venerdì 31 ottobre 2008

REQUIEM PER VENTO FORTE TRA I CAPELLI

Sono orgoglione di annunciare che Recensioni libere si allarga.
Ufficialmente oggi inizia la collaborazione con l'associazione culturale Paper Street, una rivista on-line di Alessandria che mi ha proposto lo scambio di alcuni scritti!
Potrei star qui a dirvi di quanto son contento che senza far assolutamente nulla se non scrivere mi abbiano proposto questa collaborazione e blablablablabla...ma farò che saltare tutti i preamboli e presentarvi direttamente il pezzo di Lucio Laugelli, direttore esecutivo di Paper Street.
Cliccando sull'immagine in alto a sinistra sul blog (quella con su scritto Associazone culturale Paper Street,su non è difficile!) arriverete direttamente all'home page dove dovreste trovare a breve la mia prima recensione di Babylon A.D. (se non la trovate ancora pubblicata la colpa è solo mia che sono un ritardatario cronico!)
A voi.


BY LUCIO

Poco fa, facendo uno dei soliti zapping televisivi annoiati e compulsivi, mi sono imbattuto nell’ultima pubblicità della Mercedes; sono rimasto a seguire lo spot solo perché ho sentito dire ma quello era James Dean? Il messaggio pubblicitario infatti vede protagoniste due icone hollywoodiane: Marilyn Monroe e il già citato Dean. A parte notare quanto la sosia della biondissima star fosse effettivamente molto somigliante all’attrice e quanto invece il bell’attore non ci azzeccasse per nulla in quanto a una presunta somiglianza con il protagonista di Gioventù Bruciata, ho ripensato ancora una volta a quanto sia importante per me, da tanto tempo, l’attore scomparso. Pensavo a come solo sentire il suo nome durante uno zapping sia capace di farmi fermare e indugiare sul canale per vedere cosa si dica riguardo. E così una sua foto in un negozio, o la copertina di un giornale, un poster. Da quando avevo 16 anni James Dean mi accompagna attraverso le gioie e la noia delle giornate che scorrono intorno a tutti noi. Ripenso ai tre film che ha interpretato, a tutti i libri e gli articoli letti, ai documentari, alle foto e a tutto il resto. Per questo grande amore nei confronti dell’attore sono stato anche deriso o non capito; pensavano che esagerassi con l’idolatrare questa figura immortale. Ho anche conosciuto invece altre persone, come me, profondamente affascinate dalla sua storia, dalla sua bravura. Guardando le centinaia di video su you-tube a lui dedicati e le infinite pagine web che ne parlano ancora oggi e per di più scritte in gran parte da miei coetanei capisco quanto non mi sia mai sbagliato nel valutarlo così tanto come ho sempre fatto.
E pensavo anche che, in tutto questo tempo, non ho mai scritto manco una riga su di lui. Non so se riuscirò a mettere su carta quello che penso riguardo e se le sensazioni provate possano essere intuite da chi leggerà queste righe.
James Dean è vento forte fra i capelli. E’ una sigaretta quasi finita.
E’ un sorriso che ti prende per il culo e un po’ provoca.
E’ una sensibilità fuori dal comune.
E’ quando hai bevuto troppo e ti rendi conto che potresti fare uno sbaglio irrecuperabile da un momento all’altro.
E’ anche volerlo fare quello sbaglio e fregarsene.
E poi stare malissimo per averlo fatto.
James Dean è quando azzardi una manovra imprudente e poi pensi a quanto sei stato
idiota per averla fatta.
E’ il brivido che ti accarezza la schiena quando senti che stai volando.
E’ avere mille cose da fare e poi finire per non riuscire a farne nessuna perché la morte ti ha spaccato a metà molto prima del tempo.
Molto prima di quando sarebbe dovuto accadere.
Ma più di tutto è quel preciso istante in cui ti rendi conto che te ne stai andando e provi la consapevolezza che forse non sta avvenendo quello che avevi sempre detto di desiderare.
E’ capire che in realtà non ne hai nessuna voglia di vedere il tramonto dei tuoi giorni. Ma è troppo tardi. E non si può tornare indietro. Stai morendo.
James Dean è sorridere ancora una volta un po’ provocatoriamente e arrendersi quindi alla fine.
Ma in quel brevissimo momento appena vissuto non si può non provare la sensazione di rimorso. Perché forse volevi restarci ancora sulla terra a vedere il sole salire e scendere ogni giorno, a sentire il rumore che fa il motore quando tiri le marce.
A rispondere male a una presunta autorità. A fare l’amore con una persona che ti tradirà. A vivere aspettando perché sarà più bello dopo. A nutrirti d’ambizione.
Ma sei stato immortale solo per alcuni aspetti. Sarebbe bello che, vecchio e rincoglionito, quella pubblicità della Mercedes l’avessi girata davvero tu. Anzi no.
Ma che dico Jimmy? Molto meglio così.
Vento forte fra i capelli. Buon riposo.

