mercoledì 31 ottobre 2007

QUESTO BLOG SI APRE (ULTERIORMENTE!)

SOTTO QUESTO POST LA PRIMA RECENSIONE DI LEO




È con mia immensa felicità che annuncio a tutti l’ arrivo di un nuovo membro in questo blog!
Leo mi accompagnerà in quest’ avventura blogofila (esiste?) postando recensioni insieme a me!
Potranno essere di film che io ho già recensito, di qualcosa di nuovo, di musica, libri o chissà che altro.. insomma “Recensioni libere” prosegue con il suo spirito libertario (si recensisce di tutto e di più!) ma con un nuovo membro che mi darà una mano nell’ esplorazione di questo gigantesco mondo che è il cinema e non solo!
Chi è Leo? Qualcuno di voi lo avrà già incrociato in qualche commento su “Il laureato” (vi consiglio di ripescarlo perché li ci sta la sua prima vera recensione!) e su molti commenti dei film da me recensiti!
Ma chi è Leo? Beh un mio amico ovvio (non è che il primo che passa di qua gli dico di venir a scrivere!), una di quelle persone con cui puoi stare alzato fino alle 5 di mattina a delirare su tutto e niente su un divano accorgendoti poi che alle 6 ti dovrai alzare! Una di quelle persone con cui puoi vedere i film più ignobili (“Brivido” su tutti ma anche il pessimo “Il quinto elemento”) e i capolavori più blasonati. Una di quelle persone che si incontrano per caso in vacanza e che diventano ben presto uno dei punti fermi della tua vita. Una di quelle persone che magari vedi poco ma quando la vedi pensi: “Cazzo è sempre lui!”. Una di quelle persone a cui puoi tranquillamente affidarti con tutto te stesso sicuro che, a differenza di tanti, troppi, lui non ti volterà mai le spalle e non ti farà mai lo sgambetto mentre sei girato.
Chi è Leo? Leo è uno che ne sa. Di storia, di religione, di psicologia.. Leo ne sa.
Le sue saranno recensioni molto più profonde delle mie, di questo ne sono convinto, capaci di analizzare una pellicola molto più profondamente di quanto io mi sforzi di fare in certi casi e che quindi necessiteranno di una lettura forse più attenta (ovviamente se gli andrà di sparare due vaccate su un filmaccio sarà libero di farlo!). Si può dire che sia il mio complementare, capace di dare a questo blog la profondità e la conoscenza che a volte mi manca per inesperienza.
Chi è Leo? Un grande.
SeguiteCI.
Lasciatemi poi segnalare il mio gemellaggio con il blog di Filippo che potete raggiunegere attraverso l' immagine di Frankenstein in alto a sinistra, un gemellaggio che non si limita a un semplice link ma ad una somiglianzanza nei gusti cinematografici che a volte mi fa quasi paura (magari ho un doppio e non lo so!)

