!” ad alta voce durante “2061: un anno eccezionale”.
E tanto altro.
Cinema d’ intrattenimento.
Per passare una serata tranquilla, senza perdersi in troppe interpretazioni, senza pretendere nulla più che un sano divertimento.
Cinema d’ intrattenimento.
Io sinceramente, credo che esista.
E se non esiste, io lo amo lo stesso per quello che secondo me è.
REGIA: Tim Story
ANNO
GENERE
VOTO: 4,5
QUANTO MI FA RIDERE LA SCENA IN CUI “LA COSA” SI SPIACCICA DELLA PANNA IN FACCIA PER UNO SCHERZO DELLA “TORCIA UMANA”: 10
QUANTO FA SCHIFO LA FINE: 10
QUANTO NON DOVEVO SCRIVERE E PUBBLICARE UNA COSA DEL GENERE PER CONTINUARE AD AVERE DEI LETTORI: 10
CONSIGLIATO A CHI: Credo a ben pochi alla fine. È un film mediocre, senza idee e soprattutto senza rispetto per “I fantastici 4” che pur non essendo uno dei fumetti più moderni della Marvel (anche se introdusse gli eroi con grandi problemi con i loro superpoteri e via dicendo) meritava senza alcun dubbio più rispetto.

sabato 8 marzo 2008

THERE WILL BE BLOOD- IL PETROLIERE

E con "Il petroliere" concludo la triloga delle grandi aspettative (vedere "Sweeney Todd" e "Non è un paese per vecchi").
E posso dire di concluderla con quello che a mio parere è il film migliore del lotto.
Ora tra qualche buona uscita (mi aspetta ancora "Persepolis") e magari qualche sorpresa si proseguirà durante l'anno con anche un po' più di spazio alle visioni casalinghe di classici e non.
Buona lettura!


“Il petroliere” è il classico del 2008.
È quel film che quando inizia e per un quarto d’ora non senti pronunciare una parola dici: qui o si va sul capolavoro o si muore di intellettualismi tanto alti quanto inutili.
Ma subito vedi le scintille del piccone di Daniel che batte sulla nuda roccia all’ interno di un pozzo e cominci ad avere una vaga idea del film che ti attende.
Capisci subito, dopo quel quarto d’ora, che “Il petroliere” sarà il suo film.
Di quell’uomo baffuto così solo e duro con la madre Terra (guardate la violenza che ci mette nello sradicare l'argento e poi il petrolio dal suo elemento naturale) che è Daniel Plainview.
Per un momento pensi a tutte quelle discussioni sul titolo italiano, sul fatto “che non si può, che non è accettabile, che “Il petroliere” fa ridere, che allora il film di Burton chiamiamolo “Il barbiere”, che i titolisti italiani son pazzi, che se ci fossi io vedi che roba, che il doppiaggio deve essere eliminato, che viva viva l’olio d’oliva” e dici: “Il petroliere, perché no?"
In fondo si tratta del suo film.
Sceneggiato e girato da Paul Thomas Anderson ma essenzialmente costruito su Daniel Day Lewis.
Il petroliere.
Non “Un petroliere”.
Forse con quell’articolo avrei anche avuto da ridire qualcosa ma quel “Il” riassume tutta la pellicola.
Daniel Plainview (addirittura il nome omonimo sembra richiamare lo stesso attore anche se capisco si tratti di pura coincidenza dato che il tutto è tratto da un romanzo) è Il Petroliere.
L’unico sulla Terra.
Poco importa delle compagnie petrolifere rivali rappresentate da personaggi tratteggiati con uno scalpello mal fatto, qui l’unico che conta è lui.
Non state a guardare se il personaggio del predicatore poteva essere approfondito o se si poteva guardare con più attenzione al rapporto padre- figlio.
Ad Anderson interessa solo di Daniel.
Tutti gli altri non sono nessuno.
Esiste Daniel e il petrolio, il petrolio e Daniel.
E la scena in cui Il petroliere guarda estasiato la colonna di oro nero fiammeggiante mentre il figlio diventa sordo a causa dell'esplosione del gas è la dichiarazione d’intenti più forte del regista.

