venerdì 28 settembre 2007

LE CINQUIèME éLéMENT- IL QUINTO ELEMENTO


Pessimo.
E a tratti imbarazzante.
Non ci sono altre parole per una pellicola che è riuscita più di qualsiasi altra in questo periodo a stupirmi in negativo.
Sarà stato il fatto di averne letto bene e sentito parlare ancora meglio da molte persone ma a me sto film proprio non è andato giu.
Una storia che pretende di essere seria e non fa altro che ridicolizzarsi ogni secondo che passa: si parte dall’ Egitto del 1914 e si arriva ad una Manhattan futuristica (con tanto di taxi volanti e qualsiasi cazzata possiate pensare ci sia nel futuro più fanta- americano possibile) del 2259 per la ricerca di un quinto elemento (ed evito di ricordare quale sia per non smettere di scrivere) che potrebbe salvare la Terra e i buoni in generale dai cattivoni che ogni 5000 anni minacciano la distruzione del mondo.
Un Bruce Willis protagonista che copia se stesso in 100 altri film, tra cui il poliziotto incazzato ma simpatico e un po’ pasticcione di Die Hard (non che non apprezzi il ruolo però qui davvero è quasi insopportabile).
Un Gary Oldman nei panni del suo antagonista quanto meno ridicolo con la testa mezza rasata coperta da un capolino trasparente (oddio).
Una Milla Jovovich la cui frangetta molto anni ’90 non può di certo salvare un film già di per se non salvabile (gentile parafrasi di una frase del mio compagno di visione che non è stato così educato nei confronti della signorina…).
Una serie di personaggi tra cui un dj molto gaio francamente insopportabile e senza alcun senso.
Una varietà di alieni davvero brutti, mal fatti e terribilmente grotteschi nella loro goffaggine (i primi robottoni nella piramide già non li potevo vedere dopo due minuti).
Una sfilza di costumi disegnati da un certo Gaultier davvero tremendi e senza alcun senso che non sia quello di farci esclamare: “Guarda come ci vestiremo nel futuro! Sembreremo tutti zoccole e travestiti (senza alcuna offesa per le due rispettabilissime categorie, ma non credo che tutti indosseranno certe oscenità nel futuro)”.
Una sceneggiatura che non sa decidersi tra il semiserio e il faceto risultando così un’ accozzaglia di luoghi comuni, scene viste e straviste (una per tutte la partenza dell’ astronave che coincide con l’ orgasmo di una hostess e l’ esplosione in mille pezzi di un cattivo), dialoghi che sai già come finiscono dopo una parola e prevedibili storie d’ amore.
Una serie di effetti speciali semplicemente esagerati nel loro voler sembrare grandiosi a tutti i costi con il risultato di apparire talvolta solamente brutti (l’ ultima scena con la fuga di Willis sull’ astronave sembra un richiamo a quelle scene dei film degli anni ’60 dove vedevi il tipo che guidava e lo sfondo che si muoveva per finta).
Una regia francamente inesistente concentrata com’ è nella produzione di un film più all’ americana possibile.
Se volete spiegarlo dicendomi che è Luc Besson e che non potevo pretendere “2001 Odissea nello spazio” da un regista che fa della spettacolarità e dell’ esagerazione il suo forte vi dico che anche “Le grand Bleu” e “Leon” sono esagerati, ma sono bei film.
Se la vostra giustificazione è che è un film da prendere così come si presenta: una quasi- parodia di tutti i luoghi comuni dei film di fantascienza americani degli anni ’80 vi rispondo subito che per tanto così mi guardo “Atto di Forza”, che almeno mi fa davvero ridere.
Se non è una semi- parodia siam piazzati male e basta.
Se provate a dirmi che però le scenografie disegnate da un certo signor Moebius con l’ aiuto di Jean- Claude Mezières sono belle potrei anche darvi ragione ma sinceramente se compro una scatola di scarpe vorrei ricevere anche il contenuto oltre alla scatola.
Se avete qualche altra giustificazione per salvare un film a mio parere semplicemente insignificante ditemi pure ma sarà difficile che cambi idea.
Osannato come simbolo di un cinema Europeo capace di sfidare quello Americano sul suo stesso campo (grandi produzioni, storie enormi, effetti speciali a profusione e chi più ne ha più ne metta), “Il quinto elemento” di Luc Besson a me è sembrato solo un pessimo film con troppe pretese.
REGIA: Luc Besson
ANNO: 1997
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4
CONSIGLIATO A CHI: vuole vedere un film di fantascienza con una storia e un protagonista davvero molto anni ’80 ma senza la freschezza e l’originalità di quegli anni.
QUANTO SEMBRA UN ATTORE SERIO LUKE PERRY IN MEZZO A QUEST’ ACCOZZAGLIA DI PERSONAGGI RIDICOLI: 7.