YOUTH WITHOUT YOUTH- UN' ALTRA GIOVINEZZA

BY LEO




Nel silenzio della sala, sulle poltrone rosso velluto di un cinema del centro di Torino, ho notato come il tempo passa, per noi spettatori come per i registi. Francis Ford Coppola non ha perso la mano d’un tempo, ma in sostanza un poco di dimestichezza con la macchina da presa l’ha scordata. Quello che sarebbe potuto uscire dal suo talento poteva essere un capolavoro – ma l’ha sfiorato. E avvicinandosi, la pellicola s’è arrugginita. Se avesse girato questo film dopo la bulimia visionaria della sua enorme trasposizione del “Bram Stoker’s Dracula” (1992), ciò a cui avremmo assistito sarebbe stato probabilmente il capodopera della sua ricerca stilistica.
PREMESSA DOVEROSA 1: il film, comunque è stilisticamente ineccepibile,e ovviamente, mi è piaciuto molto. Questa recensione è un atto d’amore nei confronti del cinema e della letteratura fantastica old style, e di chi, nonostante tutti gli errori e le leggerezze, è senza dubbio tra i migliori maestri odierni del genere, in entrambi i campi: amo il cinema di Coppola e amo il lavoro di Eliade da cui è stato tratto il film.
PREMESSA DOVEROSA 2: questo film non è destinato agli estimatori di pellicole hollywoodiane con stra-mega effetti speciali genere “Matrix”, melensaggini tipo l’incursione di Muccino a Hollywood (con Will Smith), o trasposizioni strampalate da P. K. Dick (sempre Smith in “Io Robot”...comincio a nutrire seri dubbi su Will Smith...sarà all’altezza in “I am legend”...!?!?). Se volete qualcosa di semplice, ci sono i Vanzina con i loro film, e beh, ne è appena uscito uno (hip-hip urrà per la spazzatura! Mi rifiuto anche di citare il titolo...).
Per comprendere al meglio il film ed essere il più chiaro possibile a riguardo, occorre dividere in due parti coerenti la recensione: la prima sul film di Coppola, la seconda sul romanzo dal quale è tratto. Mi scuso in anticipo per l’eccessiva lunghezza, ma vi assicuro che sono indipendenti e potete leggerne o l’una o l’altra, senza tediarvi troppo!
Nel film assistiamo al ringiovanimento inaspettato del settantenne Dominic Matei, studioso romeno di orientalistica e appassionato di filosofia della religione, colpito da un fulmine durante il tragitto che l’avrebbe portato alla sua casa e al veleno contenuto in una busta blu che conservava da tempo. Constatato il fallimento di tutto ciò in cui aveva creduto nei campi del lavoro e dell’amore, il protagonista decide di togliersi la vita. Nel lavoro, il suo titanico sforzo di scrivere l’opera prima e il coronamento di tutti i suoi studi - nel campo dello studio delle origini del linguaggio umano, attraverso l’evoluzione storica degli idiomi nelle culture umane a partire dalla preistoria - e nella vita privata il fallimento del suo amore giovanile, l’unico grande amore della sua vita, con la bella Laura – che lo lasciò a causa della preminenza da lui accordata al suo lavoro. Sentendosi trascurata, decise di separarsi da lui. Ma l’opera alla quale si accingeva a dedicare con pazienza e determinazione la vita, non avrebbe mai visto compimento, essendo in realtà insostenibile per un unico uomo, a causa dell’enormità della mole di lavoro e di conoscenze scientifiche richieste.
