sabato 29 dicembre 2007

LA VOSTRA CLASSIFICA


E così eccoci qui.
Un altro anno concluso.
Il mio primo anno da blogger.
Non voglio star qui con tanti convenevoli: così come ho evitato di augurarvi a lettere cubitali buon natale (gli auguri li ho sparsi qua e la su altri blog o sui commenti) eviterò anche il buon anno.
Spero che lo sia, per tutti voi e per me.
Spero che riuscirete a fare tutto quello che sognate e blablabla, la pace nel mondo blablabla, dei buoni film blablabla, la salute che viene prima di tutto blablabla, la felicità blablabla.
Insomma l' avrete capito.
Io a far gli auguri son davvero una frana, nel blog come nella realtà li ho sempre trovati artefatti quando non irritanti (quando mi arrivano gli auguri tutti uguali via mail (o sms) da uno che ho visto il giorno prima e a cui ho già fatto i miei (pessimi) auguri sinceramente sono abbastanza irritato).
Ma non è di auguri che si deve parlare qui bensì di classifiche.
Mi son fatto un giretto per i vari blog e ho notato che alcuni hanno postato classifiche personali dei migliori e peggiori film e cose varie.
Giusto: è un blog personale e ognuno posta la propria classifica.
Eppure io azzardo lo stesso.
E se la classifica la faceste voi?
Voi, i miei fidati e amati lettori senza cui questo blog non avrebbe albun senso (frase straabusata ma sempre sincera).
Mi piacerebbe riuscire a raccogliere l' opinione di un po' di persone: gli amici blogger, gli amici della vita reale, quelli che leggono questo blog ogni tanto, quelli che passano di qui per caso insomma tutti.
Io mancherò per una decina di giorni.
Finalmente questo blog si prenderà una piccola (meritata) pausa dato che da agosto non si è mai fermato.
Quindi alla fine che dirvi?
VI PONGO DUE SEMPLICISSIME DOMANDE:
1)MIGLIOR FILM DELL' ANNO (possibilmente visto e non per sentito dire)
2)PEGGIOR FILM DELL' ANNO (stessa regola di sopra, tanto per evitare una marea di gente che vota per "Natale in crociera")
Vi chiedo solo di essere sinceri e di votare per quello che vi pare con un commento qui sotto, ho deciso di non mettere alcun sondaggio perchè avrei solo limitato la vostra scelta e perchè sarebbe stato troppo facile.
Fate mente locale, pensateci, ripensateci o buttatela li d'istinto, io considererò tutti i commenti, anche quelli anonimi sia chiaro.
Agli amici blogger (o comunque ai blog linkati) che hanno già fatto una loro classifica chiedo solo di trascrivere qui sotto i primi posti di ogni categoria (se non hanno cambiato idea! E comunque se non li trascrivete vengo a prendermi io le vostre preferenze con la forza quindi non avete scampo!)
Vi ringrazio tutti quanti, tutti tutti, nessuno escluso.
E al mio ritorno (spero per il 7-8 di riuscire a postare qualcosa perchè ho davvero una marea di recensioni da pubblicare tra cui Carpenter, il nuovo regista da analizzare, i tre quattro film che mi vedrò al cine in questi giorni e qualche piacevole vecchià novità!) vi farò avere i risultati.
Spero almeno in un centinaio di commenti utili.
Che non è tantissimo ma so accontentarmi (scherzo! se arriviamo a 50 pago la pizza a tutti!)
Se saranno di più sarò ancora più contento ovviamente e la classifica risulterà più veritiera!
Se intanto volete guardarvi qualche vecchia recensione e lasciare un segno del vostro passaggio su di loro (sia una lode o una critica) sarò ovviamente ancora più contento (sulla sinistra potete trovare tutti i film recensiti in ordine alfabetico o per regista).
Arrivederci a tutti allora!
Ah già... Auguri!

giovedì 27 dicembre 2007

ORIGINAL AND REMAKE_ CAT PEOPLE- IL BACIO DELLA PANTERA

- CAT PEOPLE- IL BACIO DELLA PANTERA (1943)
- CAT PEOPLE- IL BACIO DELLA PANTERA (1982)




Non avevo nessuna voglia di vedere questi due film.
Ve lo dico subito.
In modo che nessuno poi mi venga a dire di essere stato troppo freddo o cattivo.
Non ne avevo nessuna voglia eppure li ho visti comunque perché si ricollegano al prossimo regista che mi accingo ad analizzare.
E sia chiaro che non si tratta ne di Jacques Tourneaur (magari più avanti nel tempo) ne di Paul Schrader (magari in un’ altra vita data l’ esperienza…).
Ma non importa chi sarà la mia prossima vittima.
Quello che importa qui sono questi due film: l’ originale del 1943 diretto dal grande Jacques Tourneaur e prima produzione per la Rko dell’ ancor più grande Val Lewton e il remake datato 1982 con regia di Paul Schrader, un signore autore dello script di pellicole come “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “L’ ultima tentazione di Cristo”.
Premesse importanti quindi.
Nel primo caso si parla di un produttore che ha fatto la storia dell’ horror psicologico degli anni ’40, nel secondo caso si tratta semplicemente dello scrittore di due film che hanno fatto la storia del cinema moderno.
Due capolavori quindi queste due pellicole?
Andiamo con calma.
Nel primo caso ci troviamo di fronte a quello che viene indicato da molti come il primo horror psicologico di rilievo.
Horror psicologico.
Che belle le definizioni.
Tu dici horror psicologico e tutti capiscono cosa intendi senza che stai li tanto a scervellarti per trovare le parole.
E se non lo capiscono proprio tutti vi riassumo io brutalmente cosa significa: film di impostazione horror in cui semplicemente deve sempre accadere qualcosa ma non accade mai nulla. E se accade, state sicuri che voi non vedrete (quasi) niente.
Perché la filosofia di Val Lewton (“una storia d’ amore, tre scene di atmosfera orrorifica e una scena carica di violenza”) in questa sua prima produzione a capo dell’ unità horror della Rko diventa regola ferrea a cui Tourneaur deve rigidamente attenersi.
Budget ristretto (134000 dollari), durata inferiore ai 75 minuti e supervisione di Lewton sul titolo.
Le regole imposte dalla Rko al produttore sono tutte rispettate.
Cosa ne è venuto fuori?
“Il bacio della pantera” racconta la storia di una donna tanto attraente quanto inquietante di nome Irena che si innamora e si sposa con Kent Reed dopo averlo conosciuto per caso allo zoo.
La vita dei due procede in modo strano: se da una parte lui è terribilmente attratto dalla donna misteriosa che si trova a fianco quasi per caso, dall’ altro ne è evidentemente spaventato, soprattutto per le parole di Irena che si convince sempre più di essere maledetta e di appartenere addirittura ad una razza “mutante” maledetta della Serbia, capace di trasformarsi in una pericolosa pantera se farà sesso con il suo amato.
La pellicola si muove così interamente sull’ ambiguità del personaggio di Irena: è maledetta? Si può trasformare realmente? Sono suoi i passi che seguono quelli di Alice (che rivelerà il suo segreto amore per l’ amico del cuore Kent solo sul finale)? Sono suoi i ruggiti che terrorizzano Alice in piscina? Ma soprattutto: chi ha scritto la sceneggiatura di questo film?
Se da una parte la mia voglia di vederlo era già abbastanza bassa dall’ altra lo sceneggiatore ce la mette tutta per confondere le idee e stancare (o stupire, secondo il suo punto di vista) lo spettatore con idee balzane che spuntano all’ improvviso senza il minimo preavviso e buchi di sceneggiatura enormi.
Mentre Tourneaur si impegna al massimo in una regia davvero magnifica con almeno tre momenti storici da ricordare (l’ inseguimento, la scena in piscina poi omaggiata da Dario Argento in “Suspiria” e quella del sogno psichedelico di Irena) lo sceneggiatore ingaggia una battaglia con se stesso: sta benedetta Irena è o non è una pantera?
Bella domanda!
Peccato che persino alla fine si hanno dei dubbi!
Certo: geniale, precorre i tempi, è un horror psicologico! È una grande metafora della paura del sesso e di una società castigata.
Però io alla fine lo vorrei dare un senso al tutto e invece non ci riesco.
Fino ad un attimo prima sono convinto di una cosa e poi mi crolla tutto addosso in un finale che sembra messo li giusto per fissarti il punto di domanda sulla fronte.
Purtroppo se questo dire- non dire poteva anche essere apprezzato in un momento meno svogliato quello che fa davvero più infuriare sono i buchi enormi nella sceneggiatura e le banalità che il film non prova nemmeno ad evitare.
Irena e Kent si conoscono al parco in modo insensato (tipo lui la vede, le dice due parole, la invita a casa sua e lei accetta!) e nella scena dopo si stanno sposando!
Come se non bastasse al matrimonio spunta un personaggio assurdo mai visto (e che mai si rivedrà) di nero vestito che accusa Irena chiamandola sorella.
Le incongruenze (se vogliamo chiamarle in modo gentile) non si fermano qui eppure non mi va di insistere.
Certo “è cinema” dirà qualcuno, è la fantasia al potere.
Però non esageriamo. Il problema qui è che si vuole dare un’ aria di realismo a qualcosa che di realistico non ha nemmeno l’ ombra.
“Il bacio della pantera” è una pellicola a basso budget che ottenne un successo strepitoso nel 1943 e dopo più di 60 anni ci sta il suo invecchiamento (anche se moltissimi critici non sono assolutamente d’ accordo con questa mia idea dell’ invecchiamento).
Lo perdono quindi perché, nonostante tutto, un suo senso come anticipatore di un nuovo modo di girare horror senza mettere mostri e mostricciatoli davanti a tutto ce l’ ha.
Ma quello che davvero non comprendo è il suo remake datato 1982.
Voluto fortemente dalla Universal che aveva visto nel fantastico “Un lupo mannaro americano a Londra” una sorta di rinascita di quell’ horror mostruoso che aveva segnato il suo successo tra gli anni 30 e gli anni 50, il remake de “Il bacio della pantera” viene affidato a Paul Schrader alla sua seconda regia dopo quel simbolo degli anni ’80 che è “American Gigolò”.
Premesso il fatto che a me “American Gigolò” non è mai sembrato davvero nulla di che nonostante tutto il suo successo, quello che più mi infastidisce è la stupidità dei dirigenti della Universal.
Perché mai tra tutti i film remakabili hanno scelto “Il bacio della pantera”? Un film che si dichiarava in aperto contrasto con la concezione di horror che la Universal ha sempre avuto: mostri in primo piano, scene di terrore ogni 3x2 e un’ ironia di fondo che permea ogni suo film.
Cosa aveva “Il bacio della pantera” di tutto questo?
Assolutamente nulla.
Ma nessuno ferma un produttore in cerca di remake fortunato e quindi.
E quindi eccolo “Il bacio della pantera” degli anni ’80.
Un film che riprende la storiella dei “mutanti” serbi per trasformarla in qualcosa di terribilmente anni ’80.
Viene aggiunto il fratello di Irena, una colonna sonora di sintetizzatori all’ ennesima potenza e il classico mostro anni ’80.
Perché quello che la Universal (e Paul Schrader) fa con questo remake è trasformarlo in un suo horror di concezione anni ’80 (si era per caso capito? Ho detto anni ’80 per tre volte in tre fasi, quattro!)
Mostri in primo piano, scene di terrore (o di schifo) ogni 3x2 e nessuna ironia.
Qui tutti si prendono terribilmente sul serio e il risultato è davvero qualcosa di grottesco.
Tra incesti tra fratello e sorella (come potevano mancare nei favolosi anni ‘80?), braccia strappate a morsi e trasformazioni da filmaccio di serie c, “Il bacio della pantera” diviene in questa verione ottantina qualcosa di davvero mostruoso.
In tutti i sensi.
Mentre nell’ originale alla bella Simone Simon nei panni di Irena bastava uno sguardo per incantare tutta la platea, Nastassja Kinski (figlia di Klaus Kinski che oggi si diletta tra filmetti tv di serie z) deve mostrare le tette ogni quarto d’ ora per non farci assopire con i suoi fintissimi pianti e il suo (pur incantevole) sorriso con la bocca storta che ricorda molto una certa Katie Holmes.
Mentre Jane Randolph nei panni di Alice è solo un po’ odiosetta nell’ originale, Annette O’ Toole (la mamma di Clark Kent in “Smallville”) risulta semplicemente detestabile.
Ma il massimo è raggiunto da Malcolm Mc Dowell.
Si.
Quello di “Arancia meccanica”.
Sappiamo più o meno tutti del decadimento fisico, morale e filmico che subì quest’ uomo dalla fine degli anni ’70 circa fino al recente “Evilenko” ma sinceramente io ci speravo un pochettino in questo film.
Macchè!
Malcolm nei panni del fratello di Irena si aggira tra il ridicolo e il demenziale e tutte le sue smorfie e i suoi occhi strabuzzati per farci capire quanto è pazzo non possono che farci ridere dopo 5 minuti, quando capisci che non ci crede nemmeno lui a quello che sta facendo.
Un uomo pantera.
Certo.
Come no.
Ma per carità!
Ma l’ orrore non finisce qui.
Perché se un cast sbagliato può anche essere sopportato con molta fatica quello che infastidisce più di tutto è quell’ aria ottantina (o ottantiana, fate voi!) che Paul Schrader vuol far trasparire fin dalle primissime immagini.
Quel vago senso di plasticoso, finto, esagerato, irreale si respira persino nelle scene di terrore puro (quelle che vorrebbero esserlo): un braccio umano che esce da una pantera tagliata in due per un’ autopsia, un braccio staccato non si sa come da una pantera ad un guardiano incauto che fischiettava allegramente (ovviamente come ogni horror anni ’80 che si rispetti se fischietti vieni ucciso brutalmente due minuti dopo!) e infine una trasformazione pessima in pantera con tanto di quel silicone e trucco per alterare i lineamenti che sembra di trovarsi nel più infimo degli horror anni ’50.
Paul Schrader non fa nulla e anzi contribuisce a questo circo degli orrori con una regia praticamente nulla mentre David Bowie prova con la sua canzone nella colonna sonora “puro sound eighties” di Giorgio Moroder (premiata con un Golden Globes) a risollevare le sorti di una pellicola che cade ogni secondo più in basso fino all’ ultima mezz’ ora in cui sembra di star di fronte ad uno di quei soft porno da rete regionale con tutte quelle tette e quelle scene a letto.
Insomma “Il bacio della pantera” dell’ ‘82 riesce in qualche modo a nobilitare l’ originale che viene così ricordato con gran piacere dal sottoscritto.
Almeno è servito a qualcosa.
Più in basso il trailer dell' originale e i primi 5 minuti della pellicola di Schrader che potrebbero farvi venire 2 pensieri: "Mio dio quanto è anni 80?" e "Magari lo guardo, non sembra brutto". Non seguite il secondo consiglio. é brutterrimo!