martedì 25 settembre 2007

THIS ISLAND EARTH- CITTADINO DELLO SPAZIO


Va bene.
Facciamo finta di nulla.
Fingiamo che io non abbia visto questa pellicola solo perché era segnalata sulla filmografia di Jack Arnold.
“Cittadino dello spazio” fa il suo debutto in sala (anche se sarebbe sempre meglio dire al drive in questi casi) nel 1955 e si presenta fin da subito come una delle più magniloquenti produzioni di fantascienza del tempo.
Innanzitutto il colore in technicolor, cosa assai rara per la sci- fi di quegli anni che, essendo destinata essenzialmente ad un pubblico di ragazzini, non andava molto per il sottile su effetti speciali e finezze varie (il colore questo sconosciuto!).
A seguire gli effetti speciali, un ambientazione non più ristretta ad un deserto, una finta palude ed un laboratorio spoglio e scenografie imponenti.
Questa volta William Alland, produttore di “Destinazione Terra”, “Il mostro della laguna nera”, “La vendetta del mostro” e “Tarantola” (tanto per citarne qualcuno), decide che è ora di fare davvero sul serio, di elevare una volta per tutte l’ amata fantascienza a qualcosa di più che a un mero prodotto per spaventare le ragazzine nei drive in.
Alla regia si presenta Joseph Newman, regista di alcuni buoni polizieschi nei ’40 e nei ’50 ma completamente a digiuno di sci-fi fino ad allora.
La storia si basa invece su “The alien Machine” di Raymond Jones e viene adattata per lo schermo da Franklin Coen.
Pronti? Via!
Cal Meacham è uno scienziato che si occupa della commistione tra nucleare ed elettronica e viene un giorno contattato attraverso un interocitor (una sorta di telefono-video!) dal misterioso Exeter, in grado di fornirgli qualsiasi nuovo incredibile mezzo in cambio della sua disponibilità a far parte di un progetto che comprende altri scienziati per cui dovrà lasciare l’ attuale impiego.
Il protagonista accetta e si ritrova in una base sperduta nel nulla in compagnia di tanti altri illustri scienziati tra cui la vecchia compagna Ruth Adams, il buon Steve Carlson e il misterioso Exeter la cui fronte altissima e deformata fa venire fin da subito qualche dubbio sulla sua provenienza.
In seguito alla terribile scoperta sulla lobotomizzazione dei geniali professori presenti nella base per annullare la loro volontà, i tre protagonisti tentano la fuga ma Steve viene completamente disintegrato da un raggio laser mentre Cal e Ruth, convinti di avercela fatta, vengono risucchiati all’ interno di un’ astronave tramite un raggio attraente che tanto ricorda quello presente nei Simpson che ha serie difficoltà a portare Homer a bordo.
Exeter all’ interno del disco volante spiega così ai due la terribile situazione del suo pianeta, ormai quasi distrutto dagli attacchi del pianeta nemico Zargon e tenta gentilmente di convincerli a partecipare alla missione di salvataggio chiedendo perdono per i metodi spicci con cui sono stati reclutati.
La camera di convergenza presente nell’ astronave (un tubo trasparente) aiuterà i nostri ad abituarsi alla pressione di Metaluna (la terra di Exeter), “pari a quella degli oceani più profondi della vostra Terra”, prima di arrivare sul pianeta dove avrà luogo l’ incontro con il Monitore, capo supremo di Metaluna, e con il terribile BEM (Bug Eyed Monster).
Nel finale… il finale ve lo guardate voi: non sono tipo da svelare i finali io ne tantomeno una wikipedia ambulante.
Se sono stato abbastanza bravo nel raccontarvi questa storia vi sarete subito resi conto come la pellicola prenda fin da subito le distanze con il classico plot fantascientifico degli anni ’50: se fino ad allora tutto si basava sull’ incontro con il nemico (il diverso, il mostro) e sul successivo scontro con esso potrete facilmente notare come in “Cittadino dello spazio” siano due le trame da seguire, divise nettamente dalla scena della cattura di Ruth e Cal.
Nella prima parte il film si basa sul mistero che avvolge Exeter e il suo progetto, sulla scoperta dei tre ed infine sulla loro fuga, ben diversa dalla lotta a cui siamo stati abituati con il nemico, questa volta troppo superiore rispetto all’ uomo.
La seconda parte, come detto, inizia con la cattura dei protagonisti, prosegue con la scoperta della vera natura di Exeter (gli umani non fanno una piega di fronte a tutto ciò) e si conclude con l’ arrivo su Metaluna, preludio di quello che può benissimo essere considerato un passo da gigante nelle trame sci-fi dell’ epoca. Senza svelare nulla riguardo al finale si può dire che l’ alieno viene, per la prima volta in questa pellicola, visto come un essere totalmente buono.
A differenza del mostro della laguna nera o degli alieni di “Destinazione Terra” a cui si cercava di dare una giustificazione per il comportamento scorretto, spesso dettato dalle colpe degli umani, Exeter si muove semplicemente per salvare la sua gente, ormai costretta a vivere sottoterra nella tecnologicamente avanzata Metaluna, a causa dei continui bombardamenti di Zargon.
Bisogna poi far notare come, finalmente, gli alieni siano visti come una società gerarchica simile alla nostra (e non più semplici mostri con 3 occhi, 2 teste, 4 nasi, 5 braccia), con cittadini dalle personalità diverse da quella di Exeter come quella del Monitore che avvisa i terrestri della loro inferiorità che significherebbe una sottomissione ai Metaluniani nel caso della venuta di questi ultimi sulla Terra.
Infine il BEM con la sua enorme massa cerebrale scoperta e i suoi artigli, inserito in una particolare classifica che elenca gli esseri più terrificanti nella storia del cinema subito dietro ad Alien, è lo schiavo dei Metaluniani, creato da essi stessi per servirli, richiama alla mente il classico mostro a la Jack Arnold, cattivo si, ma per ottime ragioni.
Ecco, appunto, Jack Arnold.
Se si va a spulciare un po’ su internet salterà subito all’ occhio la presenza nel cast dei tecnici di questa pellicola, di molti nomi facenti parte dell’ entourage dell’ amato regista.
Dal produttore Alland al disegnatore dei costumi (Rosemary Odell, la stessa di “Destinazione Terra”), dal truccatore del mostro (Bud Westmore, lo stesso de “Il mostro della laguna nera” e di “Destinazione Terra”) al curatore degli effetti speciali non accreditato Charles Baker che lavorerà nel ’57 a “Radiazioni bx distruzione uomo”.
Ma allora Arnold che fine ha fatto?
La prima scelta ricadde ovviamente su di lui ma fu subito sostituito da Joseph Newman (molto probabilmente perché Jack nello stesso anno girò altre due pellicole) il quale, come detto, non aveva alcuna esperienza nel campo della fantascienza.
Il risultato è una regia piatta, piattissima se confrontata alla stile roboante di Arnold.
Le inquadrature sono fisse, quasi immobili, come se si dovesse girare un melodramma e se da una parte favoriscono la bellezza di certe fantastiche immagini da cartolina con sfondi da sogno, dall’ altra riescono ad annoiare nonostante ci si trovi di fronte a una storia davvero ben scritta e con buone recitazioni.
Per questo alla fine delle riprese Jack Arnold venne richiamato in fretta e furia dalla produzione, delusa delle ultime riprese sul pianeta Metaluna, e gli venne chiesto di rigirare e rimontare l’ ultima parte della pellicola (anche se incredibilmente il suo lavoro non gli viene accreditato nei titoli)
Senza farci nemmeno tanta attenzione si può notare come il film diventi, dallo sbarco su Metaluna, uno sci- fi alla Jack Arnold a tutti gli effetti: alieni molto più crudeli (il monitore), scene di tensione con i continui scoppi sulla superficie Metaluniana e soprattutto il BEM, il cui costume era stato scartato per “Destinazione Terra”, che rappresenta il classico mostro tanto caro al regista capace di spaventare l’ eroina Ruth che solo da questo momento comincia ad urlare come si deve.
Insomma che dire?
La pellicola, spesso indicata come la prima vera e propria space opera va senza dubbio a collocarsi tra i migliori film di sci- fi anni ’50 per la grandiosità della produzione, per le scenografie fantastiche di metaluna (certo sono disegni sul fondo ma quanto sono suggestivi?), per il punto di rottura che rappresenta nella figurazione degli alieni, ma la domanda che continua a girarmi in testa è : non poteva essere meglio?
Senza dubbio una regia più capace avrebbe potuto rendere meglio la tensione prima della scoperta dell’ alieno Exeter mentre questo cambio di regia in corsa fa sembrare il finale persino troppo diverso da tutto il resto; è come se durante una tranquilla passeggiata ad un certo punto una mano invisibile cominciasse a spingerti per farti accelerare sempre di più fino a farti venire il fiatone.
O una cosa o l’ altra.
Per questa volta mi accontento di un bellissimo classico della fantascienza anni ’50.
REGIA: Joseph M. Newman
ANNO: 1955
GENERE: Fantascienza
VOTO: 8
QUANTO SI ISPIRANO GLI ALIENI DI “MARS ATTACK” DI TIM BURTON AL BEM: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole godersi una delle prime pellicole di fantascienza dal grande budget a cui seguirà l’ anno seguente l’ acclamato “Il pianeta proibito”.