Non guardatevi attorno, guardate Daniel che lavora in prima persona, guardate Daniel che prende il potere, guardate Daniel che sfida il potere, guardate Daniel salire, salire, salire e ancora salire e poi guardatelo crollare nel suo delirio di onnipotenza.
Ma mentre lo osservate crollare, proprio come in “The aviator” di Scorsese guardate ancora cosa è capace di fare.
L’ astuzia, l’ingegno, la forza fisica.
Di petroliere c’è n’è solo uno e ha la faccia di Daniel Day Lewis.
Ha le sue movenze, il suo accento, i suoi baffi, i suoi tic.
Daniel Day Lewis come e forse addirittura meglio di Leonardo Di Caprio in “The Aviator” prende la storia (del film e la storia in senso generale) e la stringe tra le mani.
La stritola e ne fa uscire il petrolio per cui vive.
Daniel Day Lewis diventa il petroliere.
Daniel Day Lewis coperto di petrolio mentre lo osserva infuocato nell’ aria è il petrolio.
E le musiche che accompagnano ogni epica immagine di Anderson sono parte di Daniel.
Non sono i rumori del paesaggio che interessano così come avviene in “Non è un paese per vecchi” ma quelli più profondi dell’anima di Daniel.
Quell’anima così grande, così abnorme che sembra sempre uscirgli dagli occhi.
Sgorgargli dagli occhi come il petrolio che ama.
Mentre viene schiaffeggiato beffardamente durante il suo battesimo ti aspetti da un momento all’ altro che si alzi e si rivolti contro quel finto predicatore, lo vedi nei suoi occhi che sta per esplodere eppure come Jack Torrance in “Shining” lo senti trattenersi fino all’esplosione finale.
La senti fisicamente quella sensazione di un uomo incapace di rimanere dentro il suo vile corpo.
Lui vorrebbe essere di più.
Vorrebbe essere come il petrolio che raccoglie: denso, viscoso, brutto da vedersi eppure irresistibilmente attraente.
E ci riesce.
Quello stronzo di Daniel non può non attirare chiunque.
Con quella strafottenza, quella rabbia covata, quella follia sempre sull’orlo del baratro nessuno spettatore è capace di rimanergli impassibile come nessun cercatore di petrolio rimarrebbe indifferente di fronte alla scoperta di un nuovo pozzo.
“Il petroliere” è il migliore della triade delle aspettative.
Tre film diversissimi che non devono essere paragonati.
Ma “Il petroliere” è il migliore.
REGIA: Paul Thomas Anderson
ANNO: 2008
GENERE: Drammatico
VOTO: 9
QUANTO è GRANDE L’ULTIMA SCENA: 10
CONSIGLIATO A CHI: A chiunque sappia resistere due ore e mezza di fronte all’ epicità di una storia magistralmente raccontata.

mercoledì 5 marzo 2008

SWEENEY TODD: THE DEMON BARBER OF FLEET STREET- SWEENEY TODD: IL DIABOLICO BARBIERE DI FLEET STREET

NONOSTANTE LE COSE SIAN DECISAMENTE MIGLIORATE E NONOSTANTE LE MIE PROMESSE DI TORNARE A SCRIVERE REGOLARMENTE LA VERITà è CHE L' UNIVERSITà MI PORTA VIA METà SETTIMANA E IL TEMPO PER SCRIVERE RIMANE DAVVERO POCO. LE VISIONI (SEMPRE DI PIù) RIMANGONO MA è LO SPUNTO PER SCRIVERE CHE MOLTE VOLTE MANCA. NONOSTANTE TUTTO QUALCOSA SON RIUSCITO A FAR USCIR ANCHE DA QUESTO SWEENEY TODD.