IL BACIO DELLA PANTERA (1943)
REGIA: Jacques Tourneaur
ANNO: 1943
VOTO: 6,5
GENERE: Horror psicologico!

IL BACIO DELLA PANTERA (1982)
REGIA: Paul Schrader
ANNO: 1982
VOTO: 3,5
GENERE: horror anni ’80, soft porno

QUANTO MI è VENUTO IN MENTE PAUL HAGGIS E IL SUO PASSAGGIO DALLA SCENEGGIATURA (ANCHE SE ANCORA NON HA SCRITTO QUALCOSA CHE SI AVVICINI MINIMAMENTE A QUEL CAPOLAVORO DI “TAXI DRIVER”) ALLA REGIA PENSANDO A PAUL SCHRADER: 10
QUANTE VOLTE HO RIPETUTO ANNI ’80 E AFFINI: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere, nel primo caso uno dei primi “horror” giocati sulle atmosfere più che sugli effetti, nel secondo caso una schifezza di rara bruttezza ottantina (11).



domenica 23 dicembre 2007

BEE MOVIE


L’ espressione più azzeccata l’ ha data un mio carissimo amico uscendo dal cinema.
“è un cinema sclerotico!”
Un cinema, quello della Dreamworks animation, che sopravvive anche in questo caso di ricalchi (se stessa), citazioni (“Il Laureato, Ocean’ s Eleven), parodie della concorrenza (Winnie The Pooh), sfottò del mondo reale (Ray Liotta, Sting) e prese per i fondelli persino di se stessa.
Neanche la classica presentazione Dreamworks se ne può stare più tranquilla al suo posto nell’ animazione per adulti della Dreamworks.
Già per adulti.
Perché quello che la casa di animazione di Spielberg (se è ancora sua… a volte tendo a perdermi in queste compravendite folli) ha sempre tentato di proporre fin dal rinomato Shrek (escludiamo per questa volta le pellicole precedenti, ce ne occuperemo magari in un’ altra recensione) è un’ animazione diversa, lontana dalla classicità Disney e soprattutto diretta quasi esclusivamente ad un pubblico adulto.
Certo, anche in Shrek un bambino può ridere di fronte all’ omino focaccina o ai rutti dell’ orco verde, ma potrà mai comprendere i mille rimandi presenti nella pellicola?
La risposta è no, o almeno, non totalmente.
Così come non potrà neppure immaginare certe inperdibili citazioni presenti in “Bee Movie”, prodotto che ho creduto ingenuamente dedicato ad un pubblico leggermente meno cresciuto.
Mi sbagliavo.
Potrà mai apprezzare un bambino di 6- 10- 15 (bambino??) anni una citazione enorme de “Il laureato” di Mike Nichols con la celeberrima scena della piscina ripresa fotogramma per fotogramma?
Senza dubbio riderà come un ossesso fino a farvi innervosire nelle scene caotiche della nostra ape Barry sballottata qua e la nel traffico cittadino ma di fronte a Ray Liotta che da di matto in tribunale cosa potrà mai pensare?
Sono pazzi, i miei genitori sono pazzi!
Esattamente quello che pensa l’ ape protagonista del mondo umano visto dall’ esterno, un mondo folle, caotico e senza nessun senso della misura.
Perché alla fine Barry non è altro che un bambino indifeso in un mondo di adulti incomprensibili.
Piccolo, indifeso e anche piuttosto ingenuo il nostro riuscirà ovviamente a farsi strada fino a realizzare il suo sogno che si trasformerà progressivamente in incubo e a cui riuscirà a porre finalmente fine con un colpo di coda (o di pungiglione) finale.
Perché alla fine la Dreamworks è così.
Critica la Disney, sfotte, prende per il culo Sting ma dopo pochi anni sembra di vederla già li ad arrancare.
È ancora in piena forma, lo si vede dalle splendide animazioni, dai personaggi briosi, dalle storie sempre divertenti eppure c’ è qualcosa sullo sfondo che ti fa pensare.
Ti fa pensare che alla fine a forza di criticare si sono adagiati anche loro sugli allori, un po’ come fece la Disney durante gli anni ’80.
Hanno trovato la ricetta giusta: un protagonista (o più) divertente e simpatico e un po’ scemo più un po’ di parodia più qualche sfottò alla Disney più un pizzico di cinismo e la storia è fatta.
In tutta la sua nuova classicità.
Il problema è uno solo a è abbastanza spaventevole: mentre la Disney alla fine degli anni ’80 riuscì ad uscire dalla sua stasi creativa grazie anche al fatto che la concorrenza ancora latitava (le animazioni giapponesi avevano si preso piede ma non su larghissima scala, soprattutto al cinema), oggi il campo dell’ animazione è saturo di prodotti eccellenti a partire dalla cara vecchia Disney che insieme alla fidata Pixar ci ha regalato quest’ anno un gioiellino di nome “Ratatouille”.
È un cinema abbastanza sclerotico già di suo.
Se la Dreamworks non contribuisse ulteriormente io gliene sarei grato.
REGIA: Steve Hickner, Simon J. Smith
ANNO: 2007
GENERE: Animazione
VOTO: 6,5 (perché alla fine il film si fa guardare piacevolmente)
QUANTO FA RIDERE BARRY CHE URLA AL RALLENTATORE APPICCICATO AD UNA PALLINA DA TENNIS: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole farsi due risate su Ray Liotta!

venerdì 21 dicembre 2007

UN LIBRO UN FILM_ PLANET OF THE APES- IL PIANETA DELLE SCIMMIE

Sono abbastanza arrogante da credere davvero di poter scrivere qualcosa di interessante su questa straordinaria pellicola?
Si lo sono.

La recensione che segue è la seconda sul ciclo de "Il pianeta delle scimmie", la prima riguarda il libro omonimo di Boulle da cui è nato tutto, la trovate più in basso, o semplicemente cliccando qui.
Ne seguiranno altre ovviamente, sono già pronte, ma prima mi prenderò una piccola pausa dal pianeta e pubblicherò qualcos' altro.
Questa la dovevo a Weltall e Chimi.