sabato 22 settembre 2007

MARATHON MAN- IL MARATONETA


Babe corre.
Corre per diletto Babe.
Corre per allenarsi alla maratona, pur non avendone mai corsa una.
Ma lui spera di parteciparvi e vincere.
Babe corre in un incantevole parco sulla riva del fiume, tiene il tempo, cerca di migliorarsi, evita cani che lo vogliono mordere ed incrocia altri corridori.
Babe corre all’ università.
La sua mente corre, è più svelto degli altri, non risponde alle domande, lui è già alla tappa successiva.
Babe corre nel suo passato, si rivede innocente sull’ altalena, si rivede colpevole un attimo più tardi di fronte al suicidio del padre.
Babe ha un fratello, Henry.
Anch’ egli corre.
Per Babe, Henry “sta negli affari”, nel petrolio più che altro.
Henry invece corre in tutt’ altra direzione.
Henry fa il lavoro sporco per il governo, fa il doppiogiochista per cavarsela, ma non sempre riesce ad arrivare al traguardo.
Henry raggiunge per l’ ultima volta il traguardo di fronte a Babe, poi crolla esanime al suolo, troppo sforzo per un corpo comunque più forte di quello del padre.
Babe osserva, mentre la sua mente cerca di correre lontano, la traccia del gessetto che segnala l’ ex presenza del corpo del fratello nel suo appartamento.
Babe corre e brucia le tappe nel corteggiamento di Elsa che lo avverte subito che il loro amore non può avere un seguito, ma Babe è testardo, lui quando corre non pensa ad altro.
Babe non riesce a correre per la prima volta imprigionato nel suo bagno, mentre misteriosi rapinatori cercano di entrare distruggendo i cardini della porta, le sue urla di disperazione corrono fuori dalla finestra rotta ma non bastano.
Babe non è sicuro.
Non è sicuro di quel che sta accadendo.
Non è sicuro di chi sia quell’ anziano signore di fronte a lui dall’espressione glaciale.
Anzi “Si è sicuro, molto sicuro, sicurissimo, ci può giurare!”
O forse “No, non è sicuro, è pericoloso, bisogna che stia attento”.
Babe è sicuro solo di una cosa: correre lo salverà perché, come disse il suo eroe etiope Abebe Bikila, vuol far sapere che il suo Paese ha sempre vinto con determinazione ed eroismo e non con doppigiochi e torture come credono di fare l’ amico del fratello e il nazista Christian Seltz.
Non ci avete capito nulla?
Bene. Certe cose si capiscono solo dopo aver visto “Il maratoneta” e non prima.
“Marathon Man” nasce da un romanzo di Goldman adattato da lui stesso per il grande schermo con la regia di John Schlesinger, classico regista che ti chiedi sempre chi è ma poi scopri essere uno di quelli con le palle, capace di girare in meno di dieci anni tra il 1969 e il 1976 di questa pellicola tre capolavori come “Un uomo da marciapiede” (3 oscar a regia, film e sceneggiatura), “Domenica, maledetta domenica” e il film qui recensito.
“Il maratoneta” è un thriller.
No, non è “Seven”, ne “Il silenzio degli innocenti” ne qualsiasi cosa si intenda per thriller oggi.
“Il maratoneta” è un thriller di quelli come si facevano una volta, magari abbastanza prevedibile per lo spettatore di oggi ma capace di farlo rimanere incollato alla poltrona per il grado di realismo talvolta disturbante che raggiunge.
Come si fa a non farsi prendere dal panico con Babe chiuso in bagno in preda alla disperazione più totale nel tentativo di trovare una via di fuga?
Come comportarsi di fronte a due folli in macchina che corrono parallelamente sulla stessa strada strettissima insultandosi come pochi fino a schiantarsi?
Cosa pensare durante l’ infinita fuga a piedi di Babe sulla superstrada inseguito da una macchina piena di pazzi furiosi?
E soprattutto: come cazzo si fa a non farsi venire i brividi mentre quel pazzoide di Szell collega la spina alla corrente e decide che è ora di trapanare un dente sano del povero Babe fino al nervo per farlo confessare (la scena era in realtà molto più lunga ma venne abbreviata dal regista di fronte alle reazioni scomposte della sala alla prima proiezione)?
“Marathon man” si può vedere quindi come un insieme di splendide fotografie in movimento: ogni inquadratura è ben studiata per far entrare lo spettatore all’ interno di quel bagno angusto o di quella sala spoglia con una sola poltroncina in mezzo e se ancora non bastasse ci pensano uno straordinario Babe Dustin Hoffman e il vincitore del golden globe come miglior attore non protagonista Laurence Olivier nei panni del freddo Szell a farci sentire la tensione che permea tutte le scene.
La critica al sistema americano si esprime tutta nel suicidio del padre di Babe, arrivato ad un punto in cui era impossibile per lui dividere ciò che era bene da ciò che era male impegnato com’ era ad infrangere la legge per servire il suo Paese mentre quella al nazismo risulta assai meno velata e senza dubbio più cruda anche se Schlesinger tenta di dare una spiegazione alla follia nazista con le parole di Szell che sostiene: “Anche noi ci credevamo al nostro Paese”.
Babe corre, fino al traguardo, fino alla vittoria.
Per dimostrare la sua forza, per slegarsi dal confronto con il padre, per superarlo finalmente, Babe corre.
((Per Leo che non smette mai di dare buoni consigli))
REGIA: John Schlesinger
ANNO: 1976
GENERE: Thriller
VOTO: 8
QUANTO FA VENIR VOGLIA DI ANDARE DAL DENTISTA: 0
CONSIGLIATO A CHI: Non vuole perdersi una scena di fuga a piedi straordinaria oltre alla scena del dentista senza dubbio tra le più angoscianti mai viste al cinema.