È il cinema delle aspettative il mio.
Soprattutto quello di quest’ultimo periodo, quello delle tre grandi attese: “Non è un paese per vecchi”, “Il petroliere” e “Sweeney Todd”.
Del primo ho già sparlato abbastanza e troppo.
Del secondo mi occuperò in seguito.
Veniamo a questo fantomatico e tanto strombazzato barbiere assassino.
Non c’è persona che conosca che abbia detto prima del film: “Non mi aspetto molto”.
Tutti a urlare a squarciagola il nome di Tim Burton, quello di Depp, La Coppia d’oro, la Bonham Carter, Dante Ferretti, il musical oscuro, il dark e blablabla.
Tutti a sognare il film di Burton ancora prima dell’ uscita, gente impazzita che già urlava al capolavoro dopo aver visto i soli titoli di testa, follie generali di emo finto depressi che accorrevano ad ascoltare il sommo Burton in conferenza quando non sapevano neanche loro cosa fosse una conferenza.
Poi c’ero io.
Quello che all’annuncio della produzione si esaltò un sacco e che pian piano cominciò ad avere dei dubbi.
Ma davvero aveva bisogno di fare un musical?
Ma davvero doveva tornare così prepotentemente al dark?
Ma davvero c’era bisogno ancora una volta di Depp?
Ma davvero voleva far cantare la Bonham Carter?
Si davvero.
E le mie aspettative nel frattempo?
Sono crollate.
Persino quei titoli di testa che tanto hanno esaltato i fan di Burton a me parvero troppo esagerati, troppo falsi, troppo Burtoniani.
Ma è un film di Burton!
Certo, eppure a me non basta più.
Dopo aver visto “Big Fish” non mi accontento più dell’ emarginato oscuro, della fiaba gotica, del Depp smagliante e del Burton dark in generale.
Dopo aver visto “Big Fish” io mi aspetto di più.
E di più.
E di più ancora.
Lo stesso “La sposa cadavere” mi sembrò un buon filmetto e nulla più.
Dov’era quella magia, quell’ emozione, quella pienezza che fa di “Big Fish” (a mio parere) il suo capolavoro?
E dove poteva essere in tutto quel sangue plasticoso e in quel Depp così disturbato e scuro la meraviglia per il cuore che è “Big Fish”?
Aspettative sottozero.
Ma non si può rinunciare a un Burton al cinema, soprattutto se l’amico con tono da cane bastonato si lamenta che se lo guarderà poi a casa da solo dato che nessuno lo porta.
E così via, vediamo questo benedetto “Sweeney Todd”.
Vediamolo con tutti i pregiudizi del caso ma vediamolo prima di dire fesserie a vuoto.
“Sweeney Todd” è un esercizio di stile.
È questo il primo pensiero che ho avuto fin dalla prima immagine.
Quelle scenografie così oscure e curate nei minimi dettagli dal nostro Ferretti, quei costumi così Burtoniani, quelle capigliature ancor più Burton-Style non possono non fartelo pensare.
E quando vedi la camera correre veloce tra i palazzi di una Londra decadentissima dici: “Si, questo è L’esercizio di stile”.
Eppure.
Eppure Burton riesce comunque a dare un certo tocco tutto suo alla pellicola.
Al di là di tutto quel darkume che ormai immagino tanto semplice per lui quanto preparare il caffelatte c’è qualcosa in questo “Sweeney Todd” che convince anche me.
Non saranno di certo le canzoni che si faticano a ricordare e neppure la voce abbastanza odiosa della Bonham Carter.
Non sarà la faccia da matto che Depp si cuce addosso dal primo all’ ultimo minuto della pellicola.
E non sarà neanche tutto quel sangue così plasticoso da risultar divertente vederlo schizzare ovunque (nonostante gli squittii di schifo di quella a fianco che evidentemente credeva di andare a vedere “Pretty Woman”).
Eppure Tim Burton ha dei lampi di genio.
Ogni tanto si ricorda che nessun contratto lo obbliga a darkeggiare tutto e tutti (nonostante ormai gli convenga) e si sbizzarrisce come nel sogno a colori della coppia Depp- Carter che risulta senza alcun dubbio la cosa migliore dell’ intera pellicola.
Sweeney Todd al di là della storia che non vi sto a raccontare (potete leggerne praticamente ovunque) è L’opera dark di Burton come tutti la vorrebbero.
C’è l’emarginato allucinato (che ovviamente è Johnny Depp), c’è La Bonham dark Carter, ci sono le scenografie oscure e perfette di Ferretti e Lo schiavo (meritatissimo l’Oscar) e c’è la regia oscura di Burton che tutto permea.
“Sweeney Todd” per rubare l’ espressione di un collega universitario e blogger è un fumettone dark ben disegnato ma con personaggi sottili come pagine di carta riciclata.
“Sweeney Todd” è semplicemente una meraviglia per gli occhi.
Peccato non lo sia nè per le orecchie nè per il cuore.
REGIA: Tim Burton
ANNO: 2008
GENERE: Musical
VOTO: 7,5
QUANTO è IL MIGLIORE SACHA BARON COHEN: 10
CONSIGLIATO A CHI: Fan del Burton più oscuro e chi vuole vedere un musical un po’ fuori dalle righe.

