lunedì 13 giugno 2016

FANTASCIENZA D'AUTORE (MA ANCHE NO)


C'è qualcosa che non va ne I primi tornarono a nuoto e, stranamente, so esattamente che cos'è.
É la voglia di emulare Cecità di Saramago e The Road di McCarthy, quella voglia che traspare nella semplice storia fantascientifico-apocalittica che diventa fin da subito un modo per parlare dei problemi della nostra società attuale, passata e futura, in modo trasversale, diverso, protetto, autoriale (anche la sola scelta di non specificare il nome delle città in cui è ambientata la storia, per quanto chiaramente intuibile dalle descrizioni, sembra ricalcare quella dei due autori).
Certo, anche Assalto alla Terra e Il mostro della laguna nera e Il giorno dei trifidi e il 90% della produzione fantastica di sempre celano dietro uno strato più o meno sottile di fantascienza la voglia di polemizzare/criticare/lodare la nostra società, ma lo fanno in altro modo, meno diretto, meno sfrontato, meno intellettuale.
Il primo libro di Papi appartiene invece a quella nuova branca di sci-fi scritta da autori con la A maiuscola, desiderosi di prendere il materiale grezzo per plasmarlo a modo loro, mescolandolo con oro e preziosi per farne una materia rara che magari non piacerà ai puristi, ma farà la gioia di chi non ne è avvezzo.
Solo che Giacomo Papi non è un autore con la A maiuscola.
La sua creazione pare più un Art Attack di un bambino che vuole emulare Muciaccia. Senza avere la tonnellata di materiale """riciclato""" del suddetto. E alla fine vien fuori na ciofeca che si spiccica. E si scolla ovunque.
Il secondo problema è quello della frase qui sopra: la punteggiatura, in particolare i punti.
Ora, io capisco che il punto, in quanto punto, sottolinei e dia forza e vigore ad una frase.
E capisco anche che McCarthy e Saramago si siano lanciati in punteggiature/non punteggiature folli nei due libri citati prima, ma tu sei Giacomo Papi per Dio. E questo è il tuo primo romanzo.
Perché mai riempire un romanzo di 213 pagine con 4000 punti? Perché non usare tutto quell'armamentario di segnetti strani che compaiono sulla tastiera sopra/sotto/a destra/a sinistra delle lettere? Cosa ti hanno fatto di male la virgola, il punto e virgola, i due punti, le parentesi, le virgolette e il trattino?E la risposta "é una scelta autoriale" no, non mi basta. Giustificherei forse un "quando ero bambino la virgola mi picchiava sempre usando il punto e virgola e i due punti mi sbarravano la strada quando tentavo di fuggire alle parentesi" ma dubito che sia successo. Una virgola, che io sappia, non ha mai ucciso nessuno, checché se ne dica (e non credete a quella storia delle virgole giganti che vivono nelle fogne di New York, è una leggenda metropolitana!).
La tendenza di Papi a strafare non si ferma comunque alla sola punteggiatura, ma sconfina nelle parole. A volte nel bel mezzo della storia ci si ritrova impantanati in sbrodolamenti di 10-20 righe sul nulla più assoluto: la bellezza della luna, il parto, la città. Non che alcune considerazioni non siano interessanti e ben scritte, ma sembra che Papi adori specchiarsi, leggersi, ammirarsi per il proprio stile e dire allo stesso tempo: visto? Non sono solo uno scrittore di fantascienza.
Peccato, sarebbe stato molto meglio.

I PRIMI TORNARONO A NUOTO
ANNO: 2012
AUTORE: Giacomo Papi
GENERE: Fantascienza
VOTO: 5

giovedì 19 maggio 2016

LA SCENEGGIATURA QUESTA SCONOSCIUTA


C'è un problema grosso nei blockbuster americani odierni: la sceneggiatura.
Prendete un qualsiasi prodotto ipercostoso prodotto a Hollywood per il grande pubblico e vi renderete conto che non manca nulla: grandi attori, scenografie incredibili, effetti speciali da urlo, fotografia pazzesca e effetti sonori che ti sembra di essere catapultato dentro il film.
E la sceneggiatura?
La sceneggiatura nel 90% dei casi non esiste.
Si certo, ci hanno lavorato sopra 10 persone, c'è chi ha pensato il soggetto, chi lo ha elaborato per primo, chi l'ha ripensato, chi l'ha stravolto, chi lo ha riportato all'origine e chi, con sprezzo del pericolo ha fatto le ultime modifiche e ci ha messo pure la firma ma, statene pur certi, farà schifo.
Provate a guardare anche solo una megaproduzione Holliwoodiana degli anni '80 (senza andare a scomodare anni ancora più gloriosi) e notate le differenze tra un film scritto da persone intelligenti per persone intelligenti e un carrozzone scritto da persone (forse) intelligenti per quella che si crede una massa di rincoglioniti.
Non vi capiterà mai (o quasi) di vedere un blockbuster oggi iniziare in medias res perché tutto va prima spiegato, poi rispiegato a metà film e infine riassunto alla fine della pellicola, in modo che tutti, ma davvero tutti, possano comprendere.
Ma non è solo un problema di spiegoni il mio e non vuole nemmeno essere un discorso da vecchio trombone amante del vecchio cinema: mi piacciono i film moderni, non sono un amante del bianco-nero o uno che vi dirà mai “Ah ma come recitava Marlon Brando, oggi nessuno!”. Vi dirò di più: amo i blockbuster con tutti gli effettacci speciali e il loro dispiego di tecnologia, ma non ne posso davvero più.
Ieri sera ho visto Capitan America: Civil War.
Ho aspettato un paio di settimane dalla sua uscita perché, pur avendo visto finora tutti i film Marvel usciti nelle sale, con l'ultimo Avengers mi ero scottato non poco e Ant-Man mi aveva quasi dato la botta di grazia.
Ma io non demordo.
Le critiche a Civil War sono abbastanza buone (su metacritic, l'aggregatore di critiche ufficiali nel mondo ci aggiriamo sul 75/100) e quindi perché non provarci ancora una volta?
Forse il cambio di regia e le critiche durissime ricevute da Age Of Ultron hanno fatto comprendere gli errori alla Marvel/Disney e finalmente potremo godere di un buon film, come lo era stato il primo Avengers.
Non chiedo tanto: non mi aspetto un Batman di Nolan o un Xmen: giorni di un futuro passato di Synger, solo un buon film, niente di più.
Dopo un'ora e un quarto sulla poltrona, all'accensione delle luci per quello che mi piace ancora chiamare la “fine del primo tempo” (e non l'anonimo “intervallo”) avevo la bava alla bocca e stavo per svenire.
Che due palle.
La prima ora e un quarto del nuovo Cap America (che poi a dirla tutta è il terzo Avengers) è una sequela ininterrotta di: botte (sempre rigorosamente tutte girate male), battuta, botte, battuta, spiegone, cambio scenario, introduzione di un personaggio, battuta, botte, spiegone cambio scenario, personaggio nuovo, botte, battuta, cambio scenario e botte e blablabla dicendo all'infinito.
Inizio secondo tempo.
Botte, battuta, cambio scenario (ma solo un paio dopo i dieci cambi repentini della prima parte), personaggio nuovo (ancora), botte, battuta, botte, battuta e finalone spiegone.
Capitan America: Civil War è la ripetizione ostinata di tutte le caratteristiche buone e cattive che hanno portato al successo i film dei Marvel Studios e che, abbastanza prevedibilmente, li porteranno nella tomba insieme ai gangster movie degli anni '30 e ai film di guerra dei '50 tra non so quanti anni.
Sinceramente non mi va di star qui a fare un discorso articolato su cosa non funziona in un film del genere, perché spremermi le meningi per mettere assieme una sintassi corretta, battute, citazioni, riferimenti, quando tutto ciò che mi è stato rifilato ieri sera poteva essere pensato in 5 minuti esatti da una persona normodotata?
Vi farò quindi uno sterile elenco delle prime osservazioni che mi vengono in mente, sicuro che dimenticherò qualcosa e mi pentirò della mancanza di voglia di questa recensione già tra qualche ora.
Quindi:


  • Troppi personaggi: era già un problema di Avengers: Age of Ultron, non si poteva davvero fare niente per rimediare? Era necessario riportare Occhio di Falco in campo dopo che lo si era mandato in (quasi) pensione dopo l'ultimo capitolo? Non lo si poteva lasciare li dov'era? É necessario avere ancora Vedova Nera che senza alcun superpotere o superarmatura non può assolutamente competere con nessuno dei veri supereroi? Va bene, per qualcuno sarà anche una strafiga e tutto quel che volete, ma il suo personaggio è inutile e i suoi doppi-tripli giochi han rotto le palle, lo dice anche Downey Jr. Siamo sicuri di voler vedere ancora Falcon che adesso comanda pure un drone toccandosi il braccino? Se vi siete lamentati per come sono stati introdotti i personaggi nuovi nell'universo Dc in Batman V Superman, siete sicuri di volervi esaltare per uno Spiderman scoperto su Youtube da Iron Man? E soprattutto: di tutti sti cazzo di personaggi, possibile che non ne muoia mai neanche mezzo? Almeno il nero simil-Iron Man per Dio (War Machine, che poi se non lo dico i fumettari s'arrabbiano)! Non lo si poteva far morire? Lo teniamo buono per un eventuale abbandono da parte di Downey Jr all'universo Marvel? Qualcuno ha notato che le inquadrature tanto volute dal superdivo di Hollywood col pizzetto più disegnato della storia, su Don Cheadle non funzionano? Qualcuno ha notato che l'effetto “I mercenari” si avvicina sempre di più ad ogni film? Una battuta e una scena d'azione per personaggio e via, si passa al prossimo; quando anche i budget cominceranno a calare causa perdita d'incassi fisiologica, Stallone sarà li dietro l'angolo a ridersela beatamente, pensando che almeno lui non si era mai preso troppo sul serio.
Oh cacchio basta, non ce ne stanno più nella grafica, fermiamoci!
                       