Invece – e un invece è d’obbligo quando si entra nel regno del fantastico e le regole della realtà vengono sovvertite a favore di un’altra spiegazione delle leggi del reale – un fulmine lo colpisce e gli dà una seconda possibilità. Di nuovo giovane, può terminare il lavoro che si era proposto di finire. E come sempre quando si è già deciso tutto, capita una donna a sovvertire i piani, una ragazza che assomiglia incredibilmente a colei che amò in gioventù, e questa volta cede definitivamente prima all’amore, poi accondiscendendo alla vita, (ri)tornando alla normalità/vecchiaia e al fallimento totale. Accettando il suo destino, rinunciando all’alterità anomala della sua condizione, si compie il suo fato.
Aggiungiamo al film l’acquisizioni di poteri sciamanici, riferimenti mai fuori luogo all’androginia, all’occultismo, alla stregoneria, al tema del doppio (perché il buon Matei colpito dal fulmine sviluppa un doppio inquietante che dialoga con lui – e qui Tim Roth che lo interpreta è sensazionale nel secondo monologo, giocato sull’ambiguità dell’Altro e dell’Io, con i due Matei sull’orlo della follia e fradici di sudore che dialogano riflessi in uno specchio), della metafisica, del nazismo (siamo negli anni ‘30-’40) e della Romania prima nazifascita poi, dopo la II Guerra Mondiale, comunista.
Non voglio rivelare oltremodo la trama intricata di questo racconto, giacché anche se può sembrare un polpettone raffazzonato, patchwork di qualunque genere, ogni tassello aggiunto al mosaico collima perfettamente con quello adiacente, e ogni tessera rivelata si aggancia all’azione successiva trattata da Coppola, rivelando tutto in corsa verso l’explicit finale. Vorrei solo soffermarmi su un paio di spunti molto interessanti. Perché sì, questo film m’è piaciuto molto e sì, è di gran lunga superiore alle uscite dei film americani degli ultimi cinque anni – almeno. Ma Coppola ha peccato di hybris, e come Icaro un poco s’è bruciato le penne delle ali avvicinandosi troppo al Sole.
I temi religiosi e filosofici non si contano, e le interpretazioni al riguardo si sprecano – Matei novello sciamano colpito dal dio dei cieli da un fulmine, il tema del doppio trattato con singolare efficacia nelle diatribe metafisiche tra Matei e il suo specchio/alter-ego, il sogno come realtà a se stante, il puer-aeternus della tradizione alchemica e chi più ne ha più ne metta! Purtroppo, e lo sottolineo, solo Coppola – da sempre interessato a tematiche religiose, sempre ignorate da TUTTI i suoi commentatori più blasonati – avrebbe potuto fare un film migliore di quello che ho visto: il suo Dracula è tratto fedelmente dal libro di Stoker, massone “occultista” dell’800, e nell’adattamento del romanzo di Conrad “Cuore di tenebra”, cioè il celeberrimo “Apocalypse Now” (1979), vediamo Marlon Brando-Kurtz custodire una copia dell’edizione ridotta de “Il Ramo d’Oro”, capolavoro sulla storia delle religioni di Sir Frazer. Sia in quest’ultima pellicola, sia ne “Il Padrino” (pt I, 1972; pt. II, 1974) assistiamo al succedersi della dinastia padre-figlio, re-principe, analizzata da Frazer per l’appunto in quel libro, e così accade anche in “Rusty il Selvaggio” (1983), splendido nell’eleganza del suo bianco e nero, ma spesso oscurato e caduto nel dimenticatoio.