giovedì 23 ottobre 2008

WALL -E

Recensioni-Libere sta per allargarsi...o meglio sono io che sto per allargarmi (si, anche fisicamente!)
Ma tutto a suo tempo, per ora gustatevi una nuova recensione doppia!
In ordine la mia e quella di Leo.
Senza altre stupide presentazioni.
A voi.


Ad aspettare un film per sei mesi ci si fa solo del male.
È una regola che qualsiasi umano dotato di cervello funzionante dovrebbe conoscere.
È come sapere che bere 2 litri di vino a stomaco vuoto ti fa rallegrare per mezz’ora e vomitare per altre cinque e ogni sabato ingurgitarne 3 litri.
Non è esattamente quel che si dice genialità (anche se per quella mezz’ora ci si fa sempre un pensierino…)
Eppure.
Eppure Wall-E io lo aspettavo da 6 mesi.
Me la ricordo la prima locandina che vidi con quegli occhioni di quel robottino quadrato che ti diceva solo: ti prego guardami, sarò il tuo prossimo cartoon preferito!
Cartoon.
Che se dici cartoon la prima cosa che ti viene in mente sono gli Animaniacs che si agitano su quella torre di non so cosa della Warner Bros: che mai nessuno ha capito perché quei tre poveri pazzi topi, gatti, puzzole…cosa sono? Debbano essere rinchiusi in quella torre quando quella sputacchiera ambulante di Daffy Duck se ne va in giro liberamente ormai da 70 anni.
Non bastano i cinesi (che almeno a casa loro le sputacchiere le hanno davvero?)
Wall E è un cartoon?
C’è qualche pazzo su questo pianeta che sarebbe capace di andar in giro a dire che “L’altro giorno ho visto quel nuovo cartoon col robottino dagli occhi dolci, Wall-E!”?
Lo conoscete?
Usatelo come piattello nella vostra prossima battuta di caccia (dalla regia mi dicono che a caccia non si usano i piattelli altrimenti i cani da caccia dovrebbero volare e i cacciatori tornati a casa presenterebbero un buon piattello spezzato alla moglie da cucinare con le patate al forno…forse sarebbe la volta buona che gli va qualcosa di traverso e la smettono di uccidere piattelli!)
Io l’altra sera al cinema non ho visto un cartoon.
Non ho visto Willy il coyote che si schiacciava con il decimillesimo masso nella valle desertica (finiranno sti massi prima o poi no?), non ho visto Bugs Bunny che mangia le carote (o era forse Clive Owen in Shootem’up?), non ho visto dell’assurda gente gialla con tre peli in testa e neppure qualche strano tipo con la faccia scubettosa e i capelli sparati in aria di qualche colore improbabile tipo viola-nero-rosso-giallo.
E per la cronaca: non ho visto neppure un ape che imita il Laureato o un Panda ciccione che fa Kung Fu.
Io l’altra sera al cinema non ho visto un film di fantascienza.
Non c’era quello stacco ormai quasi impercettibile (ma che comunque permane) tra materia esistente (gli umani) e materia fantastico-computerizzata.
Io l’altra sera al cinema non c’ero.
Ero perso in un mondo apocalittico pieno di grattacieli di rifiuti compressi insieme a un robottino curioso e tanto solo la cui unica occupazione era appunto quella di comprimere rifiuti e recuperare qualche bell’oggetto da mettere da parte per la sua collezione privata.
20093320 disegnatori, 023498 mesi di lavorazione, 77468372 schizzi, 3147832 milioni di dollari incassati, Wall-E è nato da un idea che il produttore ha avuto nel lontano 1957 quando appena nato vide una colomba che gli cagò in testa che secondo lui era molto simile a un occhio che poi blablablabla (ogni tanto mi chiedo se le pensano a casa certe storie…), potrei sommergervi di inutili notiziole da “non ho uno straccio di idea e vi metto due numeri e qualche aneddoto per arrivare ai 500 caratteri”.
Non mi interessa.
Io dico solo: emozioni.
Tristezza, gioia, malinconia, solitudine e felicità.
Di quelle pure.
Di quelle che credi di aver perso con la fine dell’infanzia e che ritrovi ammirando Wall-E che ti muove dentro con i suoi occhioni.
Non leggete più nulla, non guardate più nulla (casomai vi capiti Vincenzo Mollica che in tv vi racconta il finale provate a sputargli in un occhio), non pensate più a nulla.
Prendete la mano di chi amate e sedetevi in sala.
Ed andate a far compagnia a Wall-E.
Si sente tanto solo.