lunedì 17 settembre 2007

THE CREATURE WALKS AMONG US- IL TERRORE SUL MONDO


Questo è un atto d’amore.
E come tutti gli atti d’amore non può essere compreso da nessuno che non sia innamorato della stessa persona.
Per questo quasi nessuno riuscirà a leggere questa recensione fino in fondo.
E me ne scuso.
Ma chi ci arriverà forse capirà, forse.
Nel 1956 William Alland produttore del primo storico “Il mostro della Laguna Nera” e scrittore del soggetto del seguito richiama alla sua corte Jack Arnold per la produzione di un ideale terzo episodio sul mostro, ma il maestro della sci-fi anni ’50 non convinto e forse con un indigestione di sci-fi (nel 1955 girò ben 3 pellicole di genere) rifiuta la regia che passa al semisconosciuto John Sherwood (già assistente di Arnold).
Anche il cast, esattamente come nel passaggio tra il primo e il secondo capitolo, viene completamente rivoluzionato con la sola conferma di Ricou Browning all’ interno dell’ amato costume di gomma del mostro per le scene acquatiche.
Già, il costume di gomma.
Vittima in questa pellicola di un brutale cambiamento dovuto a esigenze di sceneggiatura.
Ma andiamo con ordine.
Il film inizia esattamente come gli altri due con la ripresa di una barca dall’ alto.
Questa volta però non si tratta della solita carretta spersa nell’ Amazzonia con a bordo quel matto del capitano Lucas e il solito equipaggio sparuto.
Ci si trova davanti a un gran barcone, con tanto di capitano ben vestito, assistente, guida e 3 dottori specializzati in genetica, radiologia e biochimica più il dottor Barton a capo della spedizione e l’ affascinante moglie Marcia.
Levata l’ ancora il gruppo parte alla ricerca del mostro dotato di un sonar (dispositivo allora assai innovativo) e dell’ ormai classica attrezzatura subacquea con veleni, sonniferi e fucile.
Giunti nel luogo dove è stata segnalata l’ ultima apparizione della creatura il dottor Morgan (genetica) e la guida Grant decidono di immergersi seguiti da Marcia che riesce a spuntarla contro il marito padrone che tende a tenerla quasi nascosta al resto dell’ equipaggio per una gelosia decisamente maniacale.
L’ immersione conferma l’ idea che ci si può fare di questa pellicola fin dall’ inizio: se il secondo ma soprattutto il primo episodio rappresentavano un mondo selvaggio dove si muovevano uomini duri ma con un cuore, questa volta ci si trova davanti a uomini di scienza all’ interno di un mondo quasi perfetto che non ha più nulla di quell’ aria incontaminata e inquietante che permeava l’ ambiente nei capitoli precedenti (basti vedere l’ ambiente marino assolutamente perfetto di questo episodio contro le acque torbide e piene di alghe della palude ne “Il mostro della laguna nera”).
La prima apparizione del mostro con l’ ormai classico tema musicale avviene proprio qui ma la cattura viene rimandata per la “malattia del palombaro” occorsa a Marcia (ancora una volta si tratta di narcosi da azoto, già descritta in “Le grand Bleu”).
Ci si sposta così nelle Everglades dove finalmente, dopo una rocambolesca lotta, avviene la cattura del mostro dopo ben 35 minuti di pellicola (in “La vendetta del mostro” erano stati dedicati solo 15 minuti a questa parte).
La creatura viene così operata d’ urgenza in seguito alle ustioni riportate durante la lotta e il dottor Barton decide di mettere in atto il suo piano: sfruttare i polmoni già esistenti nel gill man per trasformarlo in un mammifero a tutti gli effetti e creare una nuova specie.
L’ operazione avviene senza problemi e al momento della sbendatura degli occhi si comprende subito cosa sta succedendo: il mostro si sta trasformando pian piano in una sorta di essere umano.
Ed eccoci ritornati al costume finalmente.
La creatura completamente sbendata perde molte delle caratteristiche che l’ avevano resa famosa: gli occhi non sono più due semplici buchi neri ma sono praticamente identici ai nostri, la bocca subisce lo stesso effetto così come mani e piedi che sono ancora palmati ma hanno dita ben definite, infine la testa non ha più la famosa cresta che aveva reso così riconoscibile il gill man e le squame sono sostituite da una pelle quasi umana.
La pellicola prosegue poi con il ritorno dei nostri alla base, l’ imprigionamento del mostro all’ interno di una gabbia e il progressivo aumento della gelosia e dell’ odio di Barton nei confronti della moglie che viaggia in parallelo con il disprezzo che egli ha della creatura ormai inoffensiva fino ad un finale tutto da gustare con una fantastica scena conclusiva che ripaga un film troppo privo di idee ma a cui manca soprattutto una regia esperta come quella di Arnold capace di donare tensione (in questo episodio anche le poche scene di lotta sembrano troppo costruite, artefatte) e profondità.
Il tema dell’ uomo come vero mostro è ripreso ovviamente da Sherwood ma reso in maniera fin troppo palese e aiutato da un costume che favorisce la resa delle emozioni della creatura (già sembra una colpa in un film del genere per me!) mentre a volte sembra fin troppo di vedere Frankestein, con l’ essere creato dall’ uomo e poi abbandonato al suo destino fino ad essere incolpato di delitti non suoi (capirete, capirete).
La parte che riguarda l’ attrazione del mostro per la donna viene invece completamente abbandonata a favore del buon parallelismo da me prima citato e dal tema fortissimo della gelosia di Barton per la moglie che praticamente da solo tenta di reggere in piedi un’ intera sceneggiatura.
Sul lato degli attori Jeff Morrow nei panni del dottor Barton si perde tra espressioni irriconoscibili che dovrebbero essere di rabbia ma sembrano di simpatia e viceversa anche se la parte del matto non gli riesce male mentre Leigh Snowden se la cava egregiamente nel ruolo della bellona urlatrice e riesce a dare anche un minimo di spessore al personaggio solitamente più bistrattato; per finire Gregg Palmer (la guida Greg) e Rex Reason (dr Morgan) entrambi corteggiatori della bella Marcia fanno la loro bella figura usando rispettivamente i muscoli e la dialettica per il loro scopo.
Insomma che dire?
Di fronte a una recensione del genere:
“Assurda storia di un mostro marino che uccide lo scienziato da cui è stato catturato”
Letta su uno dei più famosi dizionari di recensioni cinematografiche qui in Italia mi ero assai spaventato, convinto com’ ero che questo terzo episodio avrebbe affossato del tutto il mio amato mostro dopo il non esaltante secondo capitolo.
E invece.
E invece bisogna sempre guardare con i propri occhi e soprattutto non fidarsi di quei saccentoni capaci nella loro suprema intelligenza di mettere a confronto pellicole come questa con “2001 Odissea nello spazio” per poi tirarne fuori recensioni come quella da me riportata qui sopra.
La pellicola non è certo al livello dell’ originale, ma senza dubbio rimane almeno sul livello del secondo capitolo poiché, anche se perde molto a livello di significati riguadagna qualche punto sul piano della produzione, davvero ottima a mio parere, e della storia che, seppur troppo simile a Frankenstein, è senza dubbio più riuscita di quella de “La vendetta del mostro”.
Negli anni ’80 fino alla morte di Arnold nel 1992 un certo John Landis (Animal House tanto per dirne uno) e un certo Tim Burton (qui non dico niente) provano in tutti i modi a convincere il maestro per un remake del suo mostro più amato ma il regista forse lontano dalla macchina da presa da troppo tempo (il suo ultimo film dietro la macchina da presa è “Marylin- Una vita una storia” del 1980 mentre la sua ultima pellicola di fantascienza è addirittura del 1958) rifiuta categoricamente accettando solo un cameo come omaggio in “Tutto in una notte” di John Landis.
L’ idea di un remake passa poi anche nella testa di quel genio di Carpenter con una sceneggiatura già scritta da Landis e Niger Kneale ma il progetto è ancora una volta rimandato fino al 1995 quando la Universal chiede a tale Peter Jackson di scegliere uno tra King Kong e il mostro della laguna nera per un eventuale remake.
La scelta cade su King Kong per il decantato amore del Signore degli anelli per questa pellicola ma la storia non finisce qui.
Qualche anno fa (dal successo del remake de “La Mummia”) si ricomincia a parlare per l’ ennesima volta di un rifacimento del classico di Arnold e si sente addirittura il nome di Guillermo Del Toro per la regia anche se la notizia vien smentita dopo poco.
È notizia straordinaria di quest’ anno ripresa da questo fantastico sito addirittura a cura di Ben Chapman (l’ originale mostro della laguna nera nelle scene fuori dall’ acqua) che il remake de “Il mostro della Laguna Nera” è finalmente in pre-produzione con un budget di 90 milioni di dollari che potrebbe salire ancora, la regia di Breck Eisner (il recente “Sahara” con M. Mc Conaughey) e un certo Brian Steel già apparso in “Hellboy” all’ interno del mitico costume.
Insomma la leggenda del mostro continua e io, come spero Filippo, Simone, Luciano e tutti i suoi fan, incrocio le dita di fronte alle prime dichiarazioni di Eisner di voler rendere la storia del mostro più moderna e adatta ai nostri giorni.
Lo so lo so, i remake di certe cose oggi risultano per lo più delle tremende prese per il culo ma chissà, forse il mostro ci saprà stupire ancora una volta, forse la sua mano palmata che esce dall’ acqua riuscirà ancora a prendermi la caviglia e a farmi cadere nuovamente innamorato ai suoi piedi.
Forse.
Qui sotto il raro trailer di “The Creature Walks Among Us".
REGIA: John Sherwood
ANNO: 1956
GENERE: Fantascienza
VOTO: 6 (voto revisionato dopo aver visto l' intera filmografia disponibile di Arnold: 6,5)
QUANTO ASPETTO IL REMAKE: 10
CONSIGLIATO A CHI: Non vuole perdersi l’ ultimo appuntamento con il mostro ormai risalente a più di 50 anni fa.