  • Troppi attori delle pelle: questo è un corollario della prima osservazione. É ovvio che se vuoi avere trentordici supereroi protagonisti in un film non puoi avere trentordici superstar. Dopo i primi Downey Jr, Ruffalo, Johansson, si è sempre cercato di andare su visi nuovi che costassero poco. Chris Hemsworth è sicuramente il capo di tutti questi bellocci incapaci di recitare (e almeno in questo capitolo ce lo siamo evitati), ma Chris Evans gli è sempre stato dietro di pochissimi passi, capace di cavarsela quando il film richiede una ed una sola espressione (il primo Cap, il fantascientifico Snowpiercer), ma assolutamente non in grado in occasioni come questa, quando il personaggio richiede cambi repentini di espressione che evidentemente non appartengono al nostro. Vogliamo parlare di Cap America che sfoglia il fascicolo delle Nazioni Unite (o un librone gigante, perdonate la poca precisione) con sopracciglia corrugate e mento alzato e fiero? Vogliamo provare a salvare qualcuno tra Don Cheadle, Sebastian Stan o Paul Rudd? No, perchè sinceramente io non ci riesco.
Un uomo entra in un caffè, "splash"
  • Troppe battute: basta basta BASTA. Abbiamo compreso tutti che il successo dei Marvel Studios sta anche nell'aver portato questa vena umoristica all'interno del cinefumetto, ma siamo sicuri che sia questa la strada da seguire? Non vi manca la serietà di Nolan o le giuste dosi di Synger? Ci sono momenti in questa sceneggiatura del cazzo (fatemelo dire almeno una volta) in cui il momento-battuta è talmente scontato che ti sembra di vedere lo sceneggiatore fare capolino dietro lo schermo e strizzarti l'occhio per dirti che si, ora devi ridere. E il problema, il problema grosso, è che qualcuno ride anche a tutti questi ammiccamenti, facendomi preoccupare sulla salute mentale dell'umanità intera. Il prossimo passo sarà la risata finta da sitcom inserita direttamente nella pellicola.
  • Le motivazioni che muovono i personaggi e il loro status pre e post-film. Facciamola breve e senza spoiler: Civil War non cambia nulla nell'universo Marvel. D'accordo si sono presentati un paio di personaggi in più e si è scoperto che Antman può diventare gigante, ma nella storia non cambia nulla. Se domani uscisse il nuovo film degli Avengers potrebbe tranquillamente riprendere il filo da Age Of Ultron dato che, nonostante tutte le premesse e gli spiegoni, il finale conciliatorio ha riportato tutto alla situazione iniziale.
  • Il cattivo: il cattivo di turno fa semplicemente pena. Vedere sprecato uno dei pochi attori buoni sullo schermo per un ruolo del genere fa schifo e le motivazioni che muovono il suo personaggio sono altrettanto ridicole. Se la più grande minaccia per i supereroi è un idiota che si vuole vendicare di qualche parente morto, siamo davvero alla frutta.
  • Spiderman: mi ha messo i brividi. Si lo so che il personaggio è finalmente fedele al chiaccherone dei fumetti e le battutine e la giovinezza e la testardaggine e tutto quel che volete, ma io un film intero con un personaggio del genere non lo voglio vedere. Mi ha fatto cadere le braccia in 10 minuti, non voglio immaginare 2 ore così.
  • Antman gigante. Se al Bagaglino avessero avuto gli effetti speciali, molto probabilmente avrebbero girato una scena del genere, con un uomo gigante che si muove al rallentatore e i minisupereroi che sparacchiano tutte le loro armi e le loro battute come se non ci fosse un domani. Poi magari al Bagaglino ci mettevano l'imitazione di Occhetto e Pamela Prati, ma l'effetto è quello.
  • Le scene d'azione: sono tutte uguali. Tutte, tutte tutte tutte uguali. Io non sono un regista, non ho studiato da regista e neanche ho mai voluto esserlo, ma siamo sicuri che l'unico modo di girare una scena d'azione sia muovere la camera forsennatamente insieme ai due protagonisti per dare più movimento ad un'azione già di per sé caotica? Alla decima scazzottata tra superomini viene il dubbio che i fratelli Russo abbiano ancora 10 anni e abbiano pensato alle scene d'azione muovendo i pupazzetti sul divano di casa loro. Possibile che persino Lo chiamavano Jeeg Robot avesse una “scena di pugni” migliore? Si, possibile.
  • La seconda scena dopo i titoli: ne ho le palle piene di aspettare 20 minuti di titoli per una scenetta inutile da 10 secondi.

E questo direi che è tutto.
Sicuramente mi sarò dimenticato qualcosa e il voto presente qui sotto non sarà così basso come qualcuno si può aspettare (semplicemente perché esiste vera e propria spazzatuta cinematografica e non è questa), ma penso di aver parlato abbastanza di tutto quel che non va in questo terzo capitolo di Cap America, fiducioso che nulla cambierà finché gli incassi saranno di questa portata, ma convinto che prima o poi se ne accorgeranno tutti.
Che a Hollywood gli sceneggiatori sono stati sostituiti da scimmie ammaestrate.

CAPITAN AMERICA: CIVIL WAR
REGIA: Anthony e Joe Russo
ANNO: 2016
GENERE: cinefumetto
VOTO: 5


giovedì 28 aprile 2016

DI UOMINI ALTI, CUPI IN VISO E NUDI A ECCEZIONE DI UN PERIZOMA DI SETA SCARLATTA


Mi è difficile pensare ad un libro più brutto di questo.
Intendiamoci, ho letto tomi da 1000 pagine ben più noiosi e racconti brevi al limite del ridicolo, ho affrontato stili (postquesto e postquell'altro) che non mi sono andati giù nemmeno per cinque righe e ho pure abbandonato, seppure rarissimamente e con dispiacere, autori che proprio non riuscivo a digerire, però un libro così brutto non lo ricordo.
E lo dico sinceramente, con in testa immagini di marsuini parlanti alla conquista del mondo e bambine sperdute nei boschi che si credono inseguite da chissà quale mostro per poi scoprirsi semplicemente delle Masha qualsiasi (chi lo ha letto capirà).
Per assurdo non è nemmeno facile raccontare tanta bruttezza.
Prendete una qualsiasi delle decine di trasposizioni cinematografiche orrende tratte da Stephen King, un Ed Wood qualunque, uno Stuart Gordon tra i tanti e vi sarà facile descrivere con poche parole cosa non va in quelle pellicole: scene ai limiti del ridicolo, scenografie di cartapesta, attorucoli pescati per strada e sceneggiature scritte dal primo scimpanzè che passava di lì; avrete solo l'imbarazzo della scelta per far ridere il vostro interlocutore.
Prendete invece La torre sull'orlo del tempo di Lin Carter e provate a parlarne con qualcuno: c'è un uomo muscoloso dalla lunga chioma rossa vestito come uno Zardoz qualsiasi che se ne va in giro per lo spazio e viene ingaggiato per trovare una mitica Torre sull'orlo del tempo all'interno del quale sono contenuti inestimabili tesori. Lungo il percorso incontra una fanciulla indifesa, un mercenario brutale ma leale, un principe albino, uno stregone piccolo e viscido e un gladiatore mentale (boh).

Altro che James Bond, per me Sean Connery sarà sempre e solo Zardoz

Si è vero, c'è già da ridere non poco, ma provate a fare lo stesso gioco con un fantasy qualunque, Il signore degli anelli, tanto per dirne uno.
C'è un omino basso coi piedoni pelosi (facente parte di una comunità di omini bassi coi piedoni pelosi) che viene ingaggiato da uno stregone fumato per un'avventura pericolosissima insieme ad un nano belligerante, un elfo perfettino e un uomo misterioso. Sulla sua strada incontrerà ragni giganti, essere spelacchiati che ripetono in continuazione “Il mio tessssoro” e alberi parlanti. Ah già l'omino coi piedoni pelosi ha un anello che lo rende invisibile.
Qualsiasi (o quasi) libro sci-fi se raccontato risulta abbastanza ridicolo, quel che fa la differenza in molti casi è come la storia viene raccontata, quale tono usa l'autore per parlarci dei suoi beniamini di carta, in che modo riesce a portarci nel suo mondo fittizio.
Questo passo è tratto da pagina 1 di La torre sull'orlo del tempo:
“ Arrivò a grandi falcate a Zotheera ricca di templi, nell'ora che i Daikoona chiamano la Morte dei Soli. Mentre varcava la Porta del Drago, i Tre Soli scendevano uno dopo l'altro verso l'orizzonte in una vampata di fiamma d'oro.
Era alto, e cupo in viso; nudo a eccezione di un perizoma di seta scarlatta, una giacchetta, specie di bandoliera di cuoio adorna di borchie di bronzo, e un ampio mantello azzurro che pendeva dalla larghe spalle. I capelli si riversavano sulle spalle possenti come una cascata vermiglia. Rossi, non color ruggine o bronzo o oro, ma rossi, d'un vermiglio color sangue dall'abbagliante scintillio metallico.” E blablabla “il corpo era quello di un gladiatore, o di un Dio”, “la pelle aveva il colore del bronzo dorato”, “l'arcigna durezza della mascella glabra” e via di seguito.
Ecco, immaginatevi 100 pagine di tutto ciò.
Pensate a Lin Carter come un novello Robert E. Howard degli anni '60 (non a caso Carter ha ripreso più volte in mano personaggi storici come Conan e Kull proprio di Howard), incapace di scrivere 10 righe senza parlare di muscoli, spade, virilità, donne indifese e assurdi nomi inventati di pianeti remotissimi con tre soli, notti perenni, giungle fittissime, animali bizzarri e un'aria da finto medioevo virile che neanche nei peggiori incubi.
La torre sull'orlo del tempo è un fantasy travestito da fantascienza scritto come il peggior libro di Howard (e Howard è già indigesto di suo sia chiaro) in un'epoca in cui erano già stati scritti capolavori come Solaris, 2001 Odissea nello spazio e i capisaldi di Asimov.
Non vi basta?
La Torre sull'orlo del tempo è un libro orrendo.
E a dirla tutta non fa neanche ridere.