Riprendiamo dalla fine della scorsa recensione sul libro di Pierre Boulle da cui è stata tratta questa pellicola.
Sconvolto dopo 173 pagine mi ero detto.
Bene.
Ora vi posso tranquillamente dire che sto per accasciarmi al suolo.
Il pianeta delle scimmie è un capolavoro.
CAPOLAVORO.
Voglio che sia chiaro a tutti quello che penso perché sarà su questa linea che proseguirà la mia recensione.
Ora potete pure proseguire.
Non mi soffermerò sugli aspetti tecnici e sulle vicende sapute e risapute riguardo la sceneggiatura, il budget, il cast, il regista, il cugino del regista e quante volte in un giorno andava in bagno il produttore.
Sinceramente credo sia troppo facile cavarsela così.
Per un film come “Il pianeta delle scimmie” vorrebbe dire spulciare un secondo su google per trovare migliaia di informazioni di questo genere e sinceramente lo trovo ingiusto sia nei miei (mi sentirei abbastanza inutile) sia nei vostri confronti (cosa vi serve un blog di recensioni se vi dice le stesse cose che vi dicono milioni di altri siti più specializzati e meglio informati?)
Se capiterà di citare qualcuna delle suddette informazioni inutili sarà solo perché hanno una loro utilità ai fini dello scritto e della sua comprensione (o semplicemente perché non ho resistito alla terribile tentazione di svelarvi qualche curioso particolare).
Una volta, non molto tempo fa, lessi su un sito di recensioni l’ opinione di un ragazzo abbastanza saccente (e per abbastanza intendo tantissimo) che proclamava l’ assoluta superiorità di alcuni film senza alcuna storia al loro interno come 8 ½ di Fellini (o almeno questo è quello che credeva lui) e della tecnica sulle pellicole più classiche che si muovono con il classico sistema di narrazione (lineare o meno)e che non introducono nulla di nuovo a livello tecnico.
Voglio che lo sappiate tutti: io non sono assolutamente di quel parere.
“Il pianeta delle scimmie” è semplicemente una grande e bellissima storia.
Non è raccontata con nessuno stravagante artificio (mettere la fine all’ inizio o spargere pezzettini qua e la), non ha assolutamente nulla di così innovativo a livello superficiale (non è sicuramente la prima storia che racconta di un umano sbarcato su un pianeta abitato!) e non è nemmeno straordinaria dal punto di vista visivo (niente skateboard volanti o palazzi immensi sullo sfondo) o tecnico (la regia di Schaffner è si molto buona ma non ha spunti grandiosi da gran maestro del cinema (o almeno questa è l’ impressione che si ha ad una prima visione).
Eppure “Il pianeta delle scimmie” rimane una storia grandiosa.
In tutti i sensi possibili e immaginabili.
Non è mia intenzione mettermi qui a raccontarvi la maestosa vicenda che avrete già letto in decine di siti (o libri, o tazzine del caffè, dove volete!): la storia di Terry che, atterrato su un pianeta alieno, si ritrova a dover far i conti con una popolazione di scimmioni intelligenti e di umani regrediti allo stato scimmiesco e che dovrà avanzare dal suo stato di prigionia animale a quello di uomo libero.
“Il pianeta delle scimmie” è un film straordinario.
Se il libro di Boulle si fa strada nella nostra mente con improvvisi colpi di scena e straordinarie provocazioni intellettuali, quello che il film diretto da Franklin J. Schaffner fa è colpire al cuore con tutti i mezzi possibili e immaginabili.
E in questo senso il risultato è l’ opposto dell’ altro caposaldo della fantascienza firmato nel 1968 dal signor Kubrick: un certo “2001: odissea nello spazio” che con la sua glacialità si proponeva di farci ragionare a fondo, lavoro di mente dunque.
“Il pianeta delle scimmie” è una valanga.
Di emozioni, di immagini, di personaggi, di parole, di motti ma soprattutto di storia.
Una storia a valanga.
“Voi che mi state ascoltando adesso siete una razza diversa!”
È questa una delle primissime affermazioni di Terry (il protagonista che nel libro di Boulle si chiamava più simbolicamente Ulisse).
A Rod Serling (l’ ideatore della straordinaria serie “Ai confini della realtà” a cui la fantascienza odierna deve molto se non tutto e primo sceneggiatore del film) e Michael Wilson (sostituto di Serling alla sceneggiatura per le idee troppo costose riguardo la società avanzata secondo le esigenze scimmiesche immaginata da Serling) interessa fino ad un certo punto il colpo di scena, o perlomeno non interessa il primo colpo di scena che Boulle aveva posto al centro della sua storia.
D’ altronde esisteva già un libro e il titolo era chiaro al riguardo.
Quale colpo di scena poteva essere la comparsa di scimmie pensanti a metà pellicola?
Per questo dopo il brusco atterraggio non c’ è bisogno di molto tempo per vedere le scimmie intelligenti catturare (o uccidere nel caso del compagno nero poi imbalsamato in un museo a metà pellicola) i nostri.
La storia procede.
Come una valanga.
A differenza del libro in cui Ulisse si sofferma attentamente e per lungo tempo sulle capacità umane delle scimmie (sorridere e addirittura parlare!) Schaffner risolve tutto con una sola fantastica sequenza: gli scimmioni in piedi trionfanti sulle loro prede e il fotografio che esclama: “Sorridete!”
Rod Serling, Michael Wilson o chi per loro si muovono in modo diverso rispetto a Boulle eppure riescono a creare qualcosa di altrettanto straordinario.
Mentre il libro dello scrittore francese insisteva pesantemente sugli esperimenti da animale domestico a cui è sottoposto Taylor (o Ulisse, chiamatelo un po’ come volete!), il film di Schaffner si disinteressa quasi completamente dell’ argomento per rivolgersi alla cocciutaggine degli eminenti scienziati scimmioni biondi.
Zaius in particolare è reso talmente sgradevole, detestabile e viscido che non stupisce per nulla che la pellicola sia datata 1968.
Anzi.
Quel semplice numero, quella data, oggi, a distanza di anni, si può anche leggere come rivoluzione.
Tentata, fallita, misera, inutile, farlocca.
Potete attribuirgli l’ aggettivo che volete.
Si tratta comunque di rivoluzione.
E “Il pianeta delle scimmie” è senza alcun dubbio un figlio di quel numero, di quella data.
Con disprezzo oggi qualcuno direbbe che “Il pianeta delle scimmie” è indiscutibilmente figlio del suo tempo.
Che poi chi pronunci questa frase non sappia nemmeno dargli un significato ben preciso poco importa perché è l’ effetto che conta.
Perché dire che questa pellicola è figlia del suo tempo non è difficile.
Lo si comprende dalle casupole del pianeta scimmiesco fatte di cartapesta (o qualcosa di simile!) per il limitato budget, lo si comprende dal trucco delle scimmie stesse (seppur straordinario e costosissimo tanto da far vincere un oscar speciale per il make up a John Chambers oggi risulta comunque leggermente datato), ma soprattutto è la storia a dirlo.
“Nel tempo che è passato l’uomo fa ancora la guerra con i suoi fratelli?”
Non è una frase figlia del suo tempo questa?
Certo!
Ma sapete una cosa?
Non me ne importa nulla.
Perché “Il pianeta delle scimmie”, proprio come il libro da cui è tratto, è una lezione morale e in questo caso cinematografica come ne esistono poche.
Mentre nel libro di Boulle, Zaius non sapeva della civiltà terrestre ed era poco incline a crederci, lo Zaius cinematografico è qualcosa che va al di la della nostra comprensione: lui sa molte più cose di quello che vuol far credere ma non vuole farle conoscere al resto del popolo scimmiesco.
Lucius, il nipotino di Cornelius e Zira, le due scimmie che aiutano Taylor nella fuga, chiede perché mai tenere tutti all’ oscuro, perché continuare a vivere in quel modo se si può progredire e la risposta di Zaius è simbolica dell’ intera pellicola e di quel che si vedrà subito dopo.
Perché in questo modo forse ci salveremo.
È questo in sostanza il messaggio dell’ eminente saggio.
Quel saggio che tutti odiano durante la visione della pellicola, che tutti sperano muoia da un momento all’ altro o che comprenda finalmente la vera natura di Taylor si trasforma, a differenza del libro di Boulle, nel salvatore della sua gente.
La dove il libro nel finale lanciava un messaggio a proposito di politici e pensatori legati alle auctoritas incapaci di farci progredire in un mondo sano, il film si trasforma in qualcosa di assolutamente differente.
A dispetto del suo tempo, “Il pianeta delle scimmie” ci dice che in qualche modo abbiamo bisogno anche di saggi pensatori legati alle tradizioni.
Forse Zaius non è l’ esempio più giusto da seguire ma è indubbio che il personaggio di Cornelius (interpretato da Roddy Mc Dowell, unico a comparire in tutti i seguiti) tanto legato alle sue teorie quanto intimorito nel trasmetterle alla fine risulta forse più disgustoso del saggio stesso.
E Taylor?
L’ uomo che nel romanzo di Boulle dopo molte peripezie riesce ad essere trattato come uno del popolo e vivere per un intero anno al pari del resto delle scimmie non è forse qualcosa di profondamente diverso?
Solitario, sprezzante, ribelle e incapace di accettare la dura realtà: il Taylor interpretato dallo straordinario Charlton Heston (forse nella sua interpretazione più convincente insieme a quella di Ben Hur) è più cocciuto di Zaius stesso.
Mentre quest’ ultimo finge solamente di non sapere, Taylor si ostina a insultare i gorilla senza comprendere la loro superiorità in questo mondo (“Toglimi quelle zampacce di dosso maledetto sporco gorilla!”) e a non accettare la sua sconfitta fino all’ ultima straordinaria e straziante visione.
Schaffner (regista consigliato da Heston) dirige bene e costruisce pregevoli momenti come quello di Taylor seguito da una macchina disorientata mentre viene colpito da oggetti lanciati da tutto il popolo ma quello che crea insieme all’ immaginazione di Rod Serling sul finale è qualcosa di immenso.
Capace di ribaltare ogni buon lieto fine possibile, di sorprendere per la sua immensa crudeltà e per la sostanziale differenza con il libro (li Terry sul finale riusciva a riprendere l’ astronave e a dirigersi sulla Terra dominata ormai da scimmioni), di colpire come un terremoto tutti i nostri cuori.
“Sono a casa, la Terra, voi uomini l’avete distrutta! Maledetti! Maledetti per l’eternità! Tutti!”
La camera si gira su una statua della libertà spezzata in due e per metà immersa nella sabbia.
Fine.
CAPOLAVORO.
REGIA: Franklin J. Schaffner
ANNO: 1968
GENERE: Fantascienza
VOTO: 10+
QUANTO SONO GRANDI LA SCENA SUL CANYON CON TAYLOR (UOMO) DA UNA PARTE E CORNELIUS (SCIMMIA) DALL’ ALTRA E LA MERAVIGLIOSA COLONNA SONORA DI JERRY GOLDSMITH: 10
CONSIGLIATO A CHI: A chiunque voglia vedere uno dei più grandi film di fantascienza mai prodotti.

Godetevi il trailer!

giovedì 20 dicembre 2007

UNA VOLTA AVEVO... UN VISO ACQUA E SAPONE

So che molti se la prenderanno, che molti mi accuseranno di eresia se non di pazzia.
Fate pure.
Alla fine è solo questione di gusti.
Sappiate solo che io a vedere Nicole sempre più tirata fino a diventare trasparente non godo neanche un po'.
Anzi, a dirla tutta, un po' mi fa pena (quando non mi spaventa).




martedì 18 dicembre 2007

LA PLANèTE DES SINGES- IL PIANETA DELLE SCIMMIE_ IL LIBRO

Questa è solo la primissima parte di un' avventura tutta nuova con "Il pianeta delle scimmie", spero che sia gradita.
Il primo film tratto da quest' opera lo trovate poco più in alto o semplicemente cliccando qui.
Il progetto Carpenter e quello sull' altro regista di cui ancora non vi ho detto nulla sta proseguendo.
Proseguirà tutto in parallelo, tempo permettendo.
Staccate il biglietto.
Il giro sulla giostra inizia.
Vi farò delirare.