sabato 15 settembre 2007

LE GRAND BLEU


Oggi ho visto un film per caso.
Alla ricerca di documentari sul mare e le immersioni subacquee per cercare di capirci qualcosa di più insieme alla mia ragazza di quell’ immenso e meraviglioso altro mondo che è l’ oceano, mi sono imbattuto in questo “Le Grand Bleu”, opera terza di quell’ americanaccio francese che è Luc Besson.
Giovane appassionato dal mare a tal punto da voler diventare biologo marino Luc Besson dovette abbandonare il suo sogno a causa di un tragico incidente che lo costrinse a dirigersi verso altri orizzonti quale quello cinematografico, che decise di intraprendere intorno ai 20 anni trasferendosi in America per studiare al meglio le più avanzate tecniche di ripresa per poi far ritorno in Francia al momento del suo debutto.
Regista criticato dai più proprio per quel suo vizietto di voler fare cinema all’ “Americana” in un’ Europa dedita per lo più a film d’ autore, di Luc Besson in Italia si conoscono per lo più le tre grandi pellicole girate tra il 1990 e il 1997: “Nikita”, “Leon” e “Il quinto elemento”.
Appunto, in Italia.
Se si vuole dare uno sguardo al di fuori dei nostri ristretti confini (che non fa mai male) si scoprirà così che nel 1988 Luc Besson, dopo due film di culto in Francia come “Le dernier Combat” e “Subway”, presentò al festival di Cannes un certo “Le Grand Bleu”, il quale finalmente acquisì tutte la classiche caratteristiche di un film a la Besson: grandi immagini, grandi attori, grandi budget (per l’ Europa si intende) e soprattutto giudizi negativi dalla critica specializzata (mi fa sempre un po’ ribrezzo questa parola..) e grande successo tra i comuni mortali (che sono quelli che non hanno l’ adesivo con scritto “critica cinematografica” sulla fronte) e tra i giovani.
Attenzione: 1988.
Dopo aver effettuato il doppiaggio e ormai pronto all’ uscita nelle sale italiane “Le grand Bleu” viene bloccato dal signor Enzo Maiorca, “semplicemente” uno dei più grandi apneisti al mondo, capace di battere record su record negli anni ’60, che si ritiene offeso per la rappresentazione che Jean Reno da di lui (anche se nella pellicola si chiama Enzo Molinari) all’ interno della pellicola.
Stop!
Quale rappresentazione? Di chi? Ma di cosa parla questa pellicola? Perché? Come? Dove? Quando? In che modo? L’ assassino è il maggiordomo?
Andiamo con ordine.
La pellicola può essere divisa facilmente in tre parti.
La prima racconta la storia dei giovanissimi Enzo Molinari e Jacques Mayol, due amici-rivali amanti del mare e dediti alle nuotate in apnea fin da piccoli, nella loro minuscola e splendida isola greca e si conclude con la tragica morte del padre di Jacques per un fatale incidente occorsogli proprio in mare, durante una rischiosa pesca subacquea con attrezzature a dir poco cadenti.
Questo primo frammento è girato interamente sul blu: il mare, le persone, i paesaggi non presentano alcun colore che non sia un blu leggermente sfocato che ci fa comprendere fin dai primi minuti l’ amore di Besson per l’ oceano: così come Luc dovette abbandonare la patria per dimenticare il dolore di un sogno infranto, così anche Jacques decide di abbandonare l’ isola (anche se quando a noi spettatori non è dato saperlo).
La seconda parte ci presenta i nostri due protagonisti ormai divenuti adulti: l’ italianissimo Enzo, con quel fare da “ci penso io, non c’ è problema, il mio mestiere è arrangiarmi! ” che gli americani (e anche qui si vede la formazione cinematografica di Besson) sono soliti appiccicare al classico italo americano un po’ sbruffone (ed è questo il motivo della rabbia di Maiorca) e il freddo e distaccato francese Jacques che si diletta in immersioni da professionista al di sotto dei ghiacciai sulle Ande.
Se la storia di Enzo è raccontata in modo sgargiante, colorato, musicale e un po’ esagerato, quella di Jacques è totalmente l’ opposto: la neve e il ghiaccio delle Ande con i loro colori asettici rappresentano la freddezza di un ragazzo ormai diventato adulto che non ha perso il suo spirito bonario ma che sembra perso in un mondo suo, fatto di acqua, acqua e ancora acqua e a cui manca qualcosa che cerca in tutti i modi di recuperare nel contatto con essa.
La terza parte, infine, riguarda l’ eterno rapporto di competizione e amore che si instaura tra i due dopo l’ invito di Enzo a Jacques a partecipare ai campionati mondiali di apnea, dopo anni di distacco, e il conclusivo ritorno all’ isola greca per dimostrare ancora una volta al giovane rivale la propria superiorità e contemporaneamente il proprio amore nei confronti di un ragazzo che sente come suo indiscusso successore a cui insegnare ancora molto. Allo stesso tempo in questa ultima parte ci viene mostrato il modo completamente differente in cui i due campioni si preparano ad affrontare l’ elemento acquatico: Molinari sfida l’ acqua per dimostrare la sua forza, Mayol entra invece in simbiosi con essa, fino al suo totale smarrimento (che altro non è, detto in parole povere, che una semplice narcosi da azoto che può capitare ai subacquei in acque profonde e risulta molto simile ad una forte sbornia).
In questo terzo frammento rientra in gioco il parallelismo con la vita di Besson che, dopo aver studiato all’ estero, rientra in patria per la vera sfida con quello che sente come il suo vero elemento.
Ora c’ è un problema.
Se concludessi qui la mia recensione, come molti hanno fatto, potrei benissimo mettere un bel 9 a questa pellicola, per un’ ottima realizzazione tecnica e una regia capace di trasmettere con pochi elementi (i colori, i paesaggi, le inquadrature) una vita intera dedicata al mare.
Ma sinceramente non me la sento.
Prima di tutto vorrei far notare come tutto sia completamente irreale: certo non pretendo di vedere in un film di Luc Besson qualcosa che non sia semplicemente esagerato ma arrivare al punto in cui uno in apnea va a salvare un subacqueo con le bombole dentro una nave stando sotto per secoli e un altro si immerge a chissà quanti gradi sottozero sotto un ghiacciaio sulle Ande con una muta che va bene appena appena per la Liguria a settembre… beh questo mi sembra persino TROPPO esagerato.
Come secondo punto mi verrebbe da dire che quella espressione da pesce lesso che Jean Marc Barr nei panni di Jacques Mayol si porta a spasso per tutta la durata della pellicola è a dir poco snervante e fuori luogo ma i francesi (e non solo loro) lo adorano quindi molto probabilmente sono io che non capisco.
Terza e ultima critica: in un film che racconta la storia di due dei più grandi apneisti al mondo (Jacques Mayol fu uno dei più grandi rivali di Enzo Maiorca anche nella realtà) perché mai inserire una storia d' amore terribilmente melensa tra Barr e l' odiosa Arquette che centra poco o nulla con tutto il resto? Certo, Luc Besson ci vuole far vedere come nel cuore di Mayol non ci sia posto nemmeno per l' amore, come egli appartenga in toto all' acqua, ma c' era davvero bisogno di vedere la solita giornalista Newyorkese che si innamora del classico solitario misterioso? A mio parere no anche se rimango dubbioso sul fatto che questa donna sia un personaggio completamente irreale, piuttosto che un altro elemento fondamentale nella ricostruzione della vita del regista.
Insomma nonostante “Le grand Bleu” non possa non essere definito come un grande film per tutto l’ apparato di simboli e significati che si porta dietro, nonostante quella comicità burbera che Jean Reno trasporta in ogni suo personaggio che mi fa personalmente impazzire, nonostante Sergio Castelletto sia eccezionale nel ruolo di uno spassoso giudice di gara, nonostante una scena finale di Jacques solo sul suo letto a dir poco da brividi che ci fa capire come l' acqua sia la vera protagonista di questo film, nonostante tutto ciò il voto rimane relativamente basso quasi a confermare la mia idea di pellicola nata come sfogo personale per Besson e molto probabilmente contenente riferimenti ai suoi sogni e alle sue speranze che io (e noi tutti credo) non riesco neanche a immaginare.
2002.
La pellicola esce finalmente in Italia, dopo 14 anni di attesa infinita, dopo la morte del vero Jacques Mayol nel 2001 suicidatosi per depressione e il consenso di Besson a tagliare alcune scene sotto richiesta di Maiorca le quali vengono incluse, insieme ad altre, in una versione estesa della pellicola: un Jean Reno stranamente giovane e con una muta spassosa con i colori della bandiera italiana attende l’ appassionato di cinema italiano davanti alla tv, no Jean Reno non è ringiovanito, semplicemente la distribuzione italiana ha fatto pena ancora una volta.
E no: l’ assassino non è il maggiordomo.
A voi il Trailer!
REGIA: Luc Besson
ANNO: 1988
GENERE: Avventura, drammatico
VOTO: 7
QUANTO è ODIOSA ROSANNA ARQUETTE NEI PANNI DELLA FIDANZATA DI BARR: 8
CONSIGLIATO A CHI: vuole sbizzarrirsi in interpretazioni di colori, immagini, paesaggi, scene, espressioni e chi più ne ha più ne metta (Leo….).