TOWER AT THE EDGE OF TIME- LA TORRE SULL'ORLO DEL TEMPO
ANNO: 1968
AUTORE: Lin Carter
GENERE: Fantascienza, fantasy
VOTO: 1

lunedì 18 aprile 2016

FUORI DAL TEMPO


Ci sono tre particolarità che mi rendono un ragazzo fuori da questo tempo:
  • Non ho uno smartphone;
  • Non ho Whatsapp;
  • Non amo le serie tv.
Ah si, vi vedo già li a puntare il dito, a dire che "prima o poi tanto..", a sospirare pensando che anche voi dicevate così e invece, ad ammonirmi di voler fare l'alternativo ad ogni costo o di essere semplicemente cretino perché lo smartphone è una comodità, Whatsapp ti fa risparmiare e le serie tv sono la narrativa degli anni '10.
Vi rispondo subito che non me ne frega nulla, che il mio cellulare lo carico una volta la settimana, che per i 20 messaggi mandati in un mese non andrò in fallimento e che preferisco di gran lunga il cinema, quello più fine e quello più fracassone, alle lungaggini dei serial.
"Ma è un'altra cosa!"
Siamo tutti d'accordo, e io preferisco il cinema, fatevene una ragione.
Detto ciò.
Se qualcuno mi conosce, sa benissimo che uno dei miei autori preferiti è Stephen King.
Con gli anni si sono aggiunte letture diverse e autori molto più stimati dalla critica o da chi per loro, ho provato strade alternative nel mondo horror e fantasy e a volte le ho pure trovate molto interessanti, ma alla fine sono sempre tornato lì, alla sua logorroicità, ai suoi adolescenti, alle sue storie di paura più o meno riuscite e a quell'America così lontana eppure così vicina, al Re.
Di Stephen King ho letto quasi tutto (e al “quasi” lavoro incessantemente).
Ma soprattutto di Stephen King ho visto quasi tutto.
Ovvio che non stiamo parlando dello Stephen King regista, autore di una sola orrenda pellicola ripudiata persino da egli stesso (se vi capita vi prego di guardare quel capolavoro di "Brivido"), ma di tutto quello che è stato tratto dalle sue opere, una quantità imbarazzante di film per il cinema, filmetti per la televisione, miniserie e oggi, finalmente direbbe qualcuno, serie tv.
Mi perdonerete il termine se, pensando all'immensa mole di pellicole tratte dai suoi lavori, mi viene in mente solo una montagna di merda in cui si scorgono qua e là, alcuni gioielli di inestimabile valore.


 "Unico indizio la luna piena", la paura fatta film...

Shining (quello di Kubrick e non quella follia voluta da King e Mick Garris), Carrie (l'originale, non il blando remake), La zona morta, Misery, Il miglio verde, Stand By Me, Le ali della libertà, The Mist e L'allievo giocano ad una nascondino insano con lungometraggi e miniserie tv che solo l'alcool e tanti amici burloni possono aiutare ad affrontare. Penso a Cujo, Grano Rosso Sangue, The Mangler, Unico indizio la luna piena, Cimitero vivente, L'acchiappasogni, Riding The Bullet, Il Tagliaerbe, Creepshow, L'ombra dello scorpione fino ad arrivare a quello scandalo di It (che rivisto oggi è veramente imbarazzante).
Se seguite il blog da qualche tempo saprete che lessi 22/11/63 alla sua uscita in libreria (qui la mia recensione rivista e corretta pochi mesi or sono) e, nonostante alcuni palesi difetti, me ne innamorai.
Dopo pochi anni di attesa ne è stata tratta una serie tv autoconclusiva di sole 8 puntate con JJ Abrams a produrre e pubblicizzare il prodotto insieme al solito grande nome prestato alla tv dal cinema, in questo caso James Franco.
Amo James Franco.
Forse non avrò visto tutti i suoi film (anzi), ma tra le "quasi" nuove generazioni (38 anni) è uno dei miei preferiti con buone interpretazioni in Planet of the apes, 127 ore, Facciamola finita, Urlo, Strafumati e i tre Spiderman di Raimi.
Si, si porta sempre dietro quella faccia da schiaffi e a volte sembra quasi voler fare il verso a James Dean, ma mi piace, cosa ci posso fare? C'è gente a cui piace Tobey Maguire! Li inseguiamo col forcone? E vogliamo parlare degli ultimi 15 anni di Johnny Depp? No, non vogliamo parlarne perché non centra un assoluto mazzo con quel che stavo dicendo e io ho già perso il filo del discorso.


Johnny Depp Mortdecai  in "faccio le solite 4 facce del cazzo e mi pagano milioni"

Quindi?
Quindi 22/11/63, il telefilm, un termine che quasi nessuno usa più per non far venire subito in mente al lettore grandi perle del passato come Chips, Hazzard, Supercar, Baywatch e chi più ne ha più ne metta.
Otto puntate, qualcosa di fattibile persino per me, avverso ai bassi budget e ai tempi di sviluppo pachidermici delle storie sul piccolo schermo.
Io che ho visto qualche puntata di Fringe e non me ne frega nulla di come va a finire, io che mi sono appassionato alla prima stagione di Lost, ma alla fine della seconda volevo morire, io che mi son sorbito due serie di Dexter e l'ho lasciato lì che continuava a uccidere e dissezionare cattivi puntata dopo puntata dopo puntata, io che amo i libri de Le Cronache del ghiaccio e del fuoco, ma non sono riuscito nemmeno a concludere la prima stagione tv e soprattutto io che mi sono addormentato due volte su due provando a vedere la prima puntata di Breaking Bad.
Ecco, proprio io, per amore di King sia chiaro, mi sono messo di buzzo buono e con una superfan delle serie tv (che quindi ha gusti molto più fini dei miei dopo aver visto tonnellate di cose più o meno buone prodotte per il piccolo schermo) ho deciso che questa volta ce l'avrei fatta, avrei visto 22/11/63 per intero.
E, incredibilmente, ce l'ho fatta.
Ho avuto dei cedimenti sia chiaro, ci ho messo qualcosa come un mese per vedere 8 miserrime puntate da 40-50 minuti, ma ce l'ho fatta.
E ora posso dirvi che ne è valsa (quasi) la pena, la più recente delle serie televisive tratte dai libri di King è un buon prodotto.
Ben girato (tra i registi spiccano il Kevin MacDonald de L'ultimo Re di Scozia e Black Sea e lo stesso James Franco), ben scritto e ben interpretato, 22/11/63, come ogni buona trasposizione da un libro del Re, non ne segue fedelmente ogni passo.
Erano troppi gli elementi del romanzo per poter essere riproposti fedelmente in sole 8 puntate e di quei troppi molti erano inutili ai fini dello svolgimento (sono i soliti ricami di King sulla storia) e altri erano semplicemente noia pura.
Si è optato per una riduzione della parte di storia riguardante le indagini di Epping a favore della storia d'amore con Sadie Dunhill e di un po' di azione in più.
Il taglio non è bastato, purtroppo, a rendere interessanti tutte e otto le puntate con un calo nella quarta e nella settima e un assurdo salto temporale che, per forza di cose, fa perdere molto di quella degustazione degli anni '60 che aveva il libro.
L'agrodolce messaggio finale è rimasto comunque lo stesso e l'aggiunta di un personaggio (quasi) completamente inesistente sulle pagine non ha influito molto sulle vicende, anche se la svolta narrativa finale fa sorridere per l'ingenuità mostrata dagli sceneggiatori in un mondo di folli appassionati di serie tv attenti ad ogni minimo dettaglio.
Forse un James Franco meno piacione del solito sarebbe stato meglio, ma la splendida Sarah Gadon nei panni di Sadie e i due comprimari Chris Cooper (Al) e Leon Rippy (Harry Dunning), oltre al complessato Daniel Webber (Lee Harvey Oswald), sono scelte azzeccate, anche per chi, come me, ha amato il libro e magari si era immaginato attori e facce differenti per i suoi protagonisti.


James Franco in pieno piacioneggiamento

22/11/63 è un bel telefilm.
Non sarà forse ricordato come Shining o Carrie negli annali del cinema, ma finalmente si potrà dire che anche da King è stata tratta una bella serie tv.
E io finalmente posso tornarmene nel mio eremo e abbandonarvi al vostro piccolo, piccolissimo, infinitesimale schermo.