PER REGIA, GENERE E ANNO VEDERE PIù IN BASSO!
VOTO:10- (e con una seconda visione abbasso di netto il voto di ratatouille a 7,5)

WALL-E. DIO L'UOMO E IL ROBOT
di Leo
“Ho fatto un sogno che non era proprio un sogno […]
Quel possente e popoloso mondo era una massa informe,
senza stagioni, erbe, alberi, uomini, e senza vita,
un mucchio di morte – un caos di dura creta.
I fiumi, i laghi e l’oceano. Tutto era immobile
E nulla si muoveva dentro le silenziose profondità;
le navi senza marinai marcivano sul mare
e gli alberi cadevano a pezzi: una volta caduti
si addormentavano nell’abisso senza flutti;
erano morte le onde e le maree:
la luna, loro padrona, si era spenta presto,
coi venti, inariditi nell’aria stagnante
e le nubi dissolte: le tenebre non avevano
bisogno di nubi: erano loro, ormai, l’Universo”.

[Lord Byron, composta a Diodati nel luglio 1816; “Darkness” – “Tenebre”; testo italiano da “Poeti romantici inglesi”, a cura di Franco Buffoni, Milano, Bompiani, 1990, vol. II; pp. 553-557]

Le distopie* teleologiche ambientate alla fine del mondo sono comuni e diffuse in tutte le culture, e rispondono fondamentalmente alle domande “Che cosa ne sarà di noi alla fine dei tempi?”, “Che cosa ne sarà alla fine dei tempi del nostro pianeta?”, quest’ultima solo più recentemente virata in chiave ecologista in un più ‘verde’ “Che cosa accadrà al pianeta Terra con il nostro irresponsabile comportamento?”. Ora, a prescindere dalle questioni astronomiche, dal futuro ciclo vitale del Sole, che tra miliardi di anni tenderà ad implodere in una nana rossa e, prima di sparire come gigante produttore di calore, renderà la Terra inabitabile a causa dell’intollerabile caldura e della maggiore vicinanza ad esso, il tema della fine affascina da sempre gli animi umani, in particolare per quanto riguarda il lato strettamente culturale e religioso.
*= [situazione storica di una società umana fittizia in cui le premesse di benessere collettivo sono totalmente rovesciate]
Le apocalissi cristiano-ebraiche canoniche ed apocrife, nella loro etimologia greca di “rivelazione”, ci dicono già che il sapere della fine si combina con la conoscenza rivelata degli avvenimenti che la determineranno, imponendo così un punto di vista totalmente imperniato sul senso finale, sulla fine.
Che cosa ne sarà di noi, e con quale scopo allora?
La domanda è da riporre con insistenza perché la cosa più interessante è che, spesso, nelle più celebri produzioni cinematografiche – odierna riproposizione efficace di stilemi narrativi legati un tempo alla trasmissione orale, o a mezzo testo, di situazioni umane archetipiche – il senso della fine, alla fine del tempo, abdica alla condizione umana per invadere il campo dell’artefatto umano, dell’automa, del robot, dell’essere fantastico-immaginifico, raramente l’uomo.
Se un tempo i latori delle trombe della rivelazione erano angeli, ora i messaggeri delle ultime cose si radicano negli automi.