Solo in un caso, il risultato così gradevole nella resa grafica, nelle ambientazioni curate e nella musica, nei particolari volutamente “finto low-budget”, senza effetti speciali “moderni”, risente di alcune connessioni logiche non spiegate nel film: il legame tra origini del linguaggio e religione, particolare di non poco conto nell’economia del film ma che non risulta mai delineato e spiegato con efficacia. Non dico che avrebbe dovuto farne un documentario storico o filosofico, ma un semplice dialogo rivelatore avrebbe chiarito di più. Questo però è veramente un cercare un difetto ad ogni costo inutile: il film è poesia, e poetica la frase finale (capirete il senso fantastico solo guardandolo, io non ve lo dico!) “e la terza rosa, dove vuoi che la metta?”. Ecco, quella rosa rossa sulla neve bianca – come uno stendardo regale – ci dice che il Re è tornato: bentornato Coppola.
PARTE SECONDA. Il film è tratto da un romanzo [edito ora in Italia da Rizzoli] dello storico delle religioni d’origine romena Mircea Eliade (Bucarest 1907 - Chicago 1986), del quale quest’anno incorre il centesimo anniversario della nascita. Per dire giusto due parole su di lui, sappiate che si tratta del più importante storico delle religioni d’indirizzo fenomenologico del secolo appena passato. Non ci dilunghiamo inutilmente sulle parti del romanzo non affrontate da Coppola (che danno un taglio molto più “misteriosofico” alla trama,e avrebbero certo complicato l’andamento del film). Vale solo riportare l’attenzione sui fatti seguenti. Che Dominic Matei rappresenti le sconfitte avvertite dall’Eliade vecchio è lampante: in modo trasfigurato la morte della giovane moglie dello studioso è speculare all’abbandono della compagna del protagonista del film, e il fallimento dello sforzo di comunicare qualcosa di più ed essere compreso dagli uomini – dopo tutta una vita di studi – sta nella fine ingloriosa della prima vita di Matei, ormai settantenne e dimenticato. Ma più di tutto quello che mi pare utile segnalare è il dramma umano della vita dello studioso, costretto dai rivolgimenti politici della II Guerra Mondiale e dal successivo instaurarsi nella sua Romania del governo comunista a non potervi più tornare. Matei torna dopo aver tanto girovagato – ed essere stato tentato dal potere per un uso politico del suo sapere, ormai enorme – tornerà in Romania vecchio e destinato alla morte, solo, nel pomeriggio colmo di neve di Piatră Neamţ (nella traduzione italiana tutti i nomi romeni sono sbagliati e/o pronunciati male!!!). Così sarebbe potuto tornare Eliade in Romania, solo dopo la morte, dopo la caduta del muro.
La migliore conclusione su questo resoconto della vita umana, e sulla vana ricerca del senso e del significato ad esso da attribuire, la ritroviamo in queste splendide parole di Eliade, tratte dal suo diario privato: Ma si sarà capito che la “vera” religione inizia solo dopo che Dio si è ritirato dal mondo? Che la sua “trascendenza” si confonde e coincide col suo eclissarsi? Lo slancio dell’uomo dell’ uomo religioso verso il ”trascendente” mi fa pensare a volte al gesto disperato dell’orfano rimasto solo al mondo. Siamo tutti Dominic Matei, persi nella neve.
REGIA: Francis Ford Coppola
ANNO: 2007
GENERE: Dramma, religione, filosofia
VOTO: 8
CONSIGLIATO A CHI: vuole affrontare qualcosa in più come contenuti e molto di meno come effettoni speciali; a chi se la sente di dare tutto per capire un film e viverlo da dentro
QUANTO è GENIALE TIM ROTH CHE RINGIOVANITO CONTINUA A CAMMINARE E GESTICOLARE COME UN SETTANTENNE INEBETITO: 9,5