Non posso fare tutto quello che voglio
non posso dire tutto quello che penso
non posso esaudire i miei desideri
la condizione in cui mi trovo è proprio
fuori dal tempo
                                         Bluvertigo

11/22/62- 22/11/63
PRODUZIONE: J.J. Abrams, Stephen King, Bridget Carpenter, Bryan Burk
ANNO: 2016
GENERE: Fantascienza, drammatico
VOTO: 7


giovedì 31 marzo 2016

TRIP


 
É un libro strano questo.
Un libro strano scritto in modo strano da un personaggio strano.
Pubblicato nel pieno degli anni '60, L'aborto sembra riflettere quella vaga libertà floreal-mentale da tutto e tutti che finora avevo trovato solo nella musica degli stessi anni con Doors, Pink Floyd, Grateful Dead, Love e chi più ne ha più ne metta.
Le parole di Brautigan (alcolista cronico, finì a soli 19 anni in un istituto psichiatrico) sembrano letteralmente lasciate libere sul foglio di fare quel che vogliono, sospese come sono tra una trama fin troppo realistica e un tono che non smette neanche per un secondo di essere vagamente sognante e vagamente qualcos'altro.
É difficile descrivere un libro del genere.
Non basta un riassuntino della trama che potete facilmente leggere in 15 secondi sulla quarta di copertina e non basta nemmeno la descrizione dello strano stile da buon trip acido di Brautigan, perché L'aborto è decisamente di più della somma delle sue parti.
Quel che potete fare è prendere questo libro e, abbandonati sul vostro letto o sulla vostra poltrona o sul vostro tappeto o su di un campo pieno di fiori e insettini o sul...insomma abbandonati da qualche parte, lasciarvi trasportare dall'autore nel suo cammino fatto di nude verità raccontate nel modo più sognante-surreale-ironico che possiate immaginare.
E sorridere, riflettere, viaggiare.
E pensare che nel mondo di oggi una libreria del genere non può esistere, ma è stato bello finché è durato.

THE ABORTION- AN HISTORICAL ROMANCE_ L'ABORTO- UNA STORIA ROMANTICA
ANNO: 1966
AUTORE: Richard Brautigan
GENERE: Drammatico
VOTO: 7,5






mercoledì 16 marzo 2016

LA DELIRANTE FOLLE FINE DI UN'UMANITÀ DECADENTEMENTE MALATA

Questa recensione è stata scritta il 9 settembre 2011 e rivista completamente il 14 marzo 2016
 
 
“La nube purpurea” è IL delirio apocalittico di un pazzo di nome M.P. Shiel.
L’allucinazione dello scrittore è del 1901, una paurosa e blaterante follia che disquisisce della fine del mondo per colpa di una maledetta esplorazione al Polo Nord.
C’è una conoscenza di usi e costumi dell’Asia, ma soprattutto dell’Europa, quasi maniacale, un vocabolario che pare infinito a tal punto che la scrittura sembra più volte attorcigliarsi su se stessa fino a perdere il filo del discorso, un protagonista talmente squilibrato che sembra uscito da un racconto sadico di Clive Barker.
C'è uno stile baroccheggiante, pieno quasi fino a scoppiare di aggettivi, abiti, popoli, oggetti...cose, ma soprattutto di evoluzioni pindariche e oppiacee al limite del leggibile che non lo rende esattamente la classica lettura veloce a là "Urania", ma il tutto risulta comunque trascinante. Prendete "La strada" di McCarthy (secco, asciutto, essenziale) e pensate al suo opposto apocalittico: Shiel vi attende.
“La nube purpurea” è la genesi apocalittica della psicopatia della razza umana, è scienza perfetta, alienazione pura, paranoicità portata a livelli nemmeno immaginabili.
Scrivere un libro del genere nel 1901, pur con tutta l’influenza di un maestro come Poe e di un certo romanticismo decadente (l’incipit non è forse molto Frankesteinoso?) significa solo essere “addentro” (chi leggerà, capirà) di ben oltre 60 miglia e dimostra capacità divinatorie che vanno al di là di qualsiasi immaginazione.
Leggere un romanzo del 1901 e, pur con tutti i suoi schizofrenici arzigogolamenti, trovarlo più moderno del 90% della produzione fantascientifica dei successivi 110 anni, può solo indicare una cosa: la decadenza dell’uomo prosegue e un giorno una nube che sa di pesca e mandorle ci inghiottirà tutti.
E fine della storia grazie a Dio.

THE PURPLE CLOUD- LA NUBE PURPUREA
ANNO: 1901
AUTORE: M.P. Shiel
GENERE: Fantascienza, Apocalittico
VOTO: 7,5
 

lunedì 22 febbraio 2016

6 LIBRI, 3 FILM E UNA TRAGEDIA: EVEREST 1996 (PARTE II: I FILM)

(IMAX) EVEREST (1998)


Everest, girato in pellicola 70 mm IMAX, è il documentario che il gruppo di Tenzing Norgay, guidato dall'alpinista Ed Viesturs, stava girando al momento della tragedia nel 1996.
Tolta qualche immagine davvero spettacolare come l'incipit narrato da Liam Neeson, si tratta di un breve riassunto del libro Lo Sherpa di Jamling Tenzing Norgay, in cui ci si concentra sul presente, tralasciando quasi completamente la vicenda del padre e di Edmund Hillary.
La catastrofe avvenuta sull'Everest è giustamente trattata come un capitolo laterale a cui si è data maggiore importanza durante la postproduzione dato il successo del libro di Krakauer (è presente anche una breve intervista a Beck Weathers).
All'epoca l'aver portato una telecamera IMAX (progettata appositamente per pesare “solo” 19 kg) sulla cima del monte Everest fu un traguardo non da poco e il fatto che il documentario sia in realtà costituito da una serie di spezzoni da 90 secondi  (per ridurre il peso si ridusse anche la pellicola) non gioca, purtroppo, a suo favore.
Oggi Everest sembra invecchiato abbastanza male, con alcune riprese troppo costruite (ovvio che non si volesse sprecare pellicola) e una tensione per la vetta che si sente solo a parole.
Due piccole curiosità: alcune immagini (non vorrei sbagliarmi, ma a mio parere si tratta proprio dell'incipit con il volo aereo per arrivare al campo base) sono state riutilizzate dal film Everest uscito nel 2015.
La colonna sonora è composta quasi interamente da canzoni (già edite) di George Harrison, scelte per il loro lato “spirituale”.

EVEREST
REGIA:Greg MacGillivray, David Breashers
ANNO: 1998
GENERE: Documentario
VOTO: 6,5


TERRORE SULL'EVEREST

Da sempre è pratica comune a Hollywood comprare i diritti di sfruttamento cinematografico per qualsiasi successo editoriale il più presto possibile, in modo da avere un film nelle sale quando ancora la febbre del libro non è completamente scesa.
Ultimamente, con l'arrivo di trilogie Young Adult e co. si è arrivati al punto (folle) da comprare i diritti quando ancora il primo capitolo non è stato completato, ma questa è un altra storia che racconteremo un altro giorno.
Il caso di Into Thin Air è invece molto più semplice: il saggio uscì nel 1997 e il successo editoriale inaspettato portò i produttori cinematografici a fiondarsi a casa di Krakauer, noto, tra le altre cose, per essere una persona abbastanza schiva, per proporre fior fiore di contratti. Indeciso se accettare o meno, alla fine Krakauer si decise a vendere in toto i diritti per lo sfruttamento cinematografico convinto che, come in molti altri casi ben più noti (vedi Abarat di Barker opzionato dalla Disney ormai da più di 10 anni) alla fine non se ne sarebbe fatto nulla.
Caso vuole che quell'anno, per qualche oscuro motivo, le cose si muovessero davvero e Hollywood decise realmente di tirarne fuori un film.
Ma non un film qualsiasi, con un buon regista, una buona produzione e una presentazione al festival di Venezia in pompa magna (come avvenne più di 10 anni dopo per Everest di Kormakur): quel che uscì nel 1998 fu quello che viene definito, con sprezzo del ridicolo, un tv-movie, ovvero un film di merda fatto con 4 soldi.
Terrore sull'Everest, che troverete su youtube in una splendida registrazione da un canale Mediaset, è esattamente tutto ciò che vi aspettereste da un film della domenica pomeriggio su Italia 1, anzi no, sul suo parente anziano, il redivivo Rete4.
Ci sono attori imbarazzanti e fuori ruolo (vince su tutti l'interprete polacco con faccia da americano di Anatolij), c'è un regista specializzato in tv movie da 4 soldi (da vedere la sua filmografia), c'è uno sceneggiatore anch'esso da tv movie (di cui imdb conosce a malapena la data di nascita) e scenografie incredibili che sembra di essere a Prato Nevoso invece che sull'Everest.
Il tutto è completato da una discutibile finta attinenza al testo, con voce fuori campo che riprende interi brani dal libro sbattendosene completamente le palle se poi quello sullo schermo non centri assolutamente nulla con ciò che viene raccontato nel saggio del 1997.
Insomma, splendido.
Dieci anni dopo Krakauer si prese un mezzo infarto quando gli arrivò notizia che il suo Into The Wild sarebbe stato trasposto al cinema ad opera di Sean Penn, ma questa è un'altra storia (per dovere di cronaca bisogna dire che la trasposizione è stata molto apprezzata dall'autore del libro).