In “Blade Runner” [1982/1992+2007; Ridley Scott; USA – basato sul romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? del 1968], non c’è più alcun Dio ad agire come garante della verità che il soggetto può raggiungere. Il ‘cogito ergo sum’ cartesiano affonda in un soggettivismo che non richiederebbe nulla sopra di sé; nel sistema di Descartes era però necessaria la presenza di Dio in qualità di garante ‘super partes’ del razionale. Da qui la razionale prova ontologica dell’esistenza di Dio: a) Dio è l’essere sommamente perfetto; b) la perfezione comporta l’esistenza; c) dunque Dio esiste. Rick Deckart (Harrison Ford), lo si consideri l’automa programmato per dare la caccia agli altri androidi, lo si consideri un agente umano, è comunque immobile sulla soglia della decisione del Sé, umano o no. Anche se, in fondo, qual è alla fine la differenza tra i due termini del problema, tra l’organico e il sintetico, se è possibile amare ed avere ricordi, avere coscienza di sé, del proprio atto che è nel tempo, una faccenda tra il presente e la decisione che comporta il fare una determinata operazione? Se Deckart può amare Rachael (Sean Young), e avere memoria di sé che in quanto amante ed amato, che differenza fa l’essere o non essere ‘umano’?
Dice Roy Batty (Rutger Hauer):
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”
Ecco come il garante finale della memoria umana si configuri in ultima istanza come non-umano – ma nemmeno divino!
Nel XVII e XVIII secolo le carenze del sistema razional-teologico cartesiano erano apparse evidenti.
Scrisse Pascal di Cartesio, avendo avvertito il rischio che correva la legittimazione della fede: “Non posso perdonare a Descartes [sic]. Avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto per mettere in movimento il mondo: dopo di che, non sa che farsi di lui”. [“Pensieri”, brano 77, Torino, 1962, p. 21]. Cartesio non era minimamente contrario alla fede, ma il suo sistema era un colpo mortale per essa, ed un punto a favore delle molteplici forme di ateismo – spesso in conflitto tra loro – e del materialismo meccanicista.
La Mettrie intitola “L’Homme-machine” un suo testo del 1747.
«Il corpo umano è una macchina che trova in se stessa l’energia», scrive il medico La Mettrie, “ma una macchina di una complessità straordinaria, in grado di produrre vita, sentimento, pensiero” [cit. da Minois, G., “Storia dell’ateismo”, Roma, Editori Riuniti, 2001; p. 404-405]. Allora che differenza fa un automa capace di ricordare, di provare sentimenti e magari di generare altra “vita” meccanica a confronto con un ‘uomo’?
La strada è tracciata.
Il mondo iper-tecnologico dei due lungometraggi di “Ghost in the Shell”, opera di Masamune Shirow, non è altro che una elegante e raffinata variazione sul tema: biologia come forma superlativa di tecnologia e anima come elaborato software, con nel mezzo tutte le possibili ibridazioni del caso [“Ghost in the Shell”, 1995; “Ghost In the Shell: L’attacco dei cyborg”, 2004; entrambi regia di Mamoru Oshii, soggetto di Shirow Masamune; Giappone].
Un punto interessante ora lega alchimia e mistica al senso della vita, alla sua creazione ex nihilo.
Nel 1684, Darmanson pubblica il testo “La bête transformée en machine”, in cui difendendo Cartesio afferma l’evidenza che Descartes fosse favorevole alla fede giacché negava la sensibilità degli animali; se soffrissero Dio sarebbe in fondo colpevole della loro innocente sofferenza, poiché essi non furono partecipi del Peccato Originale. Eppure, privi di anima immateriale e mortale, ma dotate di coscienza, non potrebbero essere exempla della situazione dell’uomo? Occorre precisare che le altre posizioni dell’epoca si distanziano assai da tale concetto e Gassendi, Maignan e l’abate Villiers, con tutte le differenze che intercorrono tra i loro pensieri e limitandoci alla Francia, attribuiscono agli animali un’anima (talora immateriale, talaltra immortale; talvolta entrambi gli attributi). La Chiesa sarà sempre scettica nei confronti della tesi “animale=macchina” [cfr. Minois, G., op. cit. ; p. 234].