martedì 30 ottobre 2007

THE MOST DANGEROUS GAME- LA PERICOLOSA PARTITA


Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack.
Vi dicono niente questi nomi?
Pensateci bene.
Un certo “King Kong” nel 1933 non nasceva dalla penna di Edgar Wallace e dall’ intuizione geniale di questi due signori di portare sullo schermo l’ ottava meraviglia del mondo?
Ma la domanda che vi voglio porre è un’ altra: conoscete altre pellicole loro?
Non vi sembra strano che due uomini che sono riusciti a produrre uno dei film più amati e conosciuti nella storia del cinema siano stati praticamente legati ad un solo, unico grandioso titolo?
Non vi sembra così.. diminutivo? Così sbagliato?
Si?
Allora seguitemi.
“La pericolosa partita” nasce praticamente in contemporanea con il suo fratello più fortunato “King Kong” con cui condivide la scenografia (una foresta intricata per metà reale e per metà di ferro) e parte del cast.
Il film ha una trama tanto semplice quanto geniale e innovativa per l’ anno in cui viene prodotto: una nave affonda al largo di un’ isola sperduta nell’ oceano e l’ unico superstite Bob Rainsford, cacciatore famoso in tutto il mondo, cerca rifugio all’ interno di essa (il suo arrivo sulla spiaggia con la telecamera posta in alto, quasi a segnare l’ inesorabilità della vicenda che lo attende è da vedere e rivedere!) dove trova un oscuro castello ad attenderlo.
Qui dimora il conte Zaroff, anch’ egli cacciatore, che invita Bob ad accomodarsi in compagnia degli altri suoi due ospiti: la bella Eve e il fratello Martin Trowbridge.
Il nostro si accorge subito del timore provato dalla bella di turno ma non ne comprende il motivo dati i modi gentili del conte fino alla rivelazione scioccante del nobile che propone a Bob di fargli compagnia in quella che sarà una delle cacce più entusiasmanti della sua vita: quella all’ uomo.
Come prevedibile Rainsford rifiuta e si ritrova a dover fuggire (insieme a Eve naturalmente) a Zaroff e ai suoi servi in un gioco che ha delle precise regole: un vantaggio della preda di mezza giornata e la vittoria della stessa se riuscirà a sopravvivere per un certo numero di ore.
La sconfitta è la morte.
Ora immaginate voi cosa voleva dire una storia del genere nel 1932!
Non era innovativa.
Era di più!
Sulla nave Bob, appena prima del naufragio, ha una discussione con un uomo che sostiene quanto sia strano il mondo se un animale a caccia per la sua sopravvivenza è considerato selvaggio e un uomo a caccia per sport è considerato civile.
“Per fortuna io sono un cacciatore e niente cambierà questo!” è la risposta.
E invece tutto cambia.
La pellicola in un’ ora condensa tutto quello che un film horror doveva avere allora come oggi: un nemico sinistro (splendida la recitazione di Leslie Banks nella parte del conte), un atmosfera lugubre (il castello è splendido e la foresta non è da meno!), una regia vivace e suggestiva (fantastica la sequenza dell’ ultimo inseguimento con i primi piani dei protagonisti spaventati e del conte folle!) una bella donna da salvare, un eroe capace di sfuggire a tutto e una lunga fuga- scontro con il mostro avversario!
La bocca rimane asciutta di fronte a una pellicola che è stata letteralmente saccheggiata di ogni sua più piccola idea da tutti i film di genere che sono venuti dopo.
Sembra così strano vedere il conte entrare nella sua sala trofei dove sta appesa una testa di uomo alla parete che viene il dubbio che registi come Eli Roth oggi non facciano altro che giochicchiare con tutto quel sangue e quello spargimento di budella.
Immaginatevi voi un ragazzo nel ’32 di fronte a una testa mozzata appesa ad una parete.
Immaginatelo e ditemi un po’: non sarebbe ora di tirare fuori questa perla dall’ oblio e mettere nel cassetto tutte quelle cazzate a la “Alien Vs Predator” che il cinema ci regala oggigiorno?
La pellicola alla sua uscita nel 1932 ebbe un discreto successo ma Merian C. Cooper (qui produttore associato), Ernest B. Schoedsack (regista insieme ad Irving Pichel), la bella Fay Wray (la mora Eve) e Robert Armstrong (Martin e poi Carl Denham in “King Kong”) diventarono davvero famosi solo l’ anno seguente con il film sul gorilla più noto al mondo.
Addirittura il ruolo del protagonista John Driscoll in “King Kong” doveva essere ricoperto dallo stesso Joel McCrea che qui interpreta Bob ma una sua richiesta di aumento ne causò l’ allontanamento dal set a favore del giovane Bruce Cabot.
Le metafore politiche in un film in cui un conte cosacco insegue un cacciatore americano si potrebbero e dovrebbero fare ma le lascio volentieri a qualcuno più capace.
L’ aver scoperto una pellicola del genere mi basta e se fossi in voi se un giorno dovessi vedere in negozio “La pericolosa partita” (con su scritto molto probabilmete “Dai produttori di King Kong”) non dubiterei neanche un attimo: compratelo e diffondetelo, questo è Cinema.
Bob: “Che cosa caccia qui?”
Conte Zaroff: “Quando lo saprà sarà felice, io ho creato una nuova sensazione…”
REGIA: Ernest B. Schoedsack, Irving Pichel
ANNO: 1932
GENERE: Horror
VOTO: 10
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedersi un classico dimenticato e scoprire da dove arriva quella citazione dei Simpson con Burns nei panni del cacciatore.
QUANTI REMAKE NE SONO STATI FATTI: 2. Uno nel 1945 ad opera di Robert Wise intitolato “A Game Of Death” e l’ altro nel 1956 di Roy Boulting a nome “La preda umana”. Entrambi sono irreperibili (o almeno io non li ho trovati!)