INTO THIN AIR: DEATH ON EVEREST- TERRORE SULL'EVEREST
REGIA: Robert Markovitz
ANNO: 1998
GENERE: Drammatico
VOTO: 4


EVEREST (2015)


Così come Aria Sottile è il primo passo da compiere per avvicinarsi all'intera vicenda così Everest è l'ultimo scalino da superare per arrivare in vetta e provare a comprendere esattamente cosa sia successo nel maggio del 1996.
Ci sarà chi non è assolutamente d'accordo con l'affermazione di cui sopra come Krakauer stesso che, dopo la visione del film, si è scagliato ancora una volta rabbiosamente contro l'interpretazione di quelli che lui vuole essere i soli fatti reali: quelli raccontati nel suo libro. La scena in cui Anatolij chiede al suo personaggio di aiutarlo nella ricerca dei dispersi (ripresa dal saggio dello scalatore russo) ha fatto saltare la mosca al naso all'autore americano per la milionesima volta, portandolo a dichiarare a metà della stampa mondiale che non è andata così, no, no, no! “Se volete sapere com'è andata leggete il mio libro!”. Quanta simpatia.
Un altro uomo che ha perso la ragione senza nemmeno aver visto il film (sua dichiarazione) è stato Messner che ha bocciato in toto il progetto poiché non è stato girato davvero sull'Everest, tranne che per le scene ambientate al campo base. Vaglielo a spiegare che magari Gyllenhaal non ha proprio voglia di andare a 8000 metri a rischiare la vita con una maschera di ossigeno sulla faccia.
Detto questo, se si cerca di ragionare per un attimo a mente fredda e si guarda il film dopo aver letto 6 libri che parlano dello stesso argomento in due mesi si può capire bene che Baltasar Kormàkur non si è messo li a girare semplicemente un altro Terrore sull'Everest.
Al di là degli effetti speciali, delle pareti di ghiaccio ricreate a Cinecittà, delle riprese sulle Alpi e dei buoni attori chiamati in causa (Beck Weathers si è detto soddisfatto del suo personaggio interpretato da Josh Brolin), Everest è un film corale che riesce nell'impresa di riunire in una sola visione una quantità di punti di vista diversi difficili da far collimare persino in un libro, figurarsi in 120 minuti di cinema.
Lo stesso Kormàkur ha dichiarato di essersi documentato a lungo con tutti gli scritti presenti sulla vicenda e le comunicazione radio dell'epoca per provare a dare una visione che non fosse unilaterale.
La realtà, per quanto a Krakauer possa far incazzare, è che non può esistere una sola versione dei fatti per una tragedia che l'ha visto protagonista in una situazione a dir poco difficile, in carenza di ossigeno e stremato dalla fatica.
É noto, per sua stessa ammissione, che l'autore americano, messosi in salvo al campo IV, disse di aver visto scendere prima di lui Andy Harris, motivo per cui, in un primo momento, si pensò che la guida alpina fosse al salvo in una tenda, mentre si trovava ancora in alta quota cercando di aiutare Rob Hall (perirà sul posto poche ore più tardi). Leggendo le altre testimonianze presenti nei libri, Martin Adams, uno dei clienti di Scott Fischer, afferma sicuro che Krakauer in preda all'ipossia (mancanza di ossigeno) si sia lasciato scivolare sulla neve per almeno un centinaio di metri durante la discesa prima di riprendere a camminare (azione a dir poco sconsiderata come tutti potranno comprendere) , ma Jon ha sempre negato che questo sia successo.
Un altro esempio? La questione ossigeno si/no che Krakauer tira in ballo ogni tre per due come accusa ad Anatolij è stata sottoposta al vaglio di più di un alpinista e non tutti sono concordi con lo scrittore americano che l'uso delle bombole da parte del kazako avrebbe migliorato la situazione. É vero che uno scalatore medio non può farne a meno, ma è anche vero che un fisico come quello di Anatolij aveva già dimostrato di reggere più che bene a quelle altitudini e le sue tre bombole di ossigeno per l'attacco finale aiutarono Neil Beidleman (una guida del gruppo di Scott Fischer) e il suo gruppo nella difficilissima discesa.
E quindi? Quindi niente.
Everest, con tutte le esagerazioni che Hollywood comporta e i tagli in fase di montaggio (il personaggio di Lene Gammelgaard, ad esempio, è stato tagliato durante il montaggio finale), è un film parecchio complesso e veritiero per essere un blockbuster.
Ovvio non è un documentario National Geographic con interviste ai sopravvissuti e riprese dell'epoca (ma nemmeno Into The Wild lo era, con i suoi hippie felici e gli olandesi sbracaloni) e non è nemmeno un capolavoro della cinematografia moderna (manca quel guizzo registico, attoriale e fotografico che differenzia i film normali dai capolavori), ma è un film onesto.
Onesto nel non voler prendere le parti di nessuno, onesto nella visione di personaggi come Scott Fischer (Jake Gyllenhaal nonostante la mancanza di capelli biondi esprime esattamente ciò che viene raccontato nella biografia Mountain Madness) e Rob Hall (le parole finali alla moglie sono riprese esattamente dalle conversazioni registrate dell'epoca), onesto nel non rappresentare eroi che in effetti non ci sono stati (tolto il salvataggio di Anatolij che però non viene dipinto come un Terminator indistruttibile, ma semplicemente come un uomo mosso dalla forza della disperazione), onesto nel mettere in scena una tragedia che ancora oggi non ha un perché e a cui nemmeno decine di libri, documentari e film sapranno mai dare una risposta.
In fondo nemmeno George Mallory, a capo delle prime tre spedizioni inglesi per scalare l'Everest negli anni '20, seppe mai dare una risposta alla sua curiosità:
“Perché vuole scalare l'Everest?” “Perché è lì”.

EVEREST
REGIA: Baltasar Kormàkur
ANNO: 2015
GENERE: Drammatico
VOTO: 7,5


martedì 9 febbraio 2016

6 LIBRI, 3 FILM E UNA TRAGEDIA: EVEREST 1996 ( PARTE I : I LIBRI)

UNA PREMESSA

 
"EVEREEEEEEEEEEEST"
 
Negli anni ho accumulato così tanti progetti di recensioni folli legate ad un solo argomento, un solo autore, un solo genere, che oggi, davanti alla pagina bianca di word, mi spaventa dover ammettere che si, dopo innumerevoli tentativi, ne ho concluso uno. “Leggerò e vedrò tutto quel che riguarda il disastro del 1996 sull'Everest edito in Italia”, me lo ripetevo continuamente mentre scorrevano i titoli di coda di “Everest”, nel settembre del 2015, folgorato come un San Paolo qualsiasi sulla via di Damasco (solo che io a Damasco non ci stavo andando e il massimo a cui aspirassi in quel momento era il letto di casa).
Si, sono stato aiutato dal kolossal con protagonista Gyllenhall e soci che ha riportato in libreria, come spesso accade con le uscite Hollywoodiane, libri che non andavano in stampa ormai da più di 10 anni (è il caso di "Everest, io c'ero" di Lene Gammelgaard), ma non è stato facile credetemi.
“Lo sherpa” di Jamling Tenzing Norgay, tanto per dirne uno, è fuori commercio da almeno un paio di lustri e la biografia di Scott Fischer, Mountain Madness, edita dalla piccola Alpine Studio, così come “Everest 1996, Cronaca di un salvataggio impossibile”, pubblicato da Vivalda editori non sono esattamente bestseller da trovare in una qualsiasi Feltrinelli.
Aperta parentesi: l'ultimo libro citato è apparso in edicola con mesi di ritardo sull'uscita del film e sulle mie ricerche estenuanti provocandomi un quasi esaurimento nervoso quando l'edicolante mi ha chiesto se volevo quel libricino di cui gli avevano spedito inspiegabilmente quattro copie. Chiusa parentesi.
Considerate poi che un film come "Terrore sull'Everest", primo e unico vero adattamento cinematografico (in realtà film tv) di "Into Thin Air" di Jon Krakauer datato 1998, è quasi introvabile in italiano (a meno che non vogliate vederlo su Youtube...), mentre il documentario IMAX “Everest”, anch'esso del 1998, è recuperabile solo con sottotitoli da cercare accuratamente nel mare internettiano.
Insomma ci sono ricerche ben più difficili e anche cose ben più importanti nella vita, me ne rendo conto, ma lasciatemelo dire una volta sola e poi non se ne parla più: sono orgoglioso di me stesso e della mia monomaniacale impresa.

PS: le recensioni sono nell'ordine di lettura che ho seguito io, che non è per forza quello esatto o consigliato.



UN BREVISSIMO RESOCONTO DELLA VICENDA

                                       
Il gruppo Mountain Madness con in basso a sinistra Scott Fischer



Il Gruppo Adventure Consultants con in prima fila i defunti Doug Hansen (primo sulla sinistra), Andy Harris (al centro con cappellino bianco e tuta blu), Rob Hall (inconfondibile tuta viola) e Yasuko Namba (ultima sulla destra)

Nel maggio del 1996, all'alba delle prime vere e proprie spedizioni commerciali che promettevano di portare in vetta anche semianalfabeti dell'arrampicata, due spedizioni  di questo tipo (la Adventure Consultants di Rob Hall e la Mountain Madness di Scott Fischer) più altri gruppi minori di professionisti si ritrovarono a scalare contemporaneamente l'Everest dalla facciata Sud.
Il 10 maggio 1996, nel corso dell'ascensione alla vetta dal campo IV, l'affollamento e i fraintendimenti tra gli sherpa delle due spedizioni provocarono un enorme ingorgo nei pressi del passaggio più delicato, chiamato Hillary Step; il fatto, unito alla scarsa preparazione di alcuni clienti, fece ritardare la salita a buona parte del gruppo, che fu colto da una tempesta durante la discesa. Tra il 10 e l'11 maggio del 1996 sulla facciata Sud dell'Everest morirono 5 persone (a cui si sommano normalmente il membro della spedizione Taiwanese Chen Yu Nan morto il 9 maggio e i tre militari indiani morti sulla facciata Nord) per motivi diversi:
  • Rob Hall: assideramento durante la discesa, ritardata a causa della perdita di coscienza dell'ultimo cliente ad arrivare in vetta con un ritardo di due ore sul programma, Doug Hansen;
  • Doug Hansen: perdita di coscienza e conseguente caduta;
  • Andrew Harris: seconda guida del gruppo di Rob Hall, tenta il salvataggio di quest'ultimo, ma muore nel tentativo (riesce comunque ad arrivare a Rob prima di cadere nell'incoscienza e precipitare);
  • Scott Fischer: possibile embolia cerebrale durante la discesa;
  • Yasuko Namba: assideramento durante la discesa dopo essersi persa nella tormenta insieme a Neil Beidleman, Klev Schoening, Charlotte Fox, Tim Madsen, Sandy Hill Pittman, Lene Gammelgaard, Mike Groom e Beck Weathers.
Sulla wikipedia inglese potete tranquillamente trovare informazioni più dettagliate, ma credo che per comprendere tutto ciò di cui parlo nelle recensioni seguenti possa bastare questo breve riassunto.