mercoledì 12 settembre 2007

REVENGE OF THE CREATURE- LA VENDETTA DEL MOSTRO


Sinceramente sono indeciso.
Di fronte alla terza prova sul set di Jack Arnold dopo l’ anticipatore dei tempi “Destinazione Terra” e il cult “Il mostro della Laguna Nera”, sono interdetto.
La pellicola in questione nasce, esattamente come tutti i sequel dall’ invenzione del cinema ad oggi, da un’ idea dei produttori del primo capitolo che, visto il successo raggiunto, decidono di replicare l’ anno seguente ingaggiando nuovamente l’ astro (ormai affermato) della fantascienza Jack Arnold.
Oltre alla sua presenza il film vede nuovamente la partecipazione di Ricou Bowning nel costume del mostro (e in un piccolo cameo come assistente di laboratorio, senza maschera ovviamente!) e di Nestor Paiva, nuovamente nei panni del simpatico e pazzo capitano della nave (assomiglia molto, anche nella risata, al fantasma taxista del Natale passato in “Sos Fantasmi”) che accompagna la nuova spedizione alla cattura del mostro.
La storia proposta dal produttore della prima pellicola William Alland, non si concentra però sulla cattura del Gill Man che avviene nei primi 13 minuti di pellicola, ma sul suo trasferimento all’ istituto oceanografico di “Ocean Harbor” in Florida e sui conseguenti studi effettuati sulla creatura al fine di comprendere la sua intelligenza.
Il film, quindi, si discosta fin da subito dai sequel delle pellicole horror di oggi che vedono solitamente il mostro (o l’ assassino, o l’ alieno, o la bambola, o il biscottino ammazzacervelli, quel che volete!) ancora a caccia nella sua zona e non rinchiuso in una vasca (prigione) per i tre quarti della pellicola.
“La vendetta del mostro” si muove così differentemente dal primo capitolo: se nel primo a farla da padrona doveva essere la tensione nel tentativo di prendere l’ orrida e forzuta creatura (ovviamente oggi stemperata dalle nostre troppe visioni, ma allora ben congegnata), ora quello che si cerca di trasmettere è la maggior profondità emotiva del mostro.
Se ne “Il mostro della Laguna Nera” gli umani erano visti come invasori di uno spazio fisico non loro, ora è il dottor Ferguson ad essere visto come un invasore, non di uno spazio fisico ma emotivo in quanto egli è l’ ostacolo che si oppone all’ evidente amore del mostro per la dottoressa Dobson.
Esplicativa in questo caso è una scena del film che vede i due protagonisti interrotti al momento del bacio dal cane lupo della donna e successivamente la donna e la creatura intenti a guardarsi interrotti dal dottor Ferguson (paragonato quindi a un semplice disturbo).
Se nella prima pellicola quella del mostro poteva essere vista semplicemente come una voglia fisica, ora l’ attaccamento della creatura alla donna si dimostra anche nell’ obbedienza ai suoi ordini che il dottor Ferguson crede (stupidamente) dovuta a una sorta di addestramento da cane: se io ti dico di fermarti e non ti fermi ti faccio male, se ti fermi vieni premiato.
Così come Romero farà nel suo terzo e più sconosciuto (e a mio parere meno riuscito) capitolo sugli zombi (“L’ alba dei morti viventi”) il regista cerca di dare un’ anima umana al mostro cadendo forse nella trappola dell’ eccessiva umanizzazione che rende il tutto a volte decisamente ridicolo (il tentativo di dare delle espressioni a quel mascherone di gomma lo è senza dubbio, ad esempio).
Si può notare quindi come, a differenza delle prime due pellicole di Jack Arnold, il protagonista viene visto non più come l’ eroe assoluto ma quasi alla stregua degli avversari in amore presenti negli altri due film: è vero il dottor Ferguson è molto simpatico e ci sa fare con le donne, è vero anche che difende la dottoressa con tutte le sue forze, ma non sembra quasi che Arnold faccia di tutto per farci capire quanto è visto come un fastidio dal mostro? Sul finale, infine, il dottore ci viene mostrato in tutta la sua crudeltà quando, dopo aver detto al Gill Man di fermarsi, gli spara senza alcun ritegno nonostante la creatura abbia obbedito all' ordine.
Un protagonista quindi molto diverso dai due dei film precedenti che ci fa vedere come Arnold prosegua sulla sua strada nel tentativo di farci comprendere quanto sia l' uomo il vero invasore e mostro.
Per quanto riguarda gli attori John Agar e Lori Nelson se la cavano egregiamente nella sostituzione di Richard Carlson e Julie Adams ma i loro dialoghi sono troppo appesantiti e fuori luogo rispetto al primo capitolo, risultando così snervanti o semplicemente noiosi (ci sono spiegazioni scientifiche lunghe più di un minuto che ti fanno venir davvero voglia di dire : “Ma cosa centraaaa?”).
Per concludere posso dire che “La vendetta del mostro” risulta il meno affascinante delle pellicole di Arnold da me viste, soprattutto per la mancanza di quei tocchi di classe (riprese e dialoghi in particolare) tipici di questo fantastico regista che saprà comunque rifarsi con l' ottimo “Radiazioni bx distruzione uomo” due anni più tardi. Un occasione persa quindi, per una pellicola voluta fortemente dai produttori ma molto probabilmente non così sentita dall’ amato Jack.
A voi trailer e prima apparizione dell' amato zio Clint!
REGIA: Jack Arnold (ma va??)
ANNO: 1955
GENERE: Fantascienza
VOTO: 6+
QUANTO SI DIVERTE ARNOLD NELLE RIPRESE SOTTOMARINE: 10 (basti pensare alle splendide visioni di squali e barracuda)
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere la prima apparizione in assoluto di un giovanissimo Clint Eastwood nei panni di un assistente di laboratorio che dice 2 battute e a cui spunta un topolino dalla tasca!

martedì 11 settembre 2007

SHREK THE THIRD- SHREK TERZO


Sarà che fin dalla prima uscita mi sono affezionato tantissimo a quest’ orco verde e alla sua compagnia di amici matti.
Sarà che trovare oggi un film basato essenzialmente sulla parodia senza scadere in prodotti indecenti come “Epic Movie” e “Parimpampù Movie” è davvero difficile.
Sarà che dopo aver visto l’ ignobile TMNT anche il cartone delle Bratz mi sarebbe sembrato molto bello (beh forse su di questo ho qualche dubbio!)
Sarà che il miglioramento della Computer Graphic rispetto al secondo episodio è stato enorme (per non parlare dell’ abisso che c’ è rispetto al primo!).
Sarà che a volte mi sembrava di vedere degli uomini veri e non delle riproduzioni animate!
Sarà che i tecnici resisi conto della meraviglia creata si sono gasati a tal punto da rendere il movimento di ogni singola fogliolina di un albero o il movimento della Luna in un’ altra scena.
Sarà che ormai, anche nei film di animazione, i movimenti di camera risultano affascinanti e realistici come quelli reali.
Sarà il fatto di vedere il classico schema da fiaba rispettato ma in un certo modo stravolto dalla semplicità con cui Shrek raggiunge Arty, ma fatica a ritornare nel mondo di Molto Molto Lontano tanto da aver bisogno dell’ aiuto di un simpaticissimo Merlino in versione “viva la mutanda”!
Sarà che di cartoni solo per bambini non ne fanno più come una volta, ma io non sono più bambino e quindi poco me ne importa (e chiedo scusa a tutti i bimbi!).
Sarà che un giorno non faranno neanche più film come Shrek e a quel punto dirò “Non ne fanno più cartoni come una volta” e mi renderò finalmente conto di essere vecchio.
Sarà che sentire l’ attacco di “Immigrant Song” dei Led Zeppelin cantata da Biancaneve non credo capiti tutti i giorni.
Sarà che una serie di battute così ben congegnate e incastrate una nell’ altra non mi capitava di sentirle da tempo.
Sarà che vedere il mio personaggio preferito l’ Uomo Focaccina ricordare tutti i momenti più belli della sua vita per poi mettersi a cantare una canzone lagnosissima all’ ordine di Capitan Uncino di cantare (nel senso di confessare) mi ha fatto morire dal ridere!
Sarà che osservare Pinocchio nei suoi tentativi di non mentire con frasi a dir poco assurde come “...so o non so dove non dovrebbe probabilmente essere, sempre che lui non sia dove non è. ” Mi ha fatto piegare in due dalle risate.
Sarà che non è come “Shrek” o “Shrek 2”, ma certo che non lo è perché di cartoni come una volta non ne fanno più!
Sarà che sono entrato al cinema dubbiosissimo su questo terzo capitolo (ditemi il titolo di una pellicola giunta al terzo episodio ancora così in forma!) e ne sono uscito rincuorato e felice di aver ritrovato il mio omino focaccina ancora in forze!
Sarà che (e perdonatemi un momento di romanticismo) vedere un qualsiasi film con quella ragazza al mio fianco lo rende sempre migliore.
Sarà che non ho assolutamente voglia di mettermi qui a scrivere la trama di un film che potete trovare ovunque e che comunque fareste bene a gustarvi tutto d’ un fiato al cinema.
Sarà quel che sarà ma io meno di 8 a questa pellicola proprio non riesco a darlo!
REGIA: Raman Hui, Chris Miller
ANNO: 2007
GENERE: Animazione
VOTO: 8 (voto revisionato 7)
QUANTO è FUSO MAGO MERLINO: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere come fa la cacca l’ Uomo Focaccina