domenica 28 ottobre 2007

STARDUST


Francamente me ne infischio!
Me ne infischio di tutta quella pubblicità negativa arrivata dagli Usa su questa pellicola, me ne infischio dei pareri dei grandi critici che dicono che Stardust sia un’ accozzaglia di fantasy già visto (qualcuno gli dica che è una trasposizione cinematografica di un romanzo illustrato del 1998 di Neil Gaiman) e me ne infischio anche degli scarsi incassi.
A me “Stardust” è piaciuto!
Ditemi quello che volete.
Ma a me è piaciuto!
Certo la storia è più classica di un classico: un ragazzo deve attraversare un muro che porta in un'altra dimensione magica per recuperare una stella caduta da portare alla sua amata per sposarla e sulla sua strada incontrerà streghe malvagie, pirati frivoli e la madre perduta.
Certo gli effetti speciali sono quelli che sono: si è fatto ricorso ad una computer graphica di molto inferiore a quella solitamente usata nelle grandi produzioni come “Il signore degli Anelli” o “Harry Potter” per problemi di budget (soli 70 milioni) che non è bastato a coprire il cachet di certi attori (De Niro e la Pfeiffer in particolare) e il resto della produzione.
Certo ogni tanto c’ è da mettersi le mani nei capelli per l’ ennesimo dialogo stucchevole (nel senso che nessuno nella realtà parla come un libro stampato come fanno i due giovani protagonisti!) o per l’ ennesimo brillio dei capelli di lei.
Ma sapete cosa vi dico?
A me Stardust è piaciuto comunque!
Dopo tanti fantasy grandiosi e pieni di pretese, dopo imponenti film storici che pretendono di essere presi sul serio quando non sono altro che emerite buffonate mi ci voleva un film del genere!
Un fantasy tipicamente anni ’80.
In che cosa?
Ma in tutto!
Nella trama molto lineare, negli effetti molto semplici, nella netta divisione di buoni e cattivi e persino nella scelta degli attori (Michelle Pfeiffer era la protagonista del grande “Ladyhawke” nel 1985).
Qualcuno, ne sono sicuro, storcerà il naso.
Potete anche dirmi che tutti quelli che io ho elencato come pregi non sono che brutti difetti da eliminare in un film che andava bene giusto 20 anni fa.
Eppure a me è piaciuto lo stesso questo film!
Sarà la presenza della bellissima e bravissima Pfeiffer (ha 49 anni! Vi rendete conto? Altro che Sharon Stone, Monica Bellucci e Sabrina Ferilli o chi altro volete!).
Sarà il ruolo interpretato da De Niro con tutti quei vestitini rosa e tutte quelle smorfie pazzesche quasi cartoonesche!
Sarà che ogni tanto un bel filmetto senza tanto impegno ci vuole!
Ma io l’ ho davvero apprezzata questa pellicola!
Se ve lo consiglio?
Non lo so!
Fate voi.
Se in quello che ho detto avete trovato almeno tre punti che meritino la vostra visione andate pure felici: non rimarrete delusi!
Se invece non amate “Willow” e tutto quel fantasy un po’ anni ’80 (ehm..Leo) non avvicinatevi, potreste scottarvi.. e tanto.
REGIA: Matthew Vaughn
ANNO: 2007
GENERE: Fantasy
VOTO: 7, 5
CONSIGLIATO A CHI: Ama il fantasy senza troppe pretese