 

ARIA SOTTILE
 
 

Lo scritto di Jon Krakauer è il vero punto di partenza. Nonostante la mia fissa sia iniziata con il film di Kormàkur, ciò che ha dato il La a tutta questa serie di saggi-film-documentari è stato il libro-reportage dell'autore alpinista americano che nel 1996 faceva parte della Adventure Consultants guidata da Rob Hall. Il Nostro scalava come inviato di Outside, rivista  alpinistica per la quale avrebbe dovuto scrivere un articolo sulla nascita delle spedizioni commerciali sull'Everest.
Al di là degli infiniti dettagli pre-partenza per l'Himalaya ciò che conta qui è: com'è Into Thin Air?
Il libro di Krakauer è sicuramente il migliore del lotto preso in esame.
Sarebbe stato facile riportare semplicemente le proprie esperienze personali su carta (come fecero pressoché tutti i sopravvissuti), ma Jon provò con Into Thin Air a far chiarezza su quella che all'epoca fu la più grande tragedia avvenuta sulla montagna più alta del mondo.
La cosa gli costò pericolose antipatie personali e accuse di vario tipo, non sempre a torto, ma lo scrittore dell'Oregon ha sempre difeso con le unghie e con i denti il suo grande lavoro di ricerca teso a dare un senso a quelle morti che anni dopo pesavano ancora sui suoi ricordi e sulla sua coscienza (leggendo capirete bene il motivo).
La semplice domanda iniziale posta ai vari scalatori: “Perché volete scalare l'Everest?” mostra una serie di risposte che all'autore sembrano non andare giù in nessuno modo convincendolo, ancor prima dell'evento tragico, che le spedizioni commerciali abbiano qualcosa di intrinsecamente sbagliato.
Motivazioni nulle, strumenti inadatti, tempi ristretti e clienti, troppi clienti, impreparati. Per Krakauer i nove morti del 10-11 maggio 1996 non ebbero una sola causa e nel suo saggio avvincente come un romanzo si sente tutta la nostra impotenza di fronte ad una natura troppo grande per essere imbrigliata in programmi di scalata e stupide frenesie da piccolo uomo incapace di accettare i propri limiti.

PREGI: Si fa leggere come uno stupendo romanzo d'avventura e allo stesso tempo fornisce tutti i dati raccolti per provare a fare chiarezza sulla vicenda.

DIFETTI: A volte Krakauer si fa trascinare dall'esperienza personale al punto da dare giudizi troppo personali su alcuni dei partecipanti, così come in Into The Wild dell'anno precedente, succedeva con le scelte di McCandless. É il caso di Anatolij Bukreev, scalatore ben più affermato, che viene in un qualche modo incolpato per certe scelte troppo azzardate che avrebbero contribuito alla tragedia.
L'altro giudizio troppo di parte riguarda le spedizioni commerciali, evidentemente osteggiante da Jon fin dalle prime pagine, nonostante la meravigliosa sensazione di trovarsi lì in quel momento proprio grazie ad esse. Insomma effetto Jurassic Park- Alan Grant, Ellie Sattler: grazie per averci regalato questo sogno, ma c'è qualcosa che non va.

INTO THIN AIR- ARIA SOTTILE
ANNO: 1997
AUTORE: Jon Krakauer
GENERE: Saggio
VOTO: 8,5



EVEREST 1996, CRONACA DI UN SALVATAGGIO IMPOSSIBILE



Il libro di Anatolij Bukreev, scritto in collaborazione con Gary Weston DeWalt (regista e scrittore) per la poca padronanza dell'inglese da parte dell'alpinista Kazako, è il secondo e più importante passo per capirci qualcosa dell'intera vicenda.
Il saggio nasce esplicitamente come risposta ad Aria Sottile che, come accennato, faceva rientrare Anatolij Bukreev tra i colpevoli dell'intero disastro.
Chiariamo subito una cosa che molti tralasciano: Krakauer non accusa Bukreev di essere l'unico colpevole e in almeno due occasioni ricorda che senza l'intervento dello scalatore russo i morti sarebbero stati molti di più. Detto questo è vero che lo scrittore americano, non potendo prendersela più di tanto con le guide morte e i relativi clienti, trova in Anatolij uno dei pochi veri responsabili sopravvissuti.
E in cosa consiste la colpa? Essenzialmente nel non aver voluto scalare l'Everest con l'ossigeno, scelta che ha portato di conseguenza la veloce ascesa e discesa di Bukreev dalla cima e quindi il non aver seguito da vicino i clienti della sua spedizione (tra cui, bisogna ricordare, non c'è stato un solo morto ad eccezione della guida Scott Fischer).
Ma la domanda è sempre la stessa: com'è Everest 1996?
Detto in una parola è noioso.
Il libro di Anatolij è una continua, imperterrita, infinita risposta al libro di Krakauer, una giustificazione qui e una giustificazione là, un “Mi dissero di far così” e “Mi dissero di far cosà” che alla centesima pagina comincia a diventare a dir poco ripetitivo.
Incredibilmente (o forse giustamente) anche la parte più attesa, quella del “salvataggio impossibile”, è resa dallo scalatore sovietico come un “andava fatto così”, che ci svela per un secondo la pasta di cui era fatto questo superuomo delle montagne (andatevi pure a leggere le biografie su internet se volete sapere quanto era considerato come alpinista a livello internazionale).
A differenza di Into Thin Air, Everest 1996 manca della ricerca giornalistica esaustiva di Krakauer e il libro sembra risentirne nel momento in cui Bukreev cerca di difendersi dalle accuse riportando le conversazioni avute con Scott Fischer di cui egli è il solo e unico testimone.
A partire da questo libro si scatenò una diatriba tra Krakauer e Gary Weston DeWalt (Bukreev morì nel dicembre 1997 durante una scalata sull'Annapurna, pochi mesi dopo l'uscita di “Everest 1996”) che continua assurdamente ancora oggi. Ai due saggi sono stati aggiunti negli anni, con sprezzo del ridicolo, postfazioni e postpostfazioni in cui gli autori si rispondono a colpi di “Io ho le prove” e “Io ne ho di più” e la cosa sembra aver avuto una nuova sferzata di energia con l'uscita del film Everest per cui Krakauer ha deciso bene di commentare con il solo: “Non è andata così, Anatolij non ha fatto questo e quello blablabla”.
Della serie: non sappiamo quando fermarci.

PREGI: Fornisce un punto di vista diverso sull'intera vicenda, quello di uno scalatore professionista che vede il mestiere della guida non come un babysitter capace di portare il cliente sulla cima della montagna passo passo, ma come un allenatore in grado di spronare e aiutare nei momenti di vero bisogno, facendo capire che se non ce la si fa da soli, non si è adatti. L'intera vicenda ha anche un lato sentimentale molto più sentito dato che la disperazione e il senso di colpa per la morte dell'amico Scott Fischer da parte di Anatolij traspare da ogni pagina.

DIFETTI: Rispetto al libro di Krakauer è scritto in modo approssimativo e ripetitivo.

THE CLIMB: TRAGIC AMBITIONS ON EVEREST- EVEREST 1996: CRONACA DI UN SALVATAGGIO IMPOSSIBILE
ANNO: 1997
AUTORE: Anatolij Bukreev; Gary Weston DeWalt
GENERE: Saggio
VOTO: 5,5



A UN SOFFIO DALLA FINE
 
 
 
Il libro di Beck Weathers, scritto insieme a Stephen G. Michaud, è sicuramente quello che si differenzia maggiormente da tutti gli altri per quello di cui si parla.
Nonostante il titolo (quello italiano, che quello inglese è ovviamente diverso) “A un soffio dalla fine” parla ben poco della tragedia sull'Everest del 1996: sono scarse le pagine dedicate alla “resurrezione” di Beck e le uniche inedite riguardano la notte d'inferno successiva al suo salvataggio, abbandonato, nuovamente, come un morto all'interno di una tenda nel bel mezzo della tempesta.
Per il resto Beck Weathers ci presenta qui la sua sincera autobiografia, con alcuni interventi scritti della moglie e un ottimismo sul futuro che sembra tanto dettato da una forte processo di psicoanalisi.
La depressione, il tentativo di sconfiggerla con la montagna e con prove fisiche sempre più azzardate, l'allontanamento dalla famiglia, il dramma dell'Everest e il ritorno ad una sorta di normalità senza un braccio, il naso e gran parte delle dita dell'altra mano.
La parte più interessante è sicuramente quella riguardante le avventure di Beck precedenti all'Everest: è l'unico libro che ci presenta le grandi escursioni guidate (tanto disprezzate da Krakauer, Bukreev e più recentemente anche dal famoso alpinista Simone Moro che le ha accusate di trasformare l'Everest in un'immensa Gardaland) dal punto di vista di un cliente “normale”, come potremmo essere noi un domani.
Beck Weathers nel corso di non troppe pagine ammette le sue fragilità, i suoi errori e il ruolo fondamentale della moglie Peach in tutta la sua vita e nella sua "seconda nascita" (così la definisce egli stesso), senza dimenticare un ringraziamento infinito al pilota colonnello Madan K.C. che all'epoca effettuò il salvataggio in elicottero alla più alta quota mai raggiunta.
Insomma una buona autobiografia di una persona piuttosto media sconvolta da un unico grande evento troppo grande per essere raccontato.

PREGI: Brevità e punto di vista di un cliente delle grandi spedizioni commerciali.