giovedì 6 settembre 2007

LITFIBA: DESAPARECIDO


C’ erano, negli anni 90, i walkman.
Qualcuno li ricorda? Mica i lettori mp3 di oggi! Un bel matacubo di walkman che la metà delle cassette che registravi aveva una qualità di suono pari a quella di una lavatrice rotta e ogni tre per due dovevi cambiare le pile perché se no sentivi il suono che si abbassava e distorceva fino a morire e tu provavi a stoppare, a muovere le pile e a ripartire e risuccedeva la stessa cosa e tu speravi non fossero le pile dato che eri in pullman in gita lontano 100 km dal pilaio più vicino ma alla fine erano sempre le pile e quando le chiedevi a qualcuno che aveva un pacco di pile lui ti diceva che gli servivano anche se non aveva nessun aggeggio da far andare con le pile.
Pile pile pile pile pile pile.. avete mai notato come una parola perda di significato se ripetuta più volte? Forse per questo le maestre non vogliono le ripetizioni nei temi alle elementari: perché altrimenti durante la correzione iniziano a chiedersi il significato di quella parola ripetuta 10 volte in 2 righe. Ma forse sto andando fuori tema. E anche questo le maestre non lo apprezzano.
E c’ era un ragazzino che andava sempre in giro con il suo walkman scassato trovato in chissà quale zaino per la scuola (oggi il mago Casanova da l’ mp3 dentro lo zaino.. certe cose non cambiano mai!).
Le musicassette (penso che nessuno usi più questo termine da almeno 15anni) che ascoltava erano quelle dei mitici 883 nel loro periodo più scanzonato (non quelle lagne di Pezzali-zio Fester che tocca sorbirsi oggi!), Vasco rossi, Ligabue e Zucchero.
E c’ era il fratello del ragazzino evidentemente convinto che, se non avesse fatto qualcosa per far ascoltare della buona musica al bimbetto fin dalla tenera età, non sarebbe più riuscito a toglierlo da quell’ ammasso di truzzi di paese ascoltatori di Gigi D’ Agostino (che devo dire apprezzo molto di più della musica dance di oggi!).
Quello stesso fratello che anni dopo gli avrebbe aperto un mondo di musica davanti agli occhi (leggete qui per quest' altra storia!) ogni tanto prendeva una cassetta e ci metteva su un bell’ album di Litfiba, Timoria e Negrita in modo che il fratellino non fosse completamente impreparato al momento di affrontare quell’enorme colosso che è il rock.
Tra quelle cassette ce ne erano due che il piccolino apprezzava in particolar modo: una era una raccolta delle più belle canzoni (a suo parere) dei Timoria, l’ altra era l’ album Desaparecido dei Litfiba.
Album d’ esordio della formazione di Piero Pelù e Ghigo Renzulli dopo 3 Ep e 2 singoli, Desaparecido mi si presenta oggi agli occhi non più come una semplice cassettina piena di belle canzoni (che poi non so come mi potesse piacere una cosa così a 12 anni!), ma come uno dei più importanti e seminali album di rock italiano prodotto negli anni ‘80.
Se ora state pensando a canzoni come “Regina di cuori”, “Il mio corpo che cambia” o “Ritmo” sappiate che state andando contromano e tra poco vi sfracellerete contro un tir.
Dimenticate il rock mainstream dei classici Litfiba conosciuti ai più, le schitarrate di Ghigo e i vocalizzi esagerati di Pelù e immergetevi in un calderone di pura New Wave anni 80 (che non centra nulla con quello schifo di nu new wave che va tanto di moda oggi in Inghilterra e Usa con gruppi come gli Interpol) venata da una giusta dose di Mediterraneità che solo un gruppo come i Litfiba degli anni ’80 ha saputo unire così perfettamente a testi meravigliosi recitati in italiano.
Già, recitati.
Se Vasco Rossi in un’ intervista che lessi tempo fa affermò di essere stato il primo cantautore a voler rompere le righe del solito cantautorato italiano imponendosi più come uomo di spettacolo che come raffinato autore di musiche e testi da spiegare al pubblico, Piero Pelù può benissimo essere definito come il cantante italiano che portò la teatralità sul palco.
Un concerto dei Litfiba diventava così non solo musica da ascoltare ma musica da vedere e toccar con mano così come lo diventava un loro album.
Rispetto ad un gruppo come i Red Hot Chili Peppers, autori anch’ essi del loro primo album all’ inizio degli anni ’80 (anche se trattasi di tutt’ altro genere) incapaci di trasportare in studio tutta la carica eversiva che li caratterizzava in concerto, i Litfiba riuscirono nell’ impresa di rendere l’ album in studio una “continuazione” dei loro straordinari live.
Di fronte all’ urgenza con cui certi gruppetti ancora inesperti vengono lanciati oggi sul mercato dalle grandi major (ma questo avviene fin dall’ esplosione dei Nirvana e dalla successiva ricerca dei “nuovi Nirvana” nell’ underground americano e inglese) si può ben vedere come i Litfiba arrivarono, invece, ormai maturi all’ esperienza del loro primo disco in studio nell’ anno di grazia (questa la dovevo assolutamente usare come espressione trita e ritrita!) 1985.
Il secondo grande luogo comune da sfatare sui Lifiba (dopo quello che li vede autori solo di canzoni negli anni ’90) è quello di un gruppo formato semplicemente da Piero Pelù e dal chitarrista Ghigo.
Se gli album presi in esame sono quelli degli anni ’90 un discorso del genere può anche essere fatto (ma non andrebbe mai fatto), ma se si guarda agli anni ‘80 si può sentire fin dal primo ascolto come i Litfiba siano un connubio perfetto di chitarra e voce si, ma anche di basso, batteria e tastiera.
Di fronte a 8 meravigliose composizioni non so davvero come fare a segnalare una canzone più rappresentativa di un'altra. Se la splendida “Istambul” è aperta dalla tastiera del mitico Aiazzi (di pezzi così non se ne sentono davvero da secoli) ed è un caso più unico che raro di rock- folk mediterraneo, la ballata “Lulù e Marlene” è scandita dal basso di Maroccolo che riesce addirittura a mettere in ombra la chitarra di Ghigo che domina invece in “Preda”. Guerra si segnala per il fantastico testo di Pelù, per la sua interpretazione a dir poco sopra le righe e per le musiche oppressive che danno l’ idea del concetto (anche se in certi casi si sente davvero molto l’ influenza dei Bauhaus, uno dei primi gruppi new wave). Infine l’ epocale “Eroi nel vento”, forse quella che può essere considerata la vetta di questo primo album, con un gruppo coordinato alla perfezione in ogni suo elemento.
33 minuti e 14 di immersione in un mare profondo, scuro e dominato da visioni e sogni surreali, è questo quello che Desaparecido propone a un pubblico italiano giovane che vuole nuova linfa dopo i fasti dei dinosauri del prog nostrano.
Federico Guglielmi nell’ ultima pagina del libretto all’ interno del cd afferma che <[…] se un giorno prenderà piede una “nuova musica italiana per il mondo”, questo album dovrà inevitabilmente esserne considerato l’ imprescindibile punto d’ avvio>.
C’ era una volta un ragazzino sperso nel suo paesucolo di campagna con il suo walkman e la sua musica “strana”.
C’è oggi un ragazzo di città che cerca di muoversi in mezzo alla calca della città con il suo lettore mp3 in tasca e le cuffiette ancora nelle orecchie.
In 10 anni quel ragazzino ha sentito cose che voi umani non potete neanche immaginare fino a selezionare solo la musica migliore tra i milioni di album ascoltati.
Desaparecido compare ancora nel suo lettore mp3.
ANNO: 1985
GENERE: Rock italiano anni '80
VOTO: 10 (9 per il disco, uno per l' importanza storica)
QUANTO ERANO AVANTI I LITFIBA NEL 1985: 10
ADATTO A CHI: Vuole scoprire i veri Litfiba e la nascita del rock di oggi in Italia