sabato 27 ottobre 2007

THE LOST WORLD- IL MONDO PERDUTO


Piccolo esempio di un mondo senza idee.
Nel 1912 Sir Arthur Conan Doyle (provate a dirmi che non avete mai letto una storia di Sherlock Holmes e giuro che vengo a casa vostra seduta stante a ridervi in faccia per la battuta!) scrive “The Lost World”, breve romanzo di fanta- avventura sulla scia del grandioso Verne, che racconta la storia di una spedizione su un altopiano sperduto dell’ Amazzonia in cui incredibilmente sopravvivono dei dinosauri.
Nel 1925 tale Harry Hoyt (non mi pervengono altre opere famose a suo nome) decide che è ora di trasformare in immagini tutto quello che migliaia di lettori avevano immaginato per anni: un altopiano da favola sperduto in una foresta intricatissima e una spedizione di personaggi bizzarri impegnati nella ricerca di qualcosa a cui nessuno crede: i dinosauri.
Già. E come si fa a mettere sullo schermo un dinosauro nel 1925 quando a malapena c’ era la pellicola che girava e non esisteva neanche il sonoro?
Forse Hoyt pensò anche di andare a farsi un giro in Amazzonia alla ricerca delle creature descritte da Doyle per semplificarsi un po’ la vita ma alla fine si optò per Willis O’ Brien e una serie di modellini da spostare centinaia di volte per registrare un minuto di pellicola.
Willis O’ Brien sperimenta qui per la prima volta in assoluto in un lungometraggio quella stop-motion che darà vita nel 1933 alla più famosa delle sue creature: King Kong.
Il risultato di tanta fatica è quello che si può definire il più classico dei prodotti Holliwoodiani: un opera grandiosa in ogni suo elemento.
Nella scenografia innanzitutto (la prima immagine dell’ altopiano visto dal basso dagli esploratori è davvero meravigliosa e la foresta risulta ben fatta), nell’ impegno di O’ Brien per rendere realistico qualcosa che fino ad allora era stato solo immaginato e in definitiva nel gran dispiego di mezzi che solo Hollywood può permettersi.
Anche se alcuni difetti come la troppa “teatralità” della foresta (in alcune scene lo sfondo teatrale è fin troppo visibile!) e un t-rex che mangia con le mani (questa non ve la so spiegare!) non mancano la pellicola si mostra come un’ ottima opera d’ intrattenimento (assolutamente nulla di più!) che certo oggi non stupisce più di tanto ma che allora deve aver meravigliato non poche persone (il successo fu talmente grande da prevederne subito una versione sonorizzata mai realizzata) prima dell’ arrivo di King Kong.
Lo scimmione.
Oltre al curatore degli effetti speciali che cosa mai avrà a che fare con questa pellicola?
Forse la trama?
Certo quella di King Kong non era una spedizione di ricerca, certo i dinosauri non rapiscono nessuna Fay Wray ma andiamo un po’ più avanti.. ve lo ricordate lo scontro del gorillone con il t-rex? Qui ci sono cinque o sei di quegli scontri tra dinosauri che tanto dovevano piacere a O’ Brien.
Solo?
No. Non solo.
Il fatto è che ad un certo punto i Nostri riescono a scendere dall’ altopiano dopo mille disavventure e si ritrovano un brontosauro ferito intrappolato nel fango; a questo punto il professore capo della spedizione dice una cosa tipo: “Se lo portassimo in città certo diventerebbe uno spettacolo per cui tutti pagherebbero!”
Certo!
Peccato che anche Carl Denham (il regista protagonista di "King Kong") avrà la stessa idea 8 anni dopo e casualmente anche il suo scimmione, come il dinosauro, sfuggirà al controllo umano seminando terrore e distruzione nell’ intera città fino alla scalata dell’ Empire State Building e alla sua fine che il dinosauro, impossibilitato a scalare per evidenti limiti fisici, preferirà attuare crollando nel mezzo del Tower Bridge.
E ora non vi viene in mente qualcosa?
Non vi viene in mente il romanzo di Michael Crichton “Jurassic Park” del 1990 in cui l’ autore semplicemente aggiornerà la storia di Doyle ai giorni nostri (dna, dinosauro creato dall’ uomo, luogo per la sua evoluzione scelto dall’ uomo…)?
Non vi viene in mente la trasposizione di Spielberg per lo schermo del 1993?
Non vi viene in mente che “Il Mondo perduto” di Spielberg (pessimo rispetto al primo) non sia altro che la riproposizione in grande della seconda parte della storia originale?
E provate a guardare un qualsiasi dizionario di cinema: esisterà per caso un remake de “Il mondo perduto”? Guardalo li! È datato 1960!
E poi scusate… ma “Alla ricerca della Valle incantata” non era un po’ la stessa storia ma con dei dinosaurini protagonisti?
Oh si.
Quante idee!
Mi raccomando quando ne trovate una originale fatemi uno squillo!
Di seguito il trailer (bellissimo!) e il film originale versione da 70 minuti in streaming qui gratuitamente!
Vi aggiungo anche una chicca che mi è stata segnalata da Filippo (potete raggiungerlo grazie al faccione di Frankenstein in alto!), si tratta di "R.F.D. 100000 B.C." primo cortometraggio interamente realizzato in stopmotion dal grande Willis O' Brien, purtroppo le immagini sono molto rovinate ma la mia simpatia per quel dinosaurino trasporta carrozza e per l' omino che si spacca in due è già grande!
Grazie Filippo!
REGIA: Harry Hoyt
ANNO: 1925
GENERE: Avventura, Fantasy
VOTO: 7, 5
CONSIGLIATO A CHI: riesce a sopportare un film in bianco e nero muto del ’25 di 50 minuti (ne esiste una versione da 90 minuti ma io non l’ ho trovata!) con effetti che oggi, purtroppo, paiono troppo antiquati.
QUANTO è STATO SFRUTTATO IL ROMANZO DI DOYLE: 10