DIFETTI: Non c'è quasi nulla sulla vicenda dell'Everest nel 1996

LEFT FOR DEAD. MY JOURNEY HOME FROM EVEREST- A UN SOFFIO DALLA FINE
ANNO: 2000
AUTORE: Beck Weathers & Stephen G. Michaud
GENERE: Autobiografia
VOTO: 6


EVEREST, IO C'ERO o IL MIO EVEREST

 

Mentre leggevo “Everest, io c'ero” riuscivo a chiedermi solo una cosa: questa donna fa la motivatrice?
E se si, che cazzo sto leggendo in questo momento? Un resoconto della tragedia dell'Everest nel 1996 o un libro su come affrontare le avversità secondo un suo metodo personale (uguale a quello di millemila altri, ma che poi sicuramente lei ti dirà che solo il suo blablablabla).
Il libro di Lene Gammelgaard non è scritto male sia chiaro.
E, tra le altre cose, racconta nel dettaglio come sia riuscito a sopravvivere il numeroso gruppo disperso per un'intera notte durante la discesa dalla vetta.
Si parla di persone abbracciate durante la tormenta per tenersi calde, di tentativi più o meno riusciti per rimanere svegli e non crollare in un sonno fatale e di una tormenta di neve e gelo che in nessun libro letto è resa così bene.
E prima di tutto ciò Lene Gammelgaard è una delle pochissime a parlarci degli sherpa (l'altro è proprio uno sherpa, ma lo vedremo più avanti) del loro enorme valore per gli scalatori, delle loro pratiche religiose e dell'uomo bianco che, per la prima volta, viene qui rappresentato con tutti i suoi difetti di arroganza e supponenza.
Scritto come un diario, “Everest, io c'ero”, non è giornalisticamente preciso come Aria Sottile e nemmeno religioso come lo sarà Lo Sherpa, ma mette al centro della vicenda una donna forte che sembra riuscire a dar forza a tutti quelli che la circondano.
E la risposta è che si, oggi Lene Gammelgaard fa la motivatrice (oltre che la psicoterapeuta).

PREGI: Il punto di vista della vicenda rispetto a Krakauer è molto più umano, capace di mostrare le debolezze dell'uomo bianco e tutte le sue arroganti imprudenze.

DIFETTI: Lene Gammelgaard scrive come una mental coach della peggior specie (Roberto Re docet). Ci parla dei suoi mantra per affrontare la montagna e vincere e, non contenta, si dipinge come una sorta di fricchettona che si diverte a girare per il mondo in cerca di avventure. Insomma va bene tutto, ma sembra di leggere di un'universitaria torinese con la frangetta in gita in Nepal.

CLIMBING HIGH. A WOMAN'S ACCOUNT ON SURVIVING THE EVEREST TRAGEDY- EVEREST IO C'ERO
ANNO: 1999
AUTORE: Lene Gammelgaard
GENERE: Saggio
VOTO: 6



MOUNTAIN MADNESS

 

Se ci fosse un premio “miglior sorpresa del blocco Everest 1996” (cosa che evidentemente non c'è ed esiste solo nella mia mente bacata), andrebbe sicuramente a Mountain Madness.
Trovato per puro caso nello scaffale sportivo di una nota catena di librerie a metà del suo prezzo, Mountain Madness è la biografia di Scott Fischer, una delle due guide principali per le spedizioni di cui si parla ormai da troppe righe in questa megarecensione.
Scritta in modo piacevole e suddivisa per grandi episodi nella vita dello scalatore statunitense, è la biografia che ognuno vorrebbe vedere scritta per sé alla propria morte (ma anche prima, che se no fai la fine di Niccolò Fabi in "Rosso").
La penna è quella di un amico che senza dubbio tende a lodare troppo vizi e virtù di un Ammericano con la A maiuscola (energia, voglia di arrivare, spregiudicatezza blablabla), ma capace di trasmettere davvero quella voglia di vivere e di coinvolgere tutti che Scott Fischer possedeva.
É vero, come si legge da più parti su internet, che la morte di Scott può essere presa solo come una diretta conseguenza della sua incoscienza che l'ha portato più di una volta a rischiare la vita, ma come scrive anche Lene Gammelgaard nel suo libro, era ovvio che Fischer morisse in montagna, sfortuna vuole che fosse proprio durante quella spedizione.
La biografia di Scott è di quelle da raccontare ai propri figli, completamente diversa da quella di un uomo medio come Beck Weathers (quale lui stesso si definisce), piena di avventura, di azzardi, di rischi non sempre completamente ripagati e in definitiva piena.
L'uomo che appare dipinto in tutti gli altri libri come un coglione pieno di sé (tranne che da Lene Gammelgaard che ne fa un ritratto da innamorata), è qui un avventuriero capace di sorridere di fronte ad ogni avversità, un esperto alpinista che è diventato tale grazie ad una serie di cadute e infortuni che avrebbero steso a terra anche un elefante e soprattutto un uomo nato per scalare le montagne che non ha fatto altro nella vita che seguire il suo istinto e non arrendersi di fronte a nulla.

PREGI: La biografia è scritta incredibilmente bene e l'edizione italiana merita anche solo per l'impaginazione elegante e la cura nei piccoli dettagli. É anche l'unico libro dei sei ad essere realmente emozionante.

DIFETTI: Birkby a volte si fa prendere la mano e sorvola su alcuni difetti di Scott, etichettandoli come semplici lati del suo carattere. Un unico capitolo è dedicato alla tragedia del 1996 e vive, per forza di cose, di ricordi e documentazioni altrui, non essendo l'autore presente al momento della scalata.

MOUNTAIN MADNESS, SCOTT FISCHER, MONT EVEREST & A LIFE LIVED ON HIGH- MOUNTAIN MADNESS
ANNO: 2009
AUTORE: Robert Birkby
GENERE: Biografia
VOTO: 8


LO SHERPA



“Lo sherpa” è l'ultimo libro di cui sono venuto in possesso (ne ho trovata una copia usata dopo estenuanti ricerche dato che è fuori catalogo) ed è anche il più particolare del lotto.
Nonostante in Italia venga presentato come il racconto del capo degli Sherpa della spedizione del 1996, il saggio di Norgay ha poco a vedere con la stessa, dato che lo sherpa non è stato coinvolto direttamente nella tragedia. Semplicemente, senza andare a scomodare la solita storia che potete trovare riassunta nell'incipit, Tenzing si trovava sull'Everest con una terza spedizione nello stesso momento in cui i gruppi di Rob Hall e Scott Fischer decisero di attaccare la vetta. Questo portò inevitabilmente al coinvolgimento del gruppo di Tenzing, sulla montagna per filmare un documentario per la IMAX, che si diede da fare in ogni modo per le operazioni di salvataggio.
La realtà, quella non scritta sulla copertina strillante de Lo Sherpa, è che il libro parla di tutt'altro.
Racconta la storia di Jamling Tenzing Norgay, figlio del famoso Tenzing Norgay che nel 1953 scalò per primo la vetta dell'Everest con lo scalatore Edmund Hillary, della sua voglia di ripetere le gesta del padre, della sua prima e unica avventura sul Sagaramatha (il nome nepalese dell'Everest) e del suo riavvicinamento alla religione buddista.
Nato in Nepal, ma laureato negli Stati Uniti, Norgay si presenta all'inizio del libro come un orientale che ha perso molto dei suoi usi e costumi e che, durante la vicenda, cercherà di riappropriarsene poco alla volta, anche senza volerlo.
“Lo Sherpa” parla molto di religione buddista, cosa di cui ammetto sapevo ben poco e molto poco degli aspetti tecnici della scalata a cui si preferiscono brevi racconti su momenti religiosamente fondamentali.
Ci sono le profezie infauste, i comportamenti blasfemi dell'uomo bianco sulla montagna sacra (qui vengono a galla atteggiamenti a dir poco discutibili delle compagnie di Rob Hall e Scott Fischer a cui stranamente nessun altro fa riferimento) e il lento riavvicinarsi di Norgay allo spirito di suo padre e alla sua religione d'origine.
I capitoli sono sempre divisi a metà con un interessante parallelo tra la scalata di Jamling e quella, molto più difficoltosa e interessante, del padre.
Non è un libro avventuroso e nemmeno un preciso reportage giornalistico, nel mezzo si impantana in una serie di descrizioni e precisazioni buddiste di cui si potrebbe fare anche a meno (anche perché ci sono non poche ripetizioni degli stessi concetti), ma “Lo sherpa” fornisce un punto di vista più sincero e meno occidentale di quello che significavano le spedizioni commerciali nel 1996 e di quella che fu una delle più grandi imprese nel 1953, quella scalata del monte Everest che ad oggi, dopo 50 anni di scalate e su 7 miliardi di persone, è riuscita solo a 4000 superumani.

TOUCHING MY FATHER'S SOUL: A SHERPA'S JOURNEY TO THE TOP OF EVEREST- LO SHERPA
ANNO: 2001
AUTORE: Jamling Tenzing Norgay & Broughton Coburn
GENERE: saggio
VOTO: 6,5


SULLA CIMA DELL'EVEREST



Sulla cima dell'Everest è il classico raccoltone Newton Compton con dentro di tutto un po'.
In realtà mi sono limitato a leggere la lunga introduzione e le parti riguardanti il disastro del 1996 tra cui i due racconti di Anatoli Boukreev e Beck Weathers (niente di nuovo che non avessi visto nei loro libri) e l'inedito “Incubo” di Matt Dickinson.
Per tutto il resto ci sarà tempo e modo (ho già un'idea di quando leggerlo e come accorparlo ad un altro libro sull'Everest).
Di Matt Dickinson esiste un libro non tradotto in italiano che racconta per intero la sua vicenda e che ho disperatamente cercato di recuperare fino a che non ho compreso, grazie al racconto in questione, che il suo saggio riguarda la facciata Nord dell'Everest, quella in cui, nello stesso tragico giorno della scomparsa di Fischer e di altre 5 persone, morirono 3 scalatori.
Altra facciata, altro disastro. Sarà per un altra volta.
In ogni caso il breve racconto di Dickinson racconta uno dei momenti di estrema difficoltà durante la scalata e non è affatto male per come rende la tensione della situazione.