Folgorato.
Ecco il termine giusto per descrivere le mie sensazioni dopo 10 pagine di lettura.
Voglio essere chiaro fin dall’ inizio: “Il pianeta delle scimmie” è un romanzo incredibile.
E io me ne sono innamorato perdutamente.
Nonostante le mie aspettative altissime, nonostante avessi paura di ritrovarmi impigliato in uno di quei romanzi fantascientifici dell’ editrice Nord (per che ne ha mai letto uno sa cosa intendo, per tutti gli altri bastino le parole a fianco) tutti paroloni e avventure spaziali in puro stile yankee-western, “Il pianeta delle scimmie” ha saputo sorprendermi.
Pierre Boulle ha saputo sorprendermi.
Con una scrittura sobria e priva di complicazioni inutili, Boulle ha messo su carta una storia senza tempo.
Una di quelle storie che meriterebbe di entrare in quella categoria rappresentata da libri come “1984”, “Fahrenheit 451”, “Brave New World” ma con una leggerezza che mi è capitato di trovare solo ne “La fattoria degli animali” di Orwell stesso.
Perché “Il pianeta delle scimmie” è si il racconto di un uomo che si ritrova su un pianeta popolato da scimmie intelligenti (sono sicuro che questo lo sapete tutti) ma è molto di più.
Molto ma molto di più.
Innanzitutto un breve accenno alla storia per i meno preparati: Ulisse Meroù parte con una spedizione spaziale alla volta del sistema di Betelgeuse alla ricerca di nuovi pianeti abitati insieme a due compagni.
Dopo due anni in viaggio (affrontato per brevissimo tempo ad una velocità superiore a quella della luce per cui si hanno squilibri con il passaggio del tempo sulla terra) i nostri individuano un pianeta abitabile e si dirigono sulla sua superficie che trovano incredibilmente simile alla nostra.
Qui decidono di buttarsi in un laghetto per rinfrescarsi e si accorgono di essere spiati da una donna totalmente nuda che ha qualcosa di strano negli occhi e si rifiuta di parlare.
Il giorno seguente i nostri avventurieri vengono raggiunti da quello che sembra essere il gruppo con cui vive Nova (così è stata battezzata la ragazza del giorno precedente da Ulisse) ma qualcosa non va nel loro comportamento: neanche loro parlano e addirittura sono spaventati dagli abiti civili dei nostri astronauti.
Neanche il tempo di comprendere cosa accade davvero su quel pianeta e i protagonisti insieme al gruppo di umani incontrati si ritrovano nel bel mezzo di una battuta di caccia in cui loro stessi sono gli animali braccati.
Ma quella che porta quel fucile sulla spalla non è una scimmia?
Non voglio anticiparvi altro.
Se già sapete cosa accade veramente su questo pianeta riuscirete facilmente a comprendere le mie parole altrimenti correte a procurarvi il libro (o perlomeno date una scorsa al riassunto di esso su wikipedia se volete rovinarvi il gusto di leggerlo) e poi tornate qui.
Dicevo che “Il pianeta delle scimmie” è molto più di un libro di fanta- avventura da editrice Nord.
Già.
Ma per quale motivo?
Innanzitutto Boulle non è uno scrittore di fantascienza.
Prima del “Pianeta delle scimmie”scrisse altri libri, molti incentrati sulle sue vicende durante la seconda guerra mondiale, di cui senza dubbio il più conosciuto rimane “Il ponte sul fiume Kwai” (da cui fu tratto poi un film vincitore del premio oscar).
Non essendo uno scrittore di fantascienza Boulle non scrive come uno di essi e nemmeno come un romanziere d’avventura: non si preoccupa di quale mirabolante segreto si nasconda dietro i razzi iperveloci dell’ astronave di Ulisse e nemmeno della prestanza fisica del suo eroe.
A Boulle importa solo la storia si potrebbe dire.
La storia e le sue interpretazioni.

Perché “Il pianeta delle scimmie” proprio come “La fattoria degli animali” e i migliori scritti di questo genere, è il classico libro multistrato (non è un mobile Ikea questo sia chiaro!)
Ci si può leggere una bella avventura fantascientifica o una delle migliori metafore sul mondo moderno che uno scrittore abbia mai raccontato con così tanta semplicità.
E così eccoci nel pianeta delle scimmie: dove sono gli uomini a essere trattati come animali e le scimmie a dominare il mondo incontrastate, “senza dubbio perché dotate di 4 arti prensili con cui si possono muovere in tutte le direzioni senza difficoltà”.
L’ uomo è inferiore, con quelle due braccia deboli e quelle gambe utili a muoversi su di un solo piano, l’ uomo sul pianeta delle scimmie è semplicemente un animale leggermente più simile alla scimmia rispetto agli altri.
E su cui quindi queste ultime possono effettuare esperimenti a proprio vantaggio.
Gli uomini sono solo cavie da laboratorio.
Nient’ altro.
È così che viene trattato Ulisse per buona parte del racconto senza nemmeno rendersi conto che quella che lui crede crudeltà nelle scimmie altro non è che il comportamento umano sulle cavie da laboratorio sulla terra.
E una volta compreso l’ equivoco il protagonista dovrà subire ancora centinaia di umiliazioni prima di vedere la sua intelligenza riconosciuta da un popolo che lui si ostina a chiamare di scimmioni.
Perché tutta la sua intelligenza, tutta la sua perspicacia, tutta la sua evoluzione non servono a nulla in un pianeta dominato da scimmie intelligenti e cocciute.
Cocciute come l’ uomo sulla Terra.
Incapaci di andare al di la delle loro sterili convinzioni tramandate di libro in libro dagli eminenti della cultura: gli orangutan.
Odiosi esseri capaci solo di riconoscere l’ auctoritas (mi vengono in mente per andare verso il campo cinematografico quei critici cocciuti incapaci di andare al di la di un nome) gli orangutan rappresentano la casta degli intellettuali a cui talvolta si aggiungono alcuni scimpanzè troppo sfacciatamente perspicaci per essere esclusi.
Al di sopra degli orangutan solo i gorilla dediti alla politica, ossia a quell’ attività che permette a tutti di rientrare nella propria casta senza lamentarsi troppo.
Al di sotto degli orangutan, gli scimpanzè, ossia il popolo operaio, ossia i veri protagonisti di questo romanzo.
Boulle finge di raccontare la storia di Ulisse mentre in realtà pone tutta la sua attenzione sugli scimpanzè e anticipa di qualche anno quello che sarà il momento di maggiore riflessione su se stesso che “la massa” ha avuto negli ultimi 100 anni: il periodo intorno al 1968.
Senza risultare terribilmente anacronistico (per noi del 2007) e nemmeno troppo rivoluzionario (per chi leggeva il libro al momento della sua uscita) Boulle racconta di una società scimmiesca che per molti tratti ricorda quella di fine ‘800 terrestre (i modi di governare, gli usi della civiltà) ma che per molti altri aspetti si confronta senza dubbio con quella attuale (di oggi e soprattutto del periodo in cui il libro è stato scritto).
“è ora che l’ importanza degli scimpanzè venga riconosciuta in modo che il mondo riesca finalmente a disincagliarsi da uno scoglio troppo grande che impedisce un sano progresso”
È questo il messaggio finale che Boulle ci trasmette.
Al di la della sorte di Ulisse che si è spinto troppo oltre le colonne di Ercole (mai nome fu più adatto), al di la della tremenda scoperta di uomini in grado di regredire fino ad uno stato selvaggio, al di la di tutto, quello che importa a Boulle è riuscire ad aprire gli occhi ai nostri orangutan cocciuti e ai nostri scaltri gorilla.
Folgorato dopo 10 pagine di lettura.
Sconvolto dopo 173.
AUTORE: Pierre Boulle
ANNO: 1963
GENERE: Fantascienza, fantapolitica
VOTO: 10
QUANTO è STATO GRANDE BOULLE A TRASFORMARE IL SUO MESSAGGIO IN UNA STORIA FANTASCIENTIFICA ADATTA AI TEMPI: 10
CONSIGLIATO A CHI: a tutti i gorilla e gli orangutan.

domenica 16 dicembre 2007

ENCHANTED- COME D' INCANTO



Sono le aspettative che contano.
Credo che questo sarà il mio nuovo motto.
Mi aspettavo poco o nulla da questo “Enchanted”, nuovo prodotto della Disney per metà animato e per metà con attori “veri”.
Sono andato a vederlo un po’ obbligato dalle uscite di zona (ancora non mi è andata giù l’ esclusione di “Eastern Promises” da tutte le sale nel giro di 30 chilometri!) e un po’ perché ero davvero curioso di vedere cosa aveva tirato fuori dal cilindro la casa del topolino più famoso del mondo questa volta (non vi nascondo che potevo optare benissimo per “Irina Palm”).
E spero che nessuno strabuzzi gli occhi a mo’ di pesce lesso se vi dico che “Enchanted” è stata davvero una piacevole sorpresa!
Una piacevolissima sorpresa.
Per metà animato e per metà reale ho detto.
Le cose non stanno proprio così!
In realtà su un ora e mezza circa di proiezione solo i primi 20 minuti sono occupati interamente dall’ animazione mentre per il resto si vedono solo attori in carni e ossa (ad eccezione di qualche breve comparsata animata).
20 minuti di animazione.
Ma che animazione!
In quei pochi attimi la Disney concentra tutti i luoghi comuni (che brutta definizione!) delle sue produzioni classiche: dalla bella fanciulla canterina con seguito di animali aiutanti (non possono mancare le classiche caratterizzazioni Disney tra cui il gufo burbero e gli scoiattolini simpatici) al principe vanesio cattura orchi.
Senza contare il migliore di tutti i suoi luoghi comuni: disegni tondeggianti e coloratissimi rigorosamente in 2D, come non se ne vedevano da tempo.
20 minuti per tornare bambini.
Per rivedere la nostra bella fanciulla cantare insieme agli animali e sperare nell’ arrivo del principe nel momento più difficile.
Per spaventarsi di fronte alla strega cattiva che si trasforma in vecchina mentre il suo brutto e gobbo aiutante non riesce a colpire la bella.
20 minuti.
Poi la musica cambia.
Quasi senza preavviso.
E il colpo è forte.
Ci si trova in una classica città americana tutta traffico, urla e gente che si muove in massa.
E mentre ancora ti chiedi che fine ha fatto il gufo con il suo broncio ti vedi la bella fanciulla (Amy Adams) trasportata senza pietà da una massa informe.
Ma alla Disney non interessa colpire lo spettatore duramente e a lungo con forti contrasti.
Alla Disney interessa lo spettacolo.
E spettacolo sia.
Mentre la bella e ingenua fanciulla tenta di entrare in un castello di cartone dopo numerose gaffe viene notata dalla figlia di Robert (Patrick Dempsey, il dottore “Stranamore” di Grey’ s Anatomy nella sua prima incursione post- successo telefilmico al cinema in un ruolo tagliato apposta per i suoi sguardi dolci e sorpresi) che decide a malincuore di portarla a casa sua per aiutarla.
Di qui in poi il classic Disney riprende il sopravvento.
Ci saranno uomini duri che pian piano si scioglieranno, traditori che cercano di impedire il lieto fine, streghe cattivissime (azzeccatissima la scelta di Susan Sarandon) che entreranno in campo per un ultimo spettacolare scontro, lieto fine e morale (anche se quest’ ultima è forse l’ elemento meno marcato rispetto al solito).
E ovviamente non mancherà “il bacio del vero amore”.
Ma.
Ma “Enchanted” non è solo una bellissima favola Disney ambientata nel mondo reale.
“Enchanted” è al tempo stesso un classico e la parodia del Classico.
Una parodia che si muove tra vere e proprie copie (la strega cattiva prova ancora nel finale la carta vecchina con risultati davvero spaventevoli questa volta) e simpatiche prese in giro di tutto quello che un bambino cresciuto a pane e Disney credeva intoccabile.
Ma c’ è già Shrek!
No!
Shrek è tutt’ altra cosa.
Shrek (mi riferisco soprattutto al terzo episodio a cui abbasserò il voto ad un 7) è una presa in giro abbastanza pesante di tutta la classicità Disney tra rutti, scoregge e citazioni.
Enchanted è una leggera parodia della Disney stessa su se stessa.
E la differenza è grande.
Molto grande.
Mentre Shrek sembra muoversi come un tritatutto senza pietà, “Enchanted” sembra quasi sfiorare con un tocco leggero la sua vittima per muoversi subito verso altri lidi.
La differenza tra “Enchanted” e “Shrek” (due prodotti comunque diversi per un pubblico diverso, ci tengo a dirlo perché so che potreste criticare questo mio accostamento) sta nel fatto che la Disney conosce molto meglio della Dreamworks se stessa e i suoi cosiddetti difetti ed è in grado di affrontarli a testa alta, senza vergognarsi di nulla e, anzi, facendo entrare in testa anche all’ adulto più cocciuto, un nuovo motivetto da fischiettare sotto la doccia cantato in coro dai mille personaggi del parco.
E così, mentre io mi aspetto ancora il vero nuovo capolavoro della Dreamworks (l’ ultimo a mio parere è stato Shrek, il primo capitolo) la Disney sforna in un anno “Ratatouille” e questo “Enchanted” confermando ancora una volta (se ancora ce n’ era bisogno) che la casa di Topolino ha ancora idee da vendere.
Sono le aspettative che contano.
E le mie questa volta sono state abbondantemente e felicemente superate.
REGIA: Kevin Lima
ANNO: 2007
GENERE: Animazione, commedia
VOTO: 8
QUANTO è BRUTTO TIMOTHY SPALL NEL RUOLO DEL CLASSICO AIUTANTE DELLA STREGA: 10 (lo rivedremo a breve nell’ attesissimo “Sweeney Todd”)
CONSIGLIATO A CHI: è un po’ nostalgico della vecchia cara Disney 2D e vuole anche divertirsi.