sabato 1 marzo 2008

NO COUNTRY FOR OLD MEN- NON è UN PAESE PER VECCHI

AVVISO:CON QUESTA MIA DOPPIA RECENSIONE SU UN SOLO FILM ANNUNCIO CHE SONO UNO SQUILIBRATO MENTALE DIFFICILMENTE CAPACE DI INTENDERE E DI VOLERE.
ORA SE VOLETE CONTINUARE A SEGUIRMI SONO CAVOLI VOSTRI.
PER LA CRONACA PRIMA TROVATE LA RECENSIONE A CALDO DOPO UNA PRIMA VISIONE E SUCCESSIVAMENTE QUELLA SCRITTA MENO DI 24 ORE DOPO, IN SEGUITO A UNA SECONDA VISIONE (E RINGRAZIO LA PERSONA CHE HA VOLUTO QUESTA SECONDA VISIONE E A CUI HO RUBATO SIMPATICAMENTE QUALCHE IDEUZZA).
SCEGLIETE VOI QUELLA CHE PIù VI AGGRADA, SONO LEGGIBILI SEPARATAMENTE.


A volte basta la persona giusta al momento giusto, un discorso, una parola... e tu sei di nuovo li chinato sulla tastiera a ore improbabili della notte a scrivere.
Magari male, magari senza troppe idee.
Ma almeno le dita vanno ancora, quella è già un gran cosa.



8000 premi oscar.
Il film migliore dell’ anno.
Il grande ritorno dei Coen.
Il massimo dei massimi.
Il non plus ultra del cinema del mondo del sistema solare dell’universo.
O più semplicemente “No country for old men”.
Ora io non so nemmeno da dove iniziare.
Partirei dalla fine.
Dal momento in cui appaiono i primi titoli di coda e tu sei li sulla poltroncina…le luci si accendono e tu dici “Ma io veramente… no guarda che ci deve esser ancora un pezzo, avete dimenticato il finale!”
Ma le persone cominciano ad alzarsi, i seggiolini scattano e tu non riesci a dire niente, senti il pubblico ammutolito e non puoi far altro che tappar la bocca anche tu.
Anzi, fai anche a meno di tappartela.
Perchè sinceramente non esce niente.
Esci dal cinema e senti un coro di: “Ma che cazzo era?”
Già, che cavolo ho visto?