martedì 4 settembre 2007

TMNT


Prendete 5 amici, quintali di patatine, litri di coca cola, fanta, 7up, succhi di frutta e birra e chiudeteli in una casa vuota a guardare un film svaccati su divani e seggiole.
Quel che ne verrà fuori dipenderà in gran parte dalla qualità della pellicola: se si assiste ad un buon film i commenti durante la visione saranno pochi ed interrotti dai classici “shhhhh” scocciati di chi cerca di seguire con attenzione i dialoghi mentre il piciazzo che voleva parlare si riempirà la pancia di bibite e cibo di ogni genere, viceversa se la pellicola è scadente il risultato sarà quello di sentire urla sguaiate di disgusto durante tutta la visione, risate nei momenti che si vorrebbero seri, fracasso di ogni genere e soprattutto patatine e appiccicume in ogni angolo della casa per giorni (il che vi suggerisce di non guardar mai schifezze improponbili a casa vostra!).
Ora prendete un cartone animato storico come le Tartarughe Ninja e pensate all’ ultima orripilante versione che ne è stata fatta per la tv, con Leonardo, Raffaello, Donatello e Michelangelo molto più seriosi e incazzusi che un tempo.
Pensate a un filmato per un videogioco ben fatto per la playstation 2 o al primo Toy Story e avrete un assaggio di quello che vi ritroverete di fronte se vorrete vedere questa trasposizione per il cinema dei nostri eroi.
Nell’ epoca di splendori digitali come “Alla ricerca di Nemo”, “Cars”, “Shrek” o persino “Boog ed Elliott” voi guarderete omini plasticosi muoversi sullo schermo con una mimica facciale a dir poco ridicola.
Ma, si sa, la realizzazione tecnica non è tutto (Matrix docet!).
Uno scenario molto “guerra del Signore degli anelli” style segna l’ inizio di una storia che vedrà i Nostri combattere contro un nuovo nemico (il mitico shredder è liquidato con una voce fuori campo che annuncia la sua morte!) potentissimo e dotato di immortalità!
Dopo un bello spiegone sul chi sarà il cattivone di turno arriva l’ ora di vedere i protagonisti: il primo a mostrarsi è Raffaello, isolatosi dal resto del gruppo per meditare sul suo ruolo da leader, dopo di che è l’ ora di Donatello, Michelangelo e Raffaello rispettivamente diventati consulente telefonico per una fantomatica azienda, animatore travestito da tartaruga (oddio!) e vendicatore notturno per la difesa della città.
La pellicola mette in scena quindi i cattivoni in ordine di potenza mentre si cerca di dare un minimo di spessore al tutto introducendo una sorta di rivalità fraterna tra il ritrovato Leonardo e Raffaello che cerca di proporsi come nuovo leader del gruppo.
Il saggio Splinter aiuta i nostri nella loro riconciliazione con la sua classica saggezza ma una sorta di colpo di scena finale ci fa capire che il vero nemico non è quello indicato fin dall’ inizio: il tempo di capire chi vuole è contro chi e STOP!
Il film finisce in fretta e furia con una spettacolare (forse per i produttori) lotta e l’ aiuto essenziale dell’ irriconoscibile April (rispetto al cartone originale sembra una bambina!).
Ma, si sa, si è di fronte a una pellicola destinata essenzialmente ai ragazzini quindi la storia non è tutto!
Ma se la realizzazione tecnica non è tutto e la storia non è tutto cosa rimane?
Rimangono un’ ambientazione cittadina sporca e oscura molto ben fatta (ma perché le tartarughe arrivano sempre dai tetti se vivono nelle fogne?!) delle belle scene di lotta e alcune piacevoli inquadrature: il film è infatti girato come se ci fosse una vera telecamera a riprendere ogni azione.
La domanda che mi pongo da 2 giorni a questa parte è: bastano 2 calci ben tirati da una tartaruga in digitale per giustificare la visione di una pellicola?
Volete il mio sincero parere? No.
Vi lascio con alcuni splendidi commenti urlati da me e i miei amici durante la visione di questo capolavoro che vi potranno far meglio comprendere cosa ne penso!
Durante la prima scena di battaglia tra eserciti:
< Ma baaaaastaaaaa è “Il signore degli anelli”!!!>
Alla prima apparizione di Leonardo:
< Ma è fatto malissimooo>
Alla visione dei primi uomini:
< Guarda come parlano! Sono ridicoli!!>
Dopo 10 minuti di visione:
< I filmati per l’ x-box sono fatti meglio…>
Primi mostri cattivi sullo schermo:
< Ma sono bruttissimi fan ridere!>
Al primo stralcio di colonna sonora:
< Senti che polpettone orribile per gasare i bambini!>
Ultima scena a 2 minuti dalla fine:
< Secondo me dura almeno ancora mezz’ ora, non può finire ora!>
Se non avete ancora compreso quale reazione ha avuto da parte mia e dei miei amici questo film vi dico solo che il mio vicino di casa la mattina seguente è venuto a farmi il culo per il bordello che si sentiva la notte nel palazzo a causa nostra.
REGIA: Kevin Munroe
ANNO: 2007
GENERE: Animazione
VOTO: 4
QUANTO è IRRISPETTOSO PER I FAN DELLE VECCHIE TARTARUGHE AVER LIQUIDATO SHREDDER E KRANZ IN UN SECONDO: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere un brutto film d’ animazione

sabato 1 settembre 2007

LITFIBA_ LOUISIANA

Non potete immaginare quante volte la cantai da bambino, quante volte la canto ora, quante volte la canterò.

Oh, Louisiana
Piove su di noi
Le nostre catene
Louisiana
Resti ad aspettare
E arriva il momento
Di cavalcare il fulmine
Louisiana
Oh, Louisiana
L' ultima sigaretta
Miccia al tabacco
Poi il mio trono esplodera`
Apritevi finestre
Suonate campane
Il mostro nero elettrico
Oh, Louisiana
Piove su di noi
Strade imperfette
Niente vuol cambiare
Ma tutto brucia gia`
Bruciano i deserti
Dell' umana carita`
Louisiana
Piove su di noi
Louisiana
Piove, piove
Sul continente di carta
Piove, piove
Un oceano di carta