venerdì 14 dicembre 2007

2061: UN ANNO ECCEZZIUNALE

Questa recensione è stata scritta in un evidente momento di follia.
A presto con una recensione seria.
Spero.



Considerate il fatto che qualcuno ha fornito dei soldi per produrre questo film.
Un film con Abatantuono che cita se stesso e suoi film da terrunciello classici (Attila in prima linea).
Un film che mette insieme la feccia della feccia della feccia della feccia della comicità italiana (e anche non della comicità): Jonathan del "Grande fratello non so più quale numero" che fa praticamente se stesso, Anna Maria Barbera (Sconsolata) che non mi faceva ridere a Zelig tanti anni fa figurarsi adesso che ripete sempre le solite tre boiate, Sabrina Impacciatore che secondo me è brutta, Stefano Chiodaroli che sinceramente il pane sa bene dove può metterselo, Stefano Ceccherini che non sa più nemmeno lui se si prende in giro da solo o cosa, Biagio Izzo che a me proprio non dice nulla e l' amico di Abatantuono (Ugo Conti possibile? Non mi sforzo a cercare il suo nome) che il povero (?!) Diego si porta appresso ovunque con l' evidente intento di trovare qualcuno a cui scaricarlo.
Non vi basta?
Aggiungeteci Michele Placido (che se c'è Michele Placido è serio...come no!) e una trama post apocalittica con paesaggi alla Mad Max e trovate caciottare da veri Italiani doc e avrete una delle cose più improbabili che io abbia visto in questi ultimi anni al cinema.
Non vi sto a raccontare la trama che potete trovare ovunque e che potreste anche trovare interessante, vi dico solo di pubblicità scandalosamente messe in vista in ogni dove, di una comicità di un grezzume unico (quando pensai "Ora ci manca solo la scoreggia..."ci fu la scoreggia!) e di un piattume e una sana (?!) voglia di prendersi sul serio che risultano a dir poco irritanti.
Qualcuno ha parlato di cult per il futuro... glielo do io un bel cult...ma non al cinema!
Vi confesso di averci creduto fino a 5 minuti dall' inizio.
Ho pensato che poteva funzionare con quell' introduzione così sarcastica sulla situazione italiana nel futuro.
L' ho pensato perchè io ancora ogni tanto ci credo.
Perchè io ogni tanto credo anche che gli U2 torneranno a fare un buon album dopo più di 10 anni.
Perchè essenzialmente sono un' ottimista di natura che non crede finchè non vede.
Poi ho visto Jonathan... ed è stato lo sfacelo.
Tra neri siciliani e chissà quale diavoleria ammetto di essermi addormentato e risvegliato giusto in tempo per il peto.
Perchè il peto non manca mai nei Vanzina.
Pensateci.
Qualcuno ha dato dei soldi per produrre questo film.
C' è speranza per tutti di farsi produrre un film quindi!
Siate felici!
Sorridete!
Prot.
REGIA: Carlo Vanzina
ANNO: 2007 (si stupiranno i nostri discendenti, è possibile produrre un film simile nel 2007?)
GENERE: Fantascienza, Commedia, Grottesco
VOTO: 3
CONSIGLIATO A CHI: Ma che ne so! A qualche scimmietta!
QUANTO MI FA INCAZZARE ABATANTUONO CHE SI BUTTA NELLA SPAZZATURA DA SOLO: 10

PS: E non mi si venga a dire che non ho analizzato profondamente il film e che questa è una sterile critica perchè sinceramente non ce n'è bisogno.
Nè della mia recensione, nè di questo film.

mercoledì 12 dicembre 2007

UNA VOLTA AVEVO... UNA FACCIA_ CAP 2

E chi se non il mitico Mickey Rourke poteva competere con Stallone?


martedì 11 dicembre 2007

REVOLVER



Chiiiii? Cosaaaaa? Comeeeeee?
Sono appena uscito da un esperienza traumatizzante.
Ho visto “Revolver” di Guy Ritchie datato 2005, sua prima regia dopo il floppone (giustificatissimo) di “Travolti dal destino”.
Ecco ora io non so cosa girava nella testa di Guy al momento di mettere in scena “Revolver”, non voglio sapere cosa aveva fumato o si era preso, non voglio sapere neppure se era semplicemente arrabbiato perché nessuno aveva capito il suo splendido (?!) remake del film della Wertmuller prima citato e quindi aveva bisogno di dimostrare qualcosa.
“Adesso gli faccio vedere io a questi bambocci!” avrà pensato e subito dopo ha preso la camera in mano, ha chiamato l’ amico Jason Statham, l’ abbronzato Ray Liotta, il ciccio riccio Vincent Pastore, l’ uomo dal riporto più brutto del mondo Mark Strong e già che passava di li ci ha messo dentro pure Andrè Benjamin (Andrè 3000 degli Outkast).
Con l’aiuto di Luc Besson ha messo giù una storia che secondo lui poteva reggere e ovviamente non ha escluso nessuno degli elementi che lo hanno reso famoso: milioni di personaggi, una storia basata essenzialmente su un tizio di nome Jake che si incasina per aver fottuto (stiam parlando di un film di Ritchie e io parlo come i suoi personaggi dato che la visione è fresca, scusatemi) un boss mafioso (Macha, ovvero Ray Liotta) e che si compone, proprio come “Lock e Stock” e “Snatch” , di mille incastri e altrettanti colpi di scena.
Me lo vedo già tutto esaltato sulla scena, a far primi piani velocissimi, a cercare sempre nuovi pertugi dove mettere la telecamera e nuovi metodi per stupire lo spettatore.
Stanno giocando a scacchi? Ovviamente io piazzo la camera sulla scacchiera.
Stanno per uccidere qualcuno? Togliamo le immagini reali e sostituiamole con dei cartoni animati.
Stanno tutti aspettando Statham rasato? Facciamolo uscire alla prima scena con capello lungo unto e baffi.
Insomma Guy Ritchie torna a divertirsi e si vede.
La classica ironia che pervade ogni personaggio- scena- inquadratura lo dimostra ma Guy non si accontenta.
Lui vuole farci vedere che vale ben di più di un noir simpatico.
Ma “gli faccio vedere io” che cosa Guy?
Che cosa cazzo ci volevi far vedere?
Se nei primi 30- 45 minuti sei li che dici “finalmente è tornato il nostro compagno di bevute Guy” nonostante qualche rallentamento eccessivo e qualche pacchianata di troppo (e dai con sta musica classica contemporanea non puoi pretendere che ti prenda sul serio), dopo un po’ vedi che il regista comincia a darci giù di brutto con ogni intrico possibile e immaginabile.
Insomma al posto di risolverli come al solito, il marito di Madonna a metà pellicola decide che è ora di complicare il tutto, “che mica ve la cavate così facilmente stavolta!”
Eh già, peccato che da qui in poi non si capisce più nulla.
Guy ci prende gusto e si infila in cunicoli sempre più stretti di doppie personalità e citazioni da ogni dove (Machiavelli, guida degli scacchi, carta igienica di casa sua) in cui inevitabilmente non riesci a seguirlo.
Ci provi, perché alla fine ci sei affezionato a questo simpatico burlone inglese ma alla fine ti devi arrendere perché Guy sul finale non ci degna nemmeno di una spiegazione, butta li uno che si spara e chiude l’ obiettivo indispettito.
“Gliel’ ho fatta vedere io eh?”
Ma che cosa Guy?
Il film va abbastanza male al botteghino nonostante una citazione del “The Sun” inesistente piazzata sulla locandina (in realtà si trattava della recensione di un sito internet il cui nome conteneva all’ interno la parola Sun) e in Italia penso non sia nemmeno uscito in sala.
Insomma per Guy è un altro mezzo flop e nonostante “Revolver” non si avvicini minimamente alla bruttura di “Travolti dal destino” ora c’è il rischio di essercelo davvero perso per strada il buon Ritchie.
Tra citazioni, Kabbalah (pare che il film sia pieno di riferimenti alla Kabbalah come il numero 13 che per questa sorta di mistica religione segna l’età del passaggio all’ età adulta e che noi ritroviamo nell’ ascensore al momento dell’ avvenuta comprensione di sè da parte di Jake) e Madonna io non so davvero più che pensare di questa ex promessa inglese.
Mentre penso a Tarantino e al fatto che lui il vero azzardo non lo ha ancora tentato (chissà se ci proverà mai!) cerco di immaginarmi il prossimo “Rocknrolla” di Ritchie che dovrebbe uscire nelle sale il prossimo anno e che vedrà protagonisti Gerard Butler, Tom Wilkinson e Thandie Newton e che ovviamente metterà al centro la storia di un malvivente russo e i suoi loschi affari con i gangster (saranno milioni come al solito) della zona.
Statham è dato per assente.
Chissà se si è montato la testa con gli ultimi successi action (e farebbe bene!) o se semplicemente ha iniziato a sentir puzza di morto intorno a Ritchie.
Io ancora ci spero, sono curioso di vedere che strada intraprenderà Guy, se si infilerà in cunicoli sempre più stretti o se uscirà di nuovo all’ aria aperta a farsi di nuovo una bevuta con noi.
UPDATE: Guy Ritchie ha recentemente dichiarato che il film dopo Rocknrolla sarà un film di guerra. Io attendo Rocknrolla poi vi dico se c' è ancora da fidarsi!
REGIA: Guy Ritchie
ANNO:2005
GENERE: Noir a là Guy Ritchie (i primi due film li avevo indicati come pulp ma, mentre già in Snatch si faceva fatica a trovare la vena pulp, qui non ve ne è nemmeno l’ ombra).
VOTO:6 (di incoraggiamento perché comunque i primi 45 minuti sono godibili. Comunque sarebbe un 5- 5,5)
QUANTO FA STRANO VEDERE STATHAM COI CAPELLI: 10
CONSIGLIATO A CHI: non ne ho idea. Consigliato a chi vuole sfidarmi per vedere se lui riesce a capirci qualcosa!

domenica 9 dicembre 2007

HITMAN

Se volete un film e una recensione seria leggete e guardate "Platoon" subito sotto questa recensione.