Se l’uomo insegue la creazione della vita e la ricerca dell’anima, l’alchimia è l’incontro tra tecnica spirituale e tecnica profana. L’uomo ha gettato la Creazione intera nella prostrazione del peccato originale, condannandola alla sofferenza e all’allontanamento dalla divinità; la pratica alchemica allora mira a ricondurre ad unità la spezzata armonia, alla redenzione del Creato intero. Operando sulla materia, trasformandola, salvo me – e l’umanità – attraverso l’Opera, e salvo la materia stessa dalla Caduta dal Paradiso causata solo dalla stolta coppia dei primordi.
La giustificazione teologica spezza le remore dell’hybris laicamente intesa, del tracotante orgoglio umano di poter creare la vita.
Il Golem, “l’amorfo”, l’Adamo (=etimologicamente, la “terra rossa”) originario ancora proto-umano, e solamente in un secondo tempo l’essere archetipico del robot (dal ceco ‘robota’, lavoro), homunculus rabbinico e nesso tra alchimia cristiana e studio della kabbalah, entra prepotentemente in scena. La sua creazione non ha scopo pratico, se non quello di provare la potenza di Dio. Assolvente la funzione di lode al Signore, viene – spesso – immantinente dissolto.
“La creazione del Golem comporta dei pericoli, anzi come tutte le grandi creazioni mette a repentaglio la vita; […] i pericoli non provengono da lui, ma piuttosto dall’uomo stesso […] dalla tensione che il processo provoca all’interno dello stesso autore […]. La minaccia da parte del Golem che s’incontra nelle leggende posteriori è una profonda trasformazione della concezione originaria […]” [Scholem , Gershom, “La kabbalah e il suo simbolismo”, Torino, Einaudi, 2001; pp. 239-241]. Dalla situazione del Golem si evince un terzo fattore di interesse: l’afasia, l’incapacità di parlare linguaggio umano. Seppure tale condizione non sia universalmente accettata dalle fonti, è da notare, come nota Scholem a nota di un testo da lui commentato, che “il Golem non è incapace di parlare per sua natura, ma solo nelle condizioni attuali, in cui l’anima dei pii non è più pura” [Scholem, op. cit., p. 243].
Nel mondo di Wall•E i pii non sono più puri.
Nel mondo di Wall•E gli automi non parlano.
Gli umani sono stati (lo sono adesso?) devastati dall’incapacità di mantenere una relazione stabile con l’ecosistema. Hanno violentato la Terra, sommersa di immondizia e rottami. Hanno fallito. Le macchine, hanno provocato quel rischio da cui Scholem mette bene in guardia: l’inflazione psichica del soggetto, il sentirsi prima che ‘uomo’ il ruolo che si ricopre, il lavoro che si fa. “L’identificazione con l’ufficio o col titolo ha perfino qualcosa di seducente, sicché molti uomini non sono nient’altro che l’ufficio concesso dalla società, [seducente perché] rappresenta un comoda compensazione delle insufficienze personali” [Jung, C. G., “L’Io e l’Inconscio”, Torino, Bollati Boringhieri, 1967, ed. orig. 1928; p. 50-51]. Gli umani si sono crogiolati sotto le vane e vuote promesse del futuro e delle comodità. Sarebbe vano cercare un uomo pensante, una personalità nel mare dell’omologazione, nel gregge di caricature antropomorfe del mondo di Wall•E, perché “dietro la gran gonfiatura si troverebbe solo un miserabile omiciattolo” [Jung, C. G., op. cit.; p. 50].