Un parruccone che se ne va in giro a zonzo per il deserto a uccidere gente con un pistolotto ad aria compressa e una faccia tra il marmoreo e il tonto?
Un Josh Brolin baffuto e muscoloso che si prende delle pallottole e robe varie ovunque e continua a correre e trascinarsi comunque come un dannato?
Una ruga vivente con le orecchie enormi che cammina imperterrito alla ricerca del parruccone?
Un saggio di regia dei fratelli Coen che all’ inizio fan vedere come si gira e dopo metà film son capaci di farti esclamare “Bello bello, però basta! Quante volte volete farci vedere ancora il riflesso della pistola sullo spioncino della porta riflessa al buio che la luce poi entra ma guarda come abbiam messo la luce che mica tutti son capaci e poi il rugone è il rugone!”?
Esci dal cinema e ti suggeriscono gentilmente di pensarci ancora un attimo per il giusto parere.
Sali in macchina e dopo 30 secondi di silenzio senti di nuovo un duetto di voci che fa: “Ma baaastaaa!”
Ci pensi, ci ripensi, ti fai aiutare a pensare e non riesci a giungere a una conclusione: un film sulla perdita della speranza in America, un Paese che ormai non è più per i vecchi cavalieri del West (ma nemmeno per i giovani prestatori di camicie) impersonati da quel rugone di Tommy Lee Jones.
È l’unica che viene in mente.
Ci bevi una birra su e provi a riformulare i pensieri ma l’ impressione rimane quella, cosa abbiam visto?
Non abbiam le competenze per giudicarlo?
Non riusciam ad arrivare più in là del nostro naso?
Siamo degli imbecilli?
Perché alla fine l’ impressione è quella.
Vedi un film così acclamato e ti aspetti fuoco e fiamme e scoppi e scintille e il cuore che si infiamma e chissà che altro.
E ti ritrovi con un cubetto di ghiaccio in mano.
Bello, perfetto, ammirevole, eppur rimane un cubetto di ghiaccio.
Con i suoi dialoghi cartoon- teatrali, i suoi personaggi da western classico trasportato di peso nel 2000 (anche se la vicenda è ambientata nel 1980 è ovvio che l ‘impronta di questi anni 2000 è fortissima nella violenza sovraesposta e nella caratterizzazione di Bardem) e le sue meravigliose scenografie rese ancor più suggestive da una fotografia perfetta, “Non è un paese per vecchi” rimane un bel pezzettino di ghiaccio.
Lo ammiri, lo rigiri nella mano, lo vedi pian piano sciogliersi e ti rendi conto che c’è un cuore in mezzo.
Ma è talmente piccolo in quella marea di “Ti faccio vedere io come si gira un film da Oscar” che sembra quasi non battere.
E ricominci a vedere “Il miglior film dell’ anno” su ogni cartellone.
Ti chiedi che effetto avrebbe fatto senza quell’ enorme scritta e non sai rispondere neanche a quello.
Ti rendi conto in realtà di non capirci un cazzo di cinema.
Questo è il miglior film dell’ anno?
Del 2008 forse, non avendo ancora visto “Sweeney Todd” e “Il petroliere”, ma del 2007 no!
“Io non ci sto” disse una volta Scalfaro.
Io mi associo.
REGIA: Joel e Ethan Coen
ANNO: 2008
GENERE:Western, Thriller
VOTO: 6,5
QUANTO FA RIDERE IL PARRUCCONE LA PRIMA VOLTA CHE LO VEDI: 10
CONSIGLIATO A CHI:sinceramente non saprei, certo ai fan dei fratelli Coen e a qualcuno che non parta con l'idea di vedere il miglior film dell' anno, sicuramente gli farà un altro effetto.