Ogni tanto un buon film cazzone ci vuole.
Ma questo non è un buon film cazzone.
Non è un buon film.
Ho dei dubbi sul fatto che sia un film.
Hitman è una ciofeca di dimensioni spaziali.
È un’ accozzaglia di banalità incredibili messe insieme da una storia a dir poco esile con una regia decisamente scadente.
A partire dalle banalità sui nomi: l’ Organizzazione, il Grand Hotel, l’ agente Smith e chi più ne ha più ne metta (scommetto che se giravano in Italia c’ era anche il signor Rossi!)
Passando per la banalità di una storia che non esito a definire quasi ridicola: c’ è questo agente chiamato Numero 47 (ovviamente non si sa perché!) che fa il killer per conto dell’ Organizzazione (attenzione attenzione!) e ad un tratto decidono di tradirlo (per quale motivo? Boh!) e cercano di incastrarlo in tutti i modi. Lui prende la solita ragazza sfruttata e triste dell’ occasione e passa dall’ odio ad una sorta di amore non dichiarato per lei finchè riesce a sconfiggere tutti i cattivi e la fa felice.
Certo.
Io sono lo stesso che è andato a vedere “Die Hard vivere o morire” e gli ha dato un voto intorno al 7.
Ma non possono pretendere che io mandi giù questa cosa senza dire nulla.
Io non ce la faccio!
Se l’ ultimo “Die Hard” aveva il pregio di non prendersi troppo sul serio qui tutto è calato in un contesto che si vorrebbe realistico ma che sfiora più volte il ridicolo.
Numero 47 uccide il presidente russo e la polizia Usa ovviamente va a dettare legge a casa dei Russi che ovviamente hanno una squadra di agenti incompetenti o, peggio, traditori.
Capisco che la storia possa anche piacere ad un Americano un po’ rintontito ma qualcuno dovrebbe spiegargli che non va proprio così: gli Usa non vanno a comandare in giro per il mondo e soprattutto nessuno si permetterebbe mai di andare nell’ ex Urss a insultare gente a destra e a manca perché “lasciateci entrare noi siamo della Cia!”
Come se non bastasse a una storia senza alcun mordente quando non irritante si aggiunge una delle regia più piatte che io abbia visto in un action di questi tempi: ad eccezione di due scene leggermente più riuscite (un combattimento di spade e una sparatoria gigantesca con protagonista l’ uomo del bunker di “Lost”) il regista Xavier Gens (alla sua seconda esperienza dopo “Frontier(s)”) si diletta ad inquadrare particolari sinceramente inutili come il cubetto di ghiaccio che scende nello scotch (qualcuno gli spieghi che inquadrare un particolare al rallentatore non significa essere dei bravi registi!) o a realizzare velocissimi flash che ovviamente sono incomprensibili (almeno per chi non ha giocato al videogioco). C’ è poi da notare una velocissima e quasi epilettica scena di lotta in cui ho rischiato davvero di dar di matto per capirci qualcosa.
Se ancora non vi basta aggiungete al tutto dialoghi al limite dell’ imbarazzante (“Non partire, stai con me!”, risposta: “No devo andare! Ti ritroverò io!”) e attori quasi inutilizzati: Timothy Olyphant non sa bene neanche perché è li (e capisco ora l’ abbandono di Vin Diesel a fine 2006), Dougray Scott cerca di dare del suo meglio nel ruolo del poliziotto-sagoma di cartone e Olga Kurylenko mostra abbastanza le tette e le gambe per far arrapare un po’ i quindicenni.
Ecco appunto i quindicenni.
Potrei consigliarlo solo a loro questo film.
Ma non ne sono così convinto.
Fate una cosa per sicurezza: non andate a vederlo.
Non ve ne pentirete.
PS: perdonate la scrittura un po’ così ma non meritava più impegno questo Hitman.
REGIA: Xavier Gens
ANNO: 2007
GENERE: Azione
VOTO: 4
QUANTO SONO RIDICOLE CERTE SCENE COME QUELLA IN CUI LUI SI RITROVA IN UNA STANZA DOVE 2 RAGAZZI STANNO GIOCANDO AD HITMAN SULLA PLAYSTATION 2: 10
CONSIGLIATO A CHI: Sinceramente? A nessuno. Forse quelli che hanno giocato il videogioco però lo potrebbero apprezzare di più! Ma non ne sono sicuro.

venerdì 7 dicembre 2007

PLATOON



Questo voto è falsato.
Molto probabilmente tra due o tre giorni quando la visione sarà un po’ più fredda aggiungerò quel voto che manca alla perfezione (o forse no).
Ma per ora stiamo qui.
Questo voto è falsato dalle mie altissime aspettative.
Così come quelle per “Darkstar” erano decisamente basse e mi hanno portato ad un voto forse eccessivo (ne riparlerò alla fine dell’ analisi Carpenteriana) quelle per Platoon erano decisamente alte.
Insomma si parla di un film additato come uno tra i migliori nel suo genere (primissimi posti) e tra i primi 100 posti in assoluto in un classificone fatto da chissà chi.
Come potevo avere basse aspettative?
Ve lo dico subito, tanto per scongiurare spiacevoli equivoci a chi magari leggerà solo le prime righe di questo post: il film mi è piaciuto. E parecchio.
Eppure oso non indicarlo come perfetto.
Come tutti voi saprete “Platoon” è un film sulla guerra in Vietnam (domanda d’ obbligo: ma quanti ne han fatti?), girato per la prima volta da un reduce della guerra stessa: un certo Oliver Stone.
Non starò qui a spiegarvi per filo e per segno la trama della pellicola perché qui oltre a wikipedia ci saranno milioni di fonti che possono fare al caso vostro (escludendo i libri perché altrimenti non tengo più il conto!) ma cercherò semplicemente di occuparmi dei motivi per cui, secondo me, il film ha avuto questo enorme successo.
Meritato.
Innanzitutto, tanto per iniziare con una banalità, “Platoon” non è un film sulla guerra.
È LA guerra.
Gli intricati e sporchi paesaggi, i rumori di una foresta mai immobile, i vestiti strappati, la fatica sul volto degli attori provati, oltre che dal regime di quasi terrore di Oliver Stone, da un campo militare durato quindici giorni in preparazione del vero e proprio girato.
Perché Oliver Stone, come mi piace sempre dire, è il Troppo fatto persona.
Se pensate poi che aveva in mente di girare questo film dal 1976 e ha dovuto attendere 10 anni perché il suo sogno si realizzasse, capirete anche voi che il troppo diventa davvero qualcosa di indefinibile.
La tensione che aleggia sul set durante le riprese a causa dei metodi brutali (voluti) di Stone e il fatto che buona parte degli attori si presentano sul set sempre un po’ fumati o fatti non contribuisce a rendere Luzon (l’ isola delle Filippine scelta come luogo per le riprese) un luogo tranquillo.
Sembra davvero tutto esagerato ma Oliver Stone riesce là dove tantissimi registi di film di guerra falliscono: lui ci da realmente l’ idea di che cosa può essere una guerra.
Non è il classico amico americano che ti aiuta sotto il fuoco nemico e neppure il solito salvataggio in extremis del buono di turno.
La guerra è sangue, pallottole, insulti, urla e follia.
Follia.
Follia in ogni angolo.
Nella testa dei soldati, nella popolazione locale, nei comportamenti dei comandanti, nell’ idea stessa di guerra c’ è follia.
In “Platoon” non esistono buoni o cattivi perché in guerra sono tutti folli.
E se non lo sono, come Chris, sono destinati a diventarlo.
Implacabilmente.
Perché senza una sana dose di pazzia in guerra non si sopravvive e lo sa bene il sergente immortale Barnes che non si ferma davanti a niente e nessuno.
Vecchi, bambini, donne e soldati con cui ha parlato la notte precedente.
Per lui sono tutti nemici.
Perché la guerra è follia e in questo caso (come in molti altri) questa follia non basta sfogarla sul nemico dichiarato.
Nemici, amici, compagni, superiori.
Non esiste nulla di tutto ciò nella guerra di Stone.
Chris Taylor interpretato da Charlie Sheen e alter ego del regista stesso, all’ arrivo in Vietnam crede ancora nei valori classici della società Americana, si lamenta della morte di Elias e dell’ ingiustizia di una guerra simile che pian piano lo accoglierà fra le sue braccia fino a farlo diventare come tutti gli altri folli.
“Che si fotta la giustizia americana!” urla Chris infuriato mentre nel finale uscirà allo scoperto nel pieno della battaglia sparando all’ impazzata e urlando “è bellissimooooo!”
Anche lui è diventato folle.
“Perché fumate quella roba? Per uscire dalla realtà? IO sono la realtà!”
Il sergente Barnes è la personificazione della guerra stessa, nella sua cicatrice, nei suoi occhi rossi mentre tenta di uccidere persino Chris, Stone ritrova la crudeltà e la pazzia di un Paese che combatte se stesso (Elias).
Ma allora se sono talmente esaltato da questa pellicola che non capisco nemmeno più io che cosa sto dicendo, perché mai 9 e non 10?
Per due semplici motivi: uno riguarda la prima parte del film che sembra non ingranare bene la marcia fino a 20-30 minuti dall’ inizio (ma vedo che la maggior parte delle critiche va verso la seconda parte… devo essere pazzo o non capirci davvero nulla!) e l’ altra riguarda la scelta di Charlie Sheen come protagonista.
Sarà che io l’ ho sempre visto come il protagonista di “Hot Shots”, sarà che con quella faccia da bonaccione io proprio non me lo vedo a lottare per la vita (anche se l’ intento di Stone era forse proprio quello di mettere una persona che non centrasse nulla con tutti gli altri) ma a me è davvero parso come l’ unica scelta non azzeccata di tutto il film.
E se considerate che si parla del protagonista e non dell’ ultima comparsa in ordine alfabetico capirete che non sto blaterando per una sciocchezzuola.
Tolti questi due minuscoli particolari (perché anche la scelta del protagonista è minuscola se poi è la guerra ad avere la parte principale), “Platoon” è, per ora, il film meglio riuscito che io abbia visto di Oliver Stone.
Il regista fa un gran lavoro con la camera e riesce a trasportare lo spettatore anche nel più stretto dei cunicoli sotterranei mentre all’ aperto da il meglio di se tra inquadrature che roteano nel vero senso della parola attorno ai protagonisti e scene epocali quali l’ espressione di Elias che muta attraverso un solo sguardo o quella dello scoppio della bomba vicino a Chris che rende il mondo tutto in bianco e nero fino al momento in cui il soldato riprende conoscenza (a tal proposito la scena mi ha un po’ ricordato quella rossa di “Alexander” quando il re macedone viene ferito).
E poi c’ è la scena della caduta di Elias riportata poi in uno scatto sulla copertina del dvd.
Non sto neanche a commentarla perché una scena del genere va vista con i propri occhi, va vissuta.
La caduta in ginocchio con le mani in cielo di Elias come caduta di un Paese che chiede perdono.
MEMORABILE.
Per il resto Stone per una volta non abusa della pazienza dello spettatore medio con una durata eccessiva (siamo sulle2 ore scarse) e non si perde in sproloqui e lunaggini inutili e lentizzanti portando sul vassoio un buonissimo arrosto senza fumo.
Decisamente meritati oscar al film, regia, montaggio e suono.
Curiosità: Cameo di Oliver Stone nella battaglia finale. Viene fatto saltare per aria!
Per filippo: non è Oliver Stone il regista di cui mi occuperò perchè più di un film al mese di questo regista non riesco a mandarlo giu. In un certo senso ho bisogno di tempo per digerire un suo film(one).
REGIA: Oliver Stone
ANNO: 1986
GENERE: Guerra
VOTO: 9
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere uno dei migliori film sulla guerra del Vietnam con una bellissima colonna sonora (tra le altre cose il tema principale “Adagio For Strings” di Samuel Barber è davvero molto bello)
QUANTO FA RIDERE JOHN MC GINLEY (IL DR PERRY COX DI SCRUBS) NEI PANNI DEL SERGENTE O’NEIL: 10

WILLEM DAFOE NEI PANNI DI ELIAS AL CENTRO DELLA FOTO IN UN INTERPRETAZIONE STRAORDINARIA INSIEME A TOM BERENGER IN QUELLI DI BARNES.

giovedì 6 dicembre 2007

DARK STAR

Ci siamo finalmente.
Con questo e uno dei prossimi post (credo) inizierò l’analisi di due nuovi registi dopo quella di Jack Arnold, Ernest B. Schoedsack e Guy Ritchie.
John Carpenter.
Signori e signore siete i benvenuti.