THE MAMMOTH BOOK OF EVEREST- SULLA CIMA DELL'EVEREST
ANNO: 2015
AUTORE: Curato da Jon E. Lewis
GENERE: saggio
VOTO: n.d.

                                                                                                                                  Continua...

domenica 24 gennaio 2016

LEZIONI DI VITA

Questa recensione è stata scritta il 2 aprile 2013 e rivista completamente il 24 gennaio 2016


Erano le 10.30 di sera e io stavo girovagando nella libreria da 2 ore.
Avevo visto tutti i titoli Feltrinelli, i Mondadori, gli Einaudi e i Garzanti. Ero passato alle biografie e avevo gettato un occhio ai libri di storia. Mi ero avvicinato allo scaffale della fantascienza senza dimenticarmi dei libri musicali, di quelli cinematografici e pure delle raccolte di poesie che tanto non comprerò mai. Ero andato a vedere cosa c'era nella saletta per i bambini (non sia mai, che magari mi perdo un capolavoro nascosto tra gli attacca-stacca..) e avevo pure fatto finta di osservare i thriller prima di aggirarmi con lo sguardo perso nell'immenso settore dedicato ai libri fotografici e d'arte di cui non capisco un emerito cazzo.
Non avevo trovato niente. Niente di niente.
Capitano, rarissimamente ma capitano, quei giorni in cui non sono ispirato e tra centinaia di titoli tra cui solitamente non saprei scegliere se comprare quei 5 libri o quegli altri 5 (finendo poi per comprarli tutti e 10, ma in due giorni diversi così mi sento meno in colpa), non trovo nulla.
Erano le 10.30 di sera di un mercoledì qualsiasi di un mese qualsiasi quando decisi che, essendo l’unico cliente fino a quel momento, non potevo uscire a mani vuote facendo finta di nulla come al solito.
Va bene girare e rigirare e ririgirare e sfogliare e risfogliare e ririsfogliare, ma dopo due lunghissime ore (peraltro notturne) vuoi dirmi che non hai trovato assolutamente nulla da comprare in una libreria di 5 stanze con gli scaffali alti fino al soffitto? Un thriller, un classico, un libro di fotografie, un manuale di cose da fare al mercoledì sera alle 10.30, qualcosa ci deve essere.
Io quella sera me ne uscii con Boom.
Un altro giorno, si parla di 12 anni fa, feci lo stesso ragionamento in un negozio di dischi e me ne andai con un disco dei Killswitch Engage in borsa perché, cito (mie) testuali parole riferite all’amico, “Mi piace la copertina”. “Ma non li conosci!!!” “Si, ma la copertina è bella quindi…”.
Quindi niente. Al tempo ascoltavo New Metal (o new rock come lo chiamarono di li a breve o crossover come lo chiamavano prima o merda secca di fine anni ’90 come lo chiamano ora) e i Killswitch Engage non sapevo assolutamente chi fossero. Venne fuori che, per purissimo caso, i Killswitch Engage erano new metal, o qualcosa di simile, ma alla seconda canzone si scoprì anche la cosa più importante: quell’album pagato 40.000 lire (a scriverlo già mi fa innervosire) era una completa, totale, incredibile merda.
Non imparai la lezione, questo dovrebbe esservi ormai chiaro, ma decisi che di lì in poi, se proprio dovevo comprare qualcosa per non sentirmi in colpa delle mie interminabili ore passate a girovagare per negozi di musica-libri-film, l’avrei pagato poco e sarei stato moooolto attento nella scelta.
E quindi ho scelto Boom: un libricino di 150 pagine scritto largo, pagato 8 euro, che parla di due ragazzini invischiati in un’avventura fantascientifica con professori alieni, ragni parlanti e passaggi spazio temporali.
Insomma, non ho imparato veramente una beneamata ceppa, ma ho avuto perlomeno un buonissimo assaggio di simpatica fantascienza per i più piccoli (altro che Killswitch Engage...)
 
BOOM!- BOOM! OVVERO: LA STRANA AVVENTURA SUL PIANETA PLONK
ANNO: 2009
AUTORE: Mark Haddon
GENERE: Fantascienza
VOTO: 7,5

lunedì 11 gennaio 2016

UNA CLASSIFICA DAL 2015

Da quando il blog è ripartito tra mille difficoltà e poco, pochissimo, pocherrimo tempo da dedicargli, è apparsa una sola recensione cinematografica (per quel "capolavoro" di The Martian per cui Matt Damon chiede un Oscar a Ridley Scott...) e la cosa fa abbastanza ridere a pensarci bene. Chi mi conosce bene sa (e ora lo sapranno anche gli altri) che leggo in media 3-4 libri al mese, ma vedo almeno il doppio dei film nello stesso lasso di tempo.
Perché quindi così tante recensioni librarie e così poca celluloide? Sinceramente non ho idea. Sarà che la celluloide non la usano più per le pellicole dal 1954, ma io non trovavo un altro sinonimo, sarà che la metà dei film visti sono opere senza arte né parte, sarà che scrivere male di ogni film brutto mi porterebbe via troppo tempo (e credetemi spesso me li vado proprio a cercare), sarà che in questi ultimi 2-3 anni non ho nessuna voglia di scrivere di cinema dopo altrettanti passati a scrivere solo di quello, sarà sarà, sarà quel che sarà.
Rimane il fatto che vedo troppi film e non farne una classifica a fine anno (ma anche all'inizio di quello seguente) mi sembrerebbe uno spreco enorme.
Ecco quindi tra i 75 film visti, i miei 10 film preferiti (più uno) e i miei dieci orrori (più uno) usciti nel 2015 al cinema in Italia, con un brevissimissimo commento a lato.
Da notare che, ovviamente, mancano alcune pellicole che mi incuriosivano, ma non sono ancora riuscito a recuperare come The Lobster, Il ponte delle spie e Masha & Orso.

PS: I titoli sono riportati in lingua originale solo nel caso in cui differiscano dall'italiano. Il nome che vedete a lato è ovviamente il regista.

I MIGLIORI (Dal meno bello)

+1) PAN: VIAGGIO SULL'ISOLA CHE NON C'È Di Joe Wright
Fresco e per una volta davvero Peterpanesco. E poi ci sono i Ramones e i Nirvana.

10)STILL ALICE Di Richard Glatzer e Wash Westmoreland
Per Julianne Moore

9)FURY Di David Ayer
Se persino Shia Labeouf e Michael Pena sembrano bravi dev'esserci un motivo.

8)PAS SON GENRE- SARÀ IL MIO TIPO? Di Lucas Belvaux
Perchè i francesi sono gli unici a produrre "commedie" romantiche ben fatte.

7)THE HUNGER GAMES: MOCKINGJAY PT II- HUNGER GAMES: IL CANTO DELLA RIVOLTA PT II Di Francis Lawrence
Jennifer Lawrence vale sempre il biglietto e questo è il miglior capitolo insieme al primo.

6)THE BABADOOK- BABADOOK Di Jennifer Kent
Un horror che non è un horror davvero bello. Praticamente un miracolo.

5)EX MACHINA Di Alex Garland
Se non esistesse George Miller il miglior film di fantascienza dell'anno.

4)HRÙTAR- RAMS: STORIA DI DUE FRATELLI E OTTO PECORE Di Grìmur Hàkonarsonl
Con il titolo più spoileroso dell'anno riesce ad essere comunque incredibilmente toccante.

3)OMOIDE NO MANI- QUANDO C'ERA MARNIE Di Hiromasa Yonebayashi
Ah, i cartoni giappu che fanno piangere.

2)WHIPLASH Di Damien Chazelle
Oscar meritatissimi.

1)MAD MAX: FURY ROAD DI George Miller
Forse il migliore film di fantascienza degli ultimi 10 anni.



I PEGGIORI (Dal meno brutto)

+1) AVENGERS: AGE OF ULTRON Di Joss Whedon
Che bordello, il troppo stroppia.

10)INHERENT VICE- VIZIO DI FORMA Di Paul Thomas Anderson
Amo Anderson e Phoenix eppure qui c'è troppo di entrambi.

9)IRRATIONAL MAN DI Woody Allen
Ti prego smettila Woody.

8)ANT MAN Di Peyton Reed
Alla morte della formica volante volevo morire.

7)BLACK MASS: L'ULTIMO GANGSTER Di Scott Cooper
Ti prego smettila anche tu Johnny Depp.

6)SOPRAVVISSUTO: THE MARTIAN Di Ridley Scott
Il nerd che ci spiega con l'aeroplanino di carta il suo strabiliante piano.

5)EXODUS: GODS AND KINGS- EXODUS: DEI E RE Di Ridley Scott
Ridley Scott for president. Qui siamo ai livelli di Emmerich.

4)SAN ANDREAS Di Brad Peyton
Bentornati fine anni '90, inizio 2000.

3)THE AGE OF ADALINE- ADALINE: L'ETERNA GIOVINEZZA Di Lee Toland Krieger
Scritto da una scimmia.

2)WOLF TOTEM- L'ULTIMO LUPO Di Jean Jacques Annaud
Unisce lentezza e sconclusionatezza, non è facile.

1)LEFT BEHIND: LA PROFEZIA Di Vic Armstrong
Qui siamo ai livelli di film action per la domenica pomeriggio di Italia 1 negli anni '90 (che su Cielo adesso son persino più belli). Sceneggiatura ridicola, scenografie orrende, girato letteralmente con le chiappe e colonna sonora a cazzo di cane che neanche Beautiful. E poi c'è Nicolas Cage.