“[…] Nel panorama avvizzito non c’era nulla che si muovesse. Niente agitava la pianura sabbiosa, rena disintegrata di fiumi da molto tempo asciutti nel cui solco, un tempo, eran corse le acque della giovane terra. C’era ben poco verde in quel mondo arrivato alla fine, ultimo stadio della presenza umana sul pianeta. Per innumerevoli cicli siccità e tempeste di sabbia avevano sconvolto le terre” [“Finché tutti i mari…”/”Till A’ the Seas…”, di H. P. Lovecraft, in collaborazione con Robert H. Barlow, 1935; “Tutti i racconti 1931-1936”, Milano, Mondadori, 1992; p. 593].
“Waste Allocation Load Lifter Earth-class”: l’acronimo del nome del robot protagonista, una sorta di sollevatore di carichi di rifiuti, dimenticato da 700 anni solo sulla Terra a ripulire dalla spazzatura quella che appare come una città statunitense, ma che potrebbe benissimo essere il centro di una qualunque altra megalopoli del globo. Imperterrito, continua il lavoro, ignorando che la sua missione è da tempo inutile, obiettivo ormai dichiarato irraggiungibile. Lavora, come l’Adamo condannato a guadagnarsi la vita con il sudore della fronte, lavora come indica il neologismo ‘robot’, ricalcato sul ceco “lavoro”, come un alchimista all’Opera.
Solo così ha potuto apprendere ed imparare i comportamenti umani, tramite VHS e spezzoni di films retrò. Solo così ha imparato la forza redentrice dell’amore. Solo così potrà insegnare alla robot EVE (“Extraterrestrial Vegetative Evaluator”, Esaminatrice di vegetazione extraterrestre), compagna dell’Adamo terrestre, ad amare e ad amarlo. Solo così ha potuto redimersi.
Per gli umani non c’è più speranza. Obesi, condannati ad un esilio dorato su di un’astronave proprietà di una multinazionale che li ha soggiogati secondo una logica alla “Brave New World” (“Il Mondo Nuovo”; Aldous Leonard Huxley, 1932), impedendo loro di pensare, di vedere con i loro occhi l’abominio che si sono permessi di diventare, schiavi di bibite gassate e telecomunicazioni digitali, schiavi delle loro macchine. La speranza dell’umanità più pura risiede nel cuore di un automa, erede della Terra.
La meticolosità – ma non certo l’ingenuo ottimismo – di Wall•E nel programmare, per 700 anni, la propria condotta di vita, riporta alla mente il Robert Neville di “Io sono leggenda”:
“Più tardi, si impone di andare in cucina per eliminare nel tritarifiuti le immondizie accumulate in cinque giorni. Sapeva di dover anche bruciare i piatti di carta e le posate, di dover spolverare i mobili, lavare i lavandini e la vasca da bagno e il water e di dover cambiare le lenzuola e la federa del letto; ma non ne aveva voglia. Perché era un uomo ed era solo, e queste cose per lui non avevano più importanza” [Matheson, Richard, “Io sono leggenda”, Roma, Fanucci, 2005; p. 13 – già brillantemente recensito in questa sede da Deneil]. Persino il compagno di Neville – il cane bastardo bianco, marrone e macilento del libro/il prode pastore tedesco del rifacimento cinematografico con Will Smith – ha una contropartita nello scarafaggio compagno di Wall•E.
Eppure c’è qualcosa che resta nelle pieghe della memoria, qualcosa che non si riesce a districare,che si impiglia ripetutamente e con ostinazione: perché in tutte le ultime distopie cinematografiche sul futuro, la parte del redentore positivo o del ‘deus ex machina’ è sempre di un non-umano, di un super-umano o di un uomo che per determinate caratteristiche è al di sopra (o al di sotto) dell’espressione umana, quasi a ricalcare quell’angelo messaggero dei primordi? Perché questa profonda negatività connaturata all’ontologicamente malvagio (o al più superfluo) uomo?
“Le stelle continuavano a girare, il disegno indifferente sarebbe continuato per epoche ignote e infinite. La fine di quel trascurabile frammento non importava affatto alle nebulose lontane o ai soli neonati, fiammeggianti e moribondi. La razza umana, troppo fragile e passeggera per avere un’autentica funzione e scopo, era come se non fosse mai esistita. A questa conclusione avevano portato i lunghi millenni della sua evoluzione, laboriosa fino al ridicolo” [Lovecraft e Barlow, 1935; op. cit., p. 602]. Millenni per arrivare a tenere in mano un telecomando e una lattina di bibita gassata.
Il bene impersonato da un robot: proiezione esterna su materiale inerte della umana intrinseca bontà? Non credo; esternazione di qualità che si vorrebbero avere, ma che si sa di non poter possedere, su un totalmente altro che alla fine risulta essere più umano, ed immensamente più puro, dell’uomo.