Nel 1953 in un teatro di Rochester, New York, mia madre mi portò a vedere "Destinazione Terra" in 3D. La prima inquadratura del film che io ricordo è un campo lungo di un panorama desertico. La macchina da presa sta panoramicando orizzontalmente su una meteora che dal cielo precipita verso la Terra. La seconda inquadratura è della meteora che sta venendo dritta contro la camera ed esplode. Nel 1953 quella meteora uscì fuori dallo schermo ed esplose sulla mia faccia. Abbandonai mia madre e schizzai fuori nel corridoio per la paura. Ma quella volta… Io mi innamorai del cinema

John Carpenter

Nel 1974 fece il suo esordio nelle sale cinematografiche “Dark Star”, primo lungometraggio (in realtà rigonfiamento durato tre tribolatissimi anni di un cortometraggio presentato come saggio di fine corso all’ University of South California) di un ragazzo di nome John Carpenter.
Non mi soffermerò sui precedenti di Carpenter: sul padre musicista, sui suoi primi cortometraggi, sulla sua vita fino a questo “Dark Star” del 1974.
Se emergerà qualcosa, in questa o altre recensioni, sarà semplicemente per spiegare meglio qualche scelta del regista o qualche richiamo ad alcune sue passioni, ma non vi assicuro nulla anche perché come dico sempre “esiste wikipedia” e vi assicuro che per un regista come Carpenter anche la versione italiana è abbastanza informata.
“Dark Star” quindi.
Ve lo confesso subito: non mi aspettavo granchè.
Avendo visto alcune di quelle che vengono generalmente considerate le migliori pellicole del regista non speravo molto in “Dark Star”, piccola pellicola prodotta con un budget risicatissimo (60000 dollari) e con enormi problemi di produzione.
Se ci aggiungiamo che il film è senza ombra di dubbio tra i meno conosciuti di questo artigiano del cinema… beh ammetterete che qualche dubbio doveva venirmi per forza!
E invece eccomi qui, con gli occhi spalancati a mezzanotte e mezza per parlarvi di quella che è stata una grandissima sorpresa.
Si tratta di fantascienza.
B-movie qualcuno direbbe.
“Quelli che un tempo erano considerati B-movie oggi sarebbero considerati A-movie” risponderebbe Carpenter stesso.
E già.
Perché con 60000 dollari John tira fuori una pellicola che m’ arrischio a definire epocale.
In qualsiasi senso possibile e immaginabile.
“Dark Star” è fantascienza e oltre come tutti (ora non esageriamo, diciamo quasi tutti) i film di Carpenter.
La storia molto semplice vede un’ astronave in giro per l’ universo (la Dark Star appunto) da più di 20 anni con a bordo 4 uomini (più un comandante criogenato) dediti alla distruzione dei pianeti instabili.
Capirete anche voi che a dire così sembra di sentir parlare di un vecchio film degli anni ’50.
E in effetti è un po’ anche così.
Ma Carpenter è un genio.
Da quello che potrebbe essere un vecchio sci-fi fuori tempo massimo tira fuori qualcosa di indefinibile: un miscelone di tutta la fantascienza cinematografica che si sia mai vista.
Partendo dai mostri della sci-fi anni ’50 (un alieno a forma di palla gonfiabile è ospite di una stanza), passando per una fantascienza molto più attenta socialmente e politicamente (e qui il primo nome che viene in mente è ovviamente quello di “2001 odissea nello spazio”) fino ad arrivare ad una sorta di parodia del tutto che avrà poi in “Balle Spaziali” il suo dichiarato capostipite (o almeno quello più famoso).
Fin dalle primissime immagini Carpenter mette in chiaro tutti i suoi intenti: una musica country che potrebbe benissimo essere suonata da un Johnny Cash qualsiasi (ma che in realtà, come il resto delle musiche, è prodotta e diretta dal regista stesso) ci introduce ai nostri protagonisti astronauti.
Tute bianche, aria professionale, capelli corti e seriosità massima penserete voi.
Macchè!
Carpenter ci mostra dei fricchettoni dalle tute marroncine con baffi, barba e capelli lunghi intenti essenzialmente a far nulla con uno scazzo tale che sembra quasi impossibile crederli ancora vivi dopo più di 10 anni nello spazio (questo ci viene detto da un “simpatico” messaggio di un terrestre proiettato all’ inizio su uno degli schermi dell’ astronave).
Se fin dalla presentazione dei personaggi John sembra fare di tutto per distruggere un immaginario classico che si è creato nel corso dei decenni c’ è da spaventarsi a vedere quello che accade dopo.
Innanzitutto c’ è un astronave parlante che comunica con i Nostri quasi come se fosse una compagna.
Già compagna, perché ovviamente è una voce femminile.
Ci sono poi delle bombe che vengono usate per distruggere i pianeti: certo è normale, peccato che le bombe parlino, facciano i capricci e si impuntino su ragionamenti filosofici ineccepibili (“Io penso quindi sono!”
Se non basta Carpenter si diverte a inserire una sottotrama con protagonista un alieno- palla (si tratta proprio di una palla gonfiabile con dei piedi!) che minaccia improbabilmente il sergente Pinback (Dan O’ Bannon, vi parlerò anche di lui) e astronauti che, oltre ad avere la barba e i baffi, si comportano in maniera totalmente assurda: c’ è chi vive perennemente nella cabina superiore a guardar le stelle (perché vuole vedere gli asteroidi della fenice!), chi pensa che sian tutti deficienti (ancora Pinback) e chi per risolvere i problemi pensa bene di rivolgersi al comandante Powell criogenato (che ovviamente parla!).
Lo so, se non avete visto la pellicola starete pensando all’ idiozia di una pellicola del genere e invece io insisto: è geniale.
Il film è pieno zeppo di citazioni che io a volte non riesco nemmeno a cogliere (si vede che sono citazioni ma devo vedere almeno un altro centinaio di film di fantascienza per prenderle in pieno!): si passa da quelle più esplicite a “2001 Odissea nello spazio” (la voce dell’ astronave e i ragionamenti filosofici delle bombe), “Il dottor Stranamore (ancora le bombe atomiche e il loro rifiuto ad obbedire per scongiurare una crisi) e “Il mostro dell’ astronave” (l’ idea dell’ alieno) a quelle più sottili e nascoste come i piedi dell’ alieno che sono in tutto e per tutto uguali a quelli del “mostro della laguna nera”.
Insomma per gli appassionati di sci-fi c’ è di che sbizzarrirsi ma Carpenter non cade nella trappola della parodia pura e semplice (“Balle Spaziali”) e fa del film qualcosa di più di un semplice omaggio alla sci-fi.
Gli astronauti sono essenzialmente dei folli (e si vede anche solo dalle facce), ritratto al rovescio di tutti quegli astronauti perfetti che gli USA volevano come simbolo di una nazione perfetta in grado addirittura di conquistare nuovi mondi.
La squadra della Dark Star non conquista nuovi pianeti (e quando lo fa tira su esseri stupidotti e inutili come l’ alieno palla) ma distrugge quelli che vengono dichiarati come instabili (neanche troppo velato paragone con il comportamento internazionale degli USA).
Se poi non vi bastano le citazioni e le metafore c’ è la regia di Carpenter.
È qualcosa di straordinario come il regista riesca a rendere allo stesso tempo angosciante e ilare un momento come quello che vede Pinback incastrato nel pavimento dell’ ascensore con mezzo corpo di fuori (non sto a dirvi come è finito li!) con pochissimi mezzi: si tratta infatti non di un ascensore ma di un cubo con rotelle che viaggia su un pavimento e che, grazie ad un lavoro tecnico straordinario, Carpenter riesce a trasformare in un ascensore in movimento.
Se a questo si aggiungono gli effetti in stop-motion molto buoni (so che oggi fanno sorridere ma allora con quel budget erano ottimi) di Jim Danforth (allievo nientemeno che di Ray Harryhausen) e l’apporto in fase d sceneggiatura e forse di storia (questa parte non è ancora molto chiara a dir la verità) di Dan O’ Bannon (che romperà i rapporti col nostro in seguito ai problemi di produzione) capirete come io non esiti a definire “Dark Star” un capolavoro.
E siccome non sono io il primo ne l’ ultimo ad accorgermi di questo vi basti sapere che un certo George Lucas (è presente un omaggio al suo primo film “Thx 1138” in una delle scene finali del film sotto forma di una scritta su un pezzo dell’ astronave) apprezzò molto i modellini dell’ astronave (e gli balenò anche qualche idea per la testa dato che solo 3 anni più tardi creò un certo “Star Wars”) e qualche anno più tardi anche O’ Bannon decise di riprendere l’ idea dell’ alieno inseguitore per i corridoi di un’ astronave per un film leggermente più inquietante di “Dark Star” , un certo “Alien”.
Se poi siete in cerca di frasi o scene memorabili vi basti sentire questa “L’ area di deposito è stata autodistrutta così non abbiamo più scorte di carta igienica” o vedere il fantasmagorico (che non so neanche io che vuol dire!) finale cartoonesco con il tenente Doolittle intento a surfare nello spazio e Talby finalmente insieme ai suoi tanto amati asteroidi della fenice.
Insomma che vi devo dire ancora per convincervi?
Se vi piace Carpenter correte a procurarvelo.
Se Carpenter non vi aggrada poi molto (pazziiiiii!) lasciate pure perdere, tanto siete voi che vi perdete un pezzo di storia del cinema!
Infine se non ne sapete nulla di Carpenter o se siete appassionati di fantascienza direi che questo può essere un buon inizio anche se vi avverto: il seguito sarà quasi sempre su tutt’ altra linea
REGIA: John Carpenter
ANNO: 1974
GENERE: Fantascienza, commedia
VOTO: 10
CONSIGLIATO A CHI: vuole vedere un Carpenter un po’ diverso: meno horrorifico e più divertente (anche se nella produzione successiva ci sarà ancora modo di mostrare questa vena umoristica)
QUANTO FA RIDERE L’ ALIENO PALLA: 10

TRAILER DA VEDERE ASSOLUTAMENTE!QUI SOTTO L'ALIENO PALLA IN UNA DELLE SUE POSE MIGLIORI!


mercoledì 5 dicembre 2007

martedì 4 dicembre 2007

THE HIRE SERIES- STAR

PREMESSINA: quella che state per leggere è la prima recensione di una serie di spot della Bmw datati 2001 che sono veri e propri microfilm (vedere recensione per dettagli) con registi e attori di un certo calibro. In questo caso la recensione è abbastanza lunga perchè si tratta dello "spot" di Guy Ritchie di cui sto analizzando interamente la filmografia (a brevissimo la recensione di Revolver che attende solo di essere pubblicata e che avevo promesso tempo fa a Weltall).
Cosa dire ancora? Se avete 8 minuti date un occhio allo spot che vi posto subito dopo almeno saprete di che si parla!