SECONDA VISIONE


Si può vedere un film per due volte nel giro di 24 ore perché senti e ti senti dire che in realtà non hai capito nulla.
Si può pensare di cercare a tutti i costi quel guizzo, quel genio che tutti hanno visto in una pellicola che tu alla prima visione ti sei perso tra pettinature ridicole e rughe senza fine?
Si può far qualcosa per farsi piacere un film che di primo acchito non è riuscito a colpire come doveva?
Farsi piacere.
Che brutta espressione.
Odio farmi piacere le cose.
Non sono il tipo.
Se un qualcosa mi piace bene altrimenti non sto li per secoli a rimuginare su quello che in realtà mi son perso.
Eppure questa volta il tutto non ha funzionato.
Tutte quei “Miglior film dell’ anno” e voci esterne molto convincenti mi hanno convinto che avevo bisogno della benedetta seconda visione.
Un po’ spaventato da quel che poteva venirne fuori (capita rarissimamente che un film alla seconda mi piaccia come la prima volta) mi sono riavvicinato a “No country for old men”, in lingua originale eccezionalmente, tanto per non perdermi proprio nulla.
A questo punto dovrei dire: “Scusatemi, son stato un coglione, non capivo niente quando ho scritto la recensione qui sopra, non ero in me, il diavolo mi possedeva, il fantasma Formaggino mi spaventava…”
Niente di tutto questo.
O meglio.
Non sento di dovermi inginocchiare sulle spine per quel che ho detto.
Certo son stato un po’ sgarbato verso Bardem e il rugone eppure…eppure non sono riuscito a gridare al miracolo.
Non ho visto la Madonnina piangere o cose simili, solo un buon film ammantato da un aura di capolavoro dell’ anno che ancora non riesco a mandar giu.
So che sembro insistente su questo punto eppure sono convinto che vederlo senza tutte quelle aspettative sarebbe stato diverso, tremendamente diverso.
Non posso non ammettere ad una seconda visione la bravura di Bardem e di Tommy Lee Jones (anche se devo ammettere che Tommy più che recitare bene viene scelto (o sceglie) i ruoli adatti alla sua faccia scolpita dalle rughe) che si apprezzano ancor di più in lingua originale e non riesco nemmeno a dimenticare il buon Josh Brolin che in certi momenti (quello in cui sta per attraversare la frontiera) sembra davvero calare con ogni singolo pigmento nel personaggio.
Non starò a criticare la regia dei Coen che, come già detto, fa di tutto per farsi notare anche se alla lunga sembra diventare un mero esercizio di stile accompagnata da quella fotografia così perfetta e lucente che sembra di vedere un film ammantato d’ oro.
Viene poi la sceneggiatura: e qui ancora non riesco a decidermi.
Cosa c’è che non mi convince appieno in tutto questo conclamato ben di Dio?
Sono i personaggi? No.
Sono le vicende che li toccano? No.
È il modo in cui si muovono sullo schermo? Direi che ci siamo.
I Coen avvolgono un cuore pulsante in un telone di plastica fatto di personaggi da fumetto (molto Tarantiniani in un certo senso) e ce lo mettono in mostra senza mai aprire troppo il telo.
Tommy Lee Jones prova ogni tanto a farci dare una sbirciata attraverso i suoi racconti eppure senti che i Coen sono contrari.
Non vogliono mostrare il cuore pulsante.
Vogliono farci vedere il telo di plastica che Tarantino ormai non si preoccupa neanche di riempire e dirci: “Guardate: qui, una volta, c’era l’ America”.
L’America del western.
Quella fatta di sceriffi solitari e silenziosi, di criminali incalliti e personaggi ambigui e furbi come il buon Josh Brolin.
L’America che oggi, già nel 1980, non è più un Paese per vecchi.
Non è più il luogo dei racconti mitici dello sceriffo e nemmeno quello di un immortale eroe tuttofare come Josh Brolin.
È il Paese del ragazzo che si fa pagare per una camicia utile a salvare un criminale.
È il Paese in cui all’ improvviso ti ritrovi senza sedia sotto il culo e caschi goffamente cercando di capire che diavolo sia successo.
Cos’è quel finale?
Dove va Bardem?
Cosa farà?
I Coen han già tolto la sedia e nessuno se ne è accorto.
VOTO: 7++