Wall•E è un film per far riflettere, e per il momento il capolavoro del cinema d’animazione; Wall•E, e la sua compagna EVE, sono gli unici umani del film capaci di umani sentimenti. Anche quando sarà surclassato per tecnologia da altre vibranti prove d’animazione digitale, resterà un film tra i capolavori. Perché il contenuto, il senso del bello e l’amore non cambiano mai.


REGIA: Andrew Stanton [Pixar Animation Studios]
ANNO: 2008
GENERE: Animazione [mai definizione ad etichetta fu più restrittiva]
VOTO: 10
QUANTO è PURO QUESTO FILM: 10 [a tratti, nei momenti migliori, mi ha ricordato “Stardust”; ma “Wall•E” è più maturo, senza nulla togliere al film tratto dal romanzo per ragazzi di Neil Gaiman; non mi dilungo sulle tonnellate di citazioni sparse nel film, dai giocattoli in rottami di “ToyStory”, alla lampada Luxo Junior del primo cortometraggio animato firmato Pixar, a “2001: odissea nello spazio”, etc…Degna di nota la canzone dei titoli di coda di Peter Gabriel, l’animazione vibrante degli stessi, e il simpatico, ma che nulla toglie od aggiunge, sketch “Presto”, un piccolo omaggio ai cartoni animati di Hanna & Barbera, posto con giudizio prima dell’inizio del film. Il film è dedicato a Justin Wright, un animatore degli Studios – che ha lavorato al cortometraggio “Presto” – venuto a mancare nel 2008 a soli 27 anni]

> POST SCRIPTUM per chiarire brevemente la possibile votazione dei titoli tralasciati e/o citati:
- Blade Runner: 10
- Ghost in the Shell: 8+
- Ghost in the Shell: L’attacco dei cyborg [Innocence]: 8/9