Sapete cosa mi ha fatto più rabbia quando ho tentato di recensire l’ intera opera di Jack Arnold? Il non essere riuscito a trovare in nessun modo (ad eccezione di due pellicole che dovrò comprarmi in dvd in lingua originale) molte (diciamo praticamente tutte!) le sue produzioni successive agli anni ’50.
Ora, capisco anche io senza bisogno che me lo urliate in faccia che, evidentemente, quelle pellicole sconosciute al mondo di un regista che molto probabilmente non avrà mai la fama che si merita (se non in una ristretta cerchia di matti come me appassionati di sci-fi anni ’50) non sono il massimo della vita cinematograficamente parlando.
Il problema è che mi vengono in mente tanti di quei film spazzatura (e non sto parlando del trash volontario, che pure apprezzo!) disponibili in dvd con inclusi i più svariati contenuti speciali che dubito si tratti di qualità a volte.
Anzi, lo dubito sempre.
Come non biasimare quei benedetti produttori cinematografici che preferiscono pubblicare l’ ennesimo horror di serie z con attori fantoccio e trame risibili (ma con una bella copertina con un mostrone pauroso per i quindicenni mi raccomando!) al film western di Jack Arnold (si legga il nome di centinaia di registi dimenticati) “Tramonto di fuoco”?
No, è impossibile non capirli.
Loro sono attenti ai possibili incassi, al possibile spettatore che “sarà più o meno invogliato a vedere il film di Stiller se nel poster ci metto un culo nudo?” E a quale target puntiamo? E come la facciamo la pubblicità? Diffondiamo indizi sparsi su internet mantenendo il mistero? Facciamo un normalissimo trailer? Proviamo a creare scandali e storie d’ amore fasulle sul set?
Insomma cosa centra tutto ciò con “The Hire”?
Quasi nulla, se non fosse per il fatto che il breve cortometraggio in questione prodotto dalla Bmw per pubblicizzare i suoi prodotti è diretto da Guy Ritchie, lo stesso regista del primo film che recensii su questo blog (il fantastico “Lock & Stock”) e di cui sto per completare l’ “analisi filmografica” (eccolo qui il nesso con Jack Arnold) con questo e, infine, il suo ultimo lungometraggio “Revolver”.
E non è forse di Guy Ritchie quella schifezza di “Travolti dal destino” con sua moglie Madonna protagonista che recensii tempo fa e che meriterebbe di NON avere una versione in dvd per far spazio a film magari meno conosciuti ma molto più interessanti?
E per ricollegarmi infine alle prime parole di questo post, non è forse vero che di un regista contemporaneo è molto più semplice reperire l’ intera opera comprese le parti più piccole e insignificanti (sul fatto che sia più facile analizzarla non sarei così sicuro dato che l’ artista potrebbe essere ancora in evoluzione)?
Non avete seguito il mio ragionamento contortissimo che mi ha portato a Guy Ritchie? Non importa, non è utile ai fini della comprensione di questa recensione e poi io mi sono capito!
“The Hire” nasce nel 2001 ed è prodotto dalla Bmw la quale nell’ anno dell’ attentato alle Torri Gemelle (che ci volete fare? Credo che lo ricorderò sempre così!) pensò bene di trovare un nuovo modo di farsi pubblicità: produrre una serie di cortometraggi (8 per la precisione se si esclude la seconda serie che sarà prodotta nell’ anno seguente) al cui interno spicca un modello da reclamizzare (in questo caso la Bmw M5).
Si tratta di veri e propri film a differenza di quello che si potrebbe pensare in un primo momento dove senza dubbio la componente pubblicitaria assume un aspetto importante (almeno qui è dichiarata, non come nei film dei Vanzina!) ma in cui sono presenti veri attori (il più delle volte grandi star) e veri registi (tanto per farvi due nomi impressionanti: Wong Kar Wai e Alejandro Gonzalez Inarritu oltre a John Frankenheimer )
In questo caso ci troviamo di fronte alla regia di Guy Ritchie precedente il tremendo flop di “Travolti dal destino” e a Clive Owen e Madonna come protagonisti.
La storia è presto detta: una star irascibile e viziata (Madonna interpreta se stessa) sale sulla macchina del tassista bellone di turno (Clive Owen) e vuole essere assolutamente portata all’ hotel dove i suoi fan la attendono. Dopo pochi metri percorsi ad un andatura molto pacata Madonna si lamenta con voce isterica e Clive Owen da il meglio di se con una sola frase: “Let me see what I can do!”
Parte “Song 2” dei Blur ad un volume assordante e con lei la Bmw di Clive che si diverte tra sgommate cinematografiche in mezzo al traffico e salti che nemmeno “Bo e Luke” all’ imbocco del cavalcavia.
Dopo un tragitto in cui Madonna viene letteralmente sballottata all’ interno della vettura ( e tu intanto godi perché pensi che si meriti molto di più dopo quel che ti ha fatto passare con “Travolti dal destino”!), l’ autista arriva a destinazione e la star è catapultata fuori dove tutti i giornalisti armati di macchina fotografica dopo uno sguardo allibito collettivo si vendicano sulla smorfiosetta fotografandola dalla vita in giù, dove un evidente macchia di bagnato si allarga sul vestito segnandola a vita.
Insomma come potete ben capire non c’ è molto da dire sulla pellicola, se non il fatto che Guy Ritchie sfrutta il suo stile tutto primi piani velocissimi, stop e ralenty e la sua consueta ironia con una colonna sonora d’ eccezione (ad aprire sono i Primal Scream) e due attori a loro agio nei loro ruoli-macchietta.
Insomma se proprio non avete nulla da fare provate a perdere 10 minuti davanti a questa sciocchezzuola, sarà sempre meglio che perdere un’ ora e mezza davanti a quel pattume di “Travolti dal destino”!
REGIA: Guy Ritchie
ANNO: 2001
GENERE: Spot, azione
VOTO: 7 (considerate che è uno spot in teoria!)
CONSIGLIATO A CHI: Vuole comprare una Bmw
QUANTO MI ASPETTO DA REVOLVER: Sinceramente non ne ho idea ma giuro che se è peggio di “Travolti dal destino” vado a prenderlo a schiaffi Guy Ritchie!

domenica 2 dicembre 2007

IN THE VALLEY OF ELAH- NELLA VALLE DI ELAH

Deve essere una regola: il giorno dopo aver recensito un film d' animazione in 3d vado sempre incontro ad una pellicola con una locandina che già dice tutto e che si dimostra invariabilmente brutta (il caso precedente è rappresentato da "I Robinson" - "Lo Spaccacuori".

Quando ho visto quella bandiera americana rovesciata dopo pochi minuti dall’ inizio mi sono subito venuti dei dubbi.
Ho pensato: eccolo qui.
Me lo sono beccato il filmone americano pieno di retorica e patriottismo e di “guarda la guerra come distrugge i buoni” e “guarda i cattivi come sono cattivi”.
Ho pensato alla scarsa scelta che ho avuto (ancora Boldi dopo tre settimane oltre a “Winx”, “Diario di una tata” più un paio di film di cui non ricordo nemmeno il titolo) e mi sono convinto che poi tanto male non poteva essere.
Ho osservato con attenzione la faccia rugosa di Tommy Lee Jones nei primi piani estenuanti di Paul Haggis e ho provato a convincermi di aver fatto la scelta giusta.
Sono rimasto in sala, un po’ scocciato dalla lentezza imperante che si fa strada fin dalla prima immagine, ma sono rimasto in sala.
Ho assistito all’ ennesima storia di un ex militare che ha convinto i due figli ad entrare nell’ esercito (“perché se non fossero entrati non si sarebbero mai sentiti degni di questa famiglia!” quante volte avete sentito questa frase?) e li ha visti morire entrambi ma sono rimasto in sala.
Ho visto l’ orologio che il padre ha donato al figlio minore prima che questi partisse per la guerra (e mi sono immaginato Pulp Fiction con tutte le conseguenza del caso) ma sono rimasto in sala.
Ho sopportato la solita scenetta dell’ americano che pesta il messicano dopo uno degli inseguimenti più lenti della storia del cinema e alla fine della pellicola si scusa per il suo errore, ma sono rimasto in sala.
Ho guardato per due ore circa un thriller-drammatico (esiste?) lento in maniera quasi imbarazzante e sono rimasto in sala.
E mentre osservavo le due espressioni di Tommy Lee Jones, la Theron che cercava di dare un senso al suo personaggio con un interpretazione discreta e la Sarandon piangere per i ¾ del film mi chiedevo se ne valeva davvero la pena.
Se davvero Paul Haggis con una storia del genere (quest’ uomo ha scritto “Million Dollar Baby”! Da dove gli è uscita questa cosa?) e una regia così scarna pretende qualcosa (Oscar alla tristezza?) o lo ha fatto solo per sfizio personale.
Ho letto da qualche parte che Tommy Lee Jones in questa pellicola recita per sottrazione.
Fosse solo lui! È il film ad andare avanti per sottrazione.
Sottrazione di una colonna sonora (no musica = più realismo toccante avranno pensato).
Sottrazione di ambientazioni: si gira praticamente tra quattro mura adattate a seconda della scena a caserma, motel, ufficio di polizia e due esterni.
Sottrazione di regia (si può dire?) che diventa un semplice susseguirsi di scene immobili alternate a primi piani glaciali, come se questo potesse in qualche modo convincere lo spettatore della veridicità della vicenda.
Insomma a forza di sottrazioni al film non rimane davvero nulla se non un rigurgito di nazionalismo e di antimilitarismo (come potrebbe sostenerlo un bambino) talmente inverosimile e ridondante che potrebbe darvi alla testa.
Certo, non dubito che a qualche americano convinto questo “In The Valley Of Elah” potrebbe anche piacere ma io mentre Tommy Lee Jones si impegna a fine pellicola ad issare nuovamente la bandiera degli Usa rovesciata mi stavo già alzando e al primo titolo di cosa sono scappato dalla sala.
E ho pensato che forse le Winx non erano poi una brutta idea.
Ma anche no.
REGIA: Paul Haggis
ANNO: 2007
GENERE: Thriller-drammatico
VOTO: 5 (se proprio dovete scegliere tra questo e World Trade Center guardate questo.. ma se potete evitate entrambi!)
QUANTO è INVECCHIATO MALE TOMMY LEE JONES: 10 (ha 61 anni e ne dimostra 80!)
CONSIGLIATO A CHI: Vuole riflettere sulla situazione americana oggi come farebbe un mulo.