giovedì 25 ottobre 2007

ALIEN VS PREDATOR


Uno torna a casa stanco morto da una partita di calcetto, accende la tv e si trova davanti un Alien bavoso.
Bello!
Poi vede un predator.
Ed inizia ad avere dei dubbi.
Infine vede il faccione di Raul Bova e lo vede indossare un tutone giallo con un tesserino identificativo sulla spalla con su stampata una bella bandierina italiana.
I dubbi si fanno forti.
Improvvisamente a quel ragazzo spossato viene in mente un certo “Alien vs Predator” e dice tra se e se: “Ora me ne vado a dormire, mica mi pagano per vedere certe cagate!”
No.
Non lo pagano.
Eppure rimane li, davanti alla tv. A vedere un film che sa essere una cazzata e che cazzata si dimostra fino in fondo.
Il classico film per quindicenni dimostra di avere tutte le carte in regola per essere un must del genere: azione veloce, combattimenti tra mostri a una velocità tale da non capirci nulla, eliminazioni a catena manco si parlasse di conigli e una storia da far invidia ai cinepanettoni italiani: un gruppo di esploratori (ovviamente i migliori sulla piazza nel loro campo!) capitano per non so quale motivo (mi sono perso i primi dieci minuti e non intendo vederli, ma leggo che si tratta del solito miliardario annoiato che li recluta per una scoperta straordinaria) in una piramide sommersa dai ghiacci dell’ Antartide in cui si scontrano gli Alien contro i Predator.
Bova (Sebastian) ci spiega che un tempo i Predator insegnarono le costruzioni (le costruzioni? Ma che è? Lego?) agli umani e questi iniziarono a venerarli come Dei.
Lo scambio equo (??!!) consisteva nel sacrificare alcuni abitanti della Terra per far crescere dentro di loro gli Alien in modo che poi i Predator si potessero divertire a cacciarli come se fosse tutto un bel gioco.
Oltre a questa storia ai limiti della buffonata, a un azione confusionaria senza fine, alla bava verde degli Alien tipo acido e a schifezze varie ed assortite la pellicola tenta anche di diffondere motti ridicoli tipo: “Il nemico del mio nemico è mio amico” che permetteranno alla protagonista di scampare alla caccia infernale.
E come dimenticare l’ incredibile amicizia tra un Predator e una donna dettata dalle circostanze e la solita scena in cui un uomo (in questo caso Bova) chiede alla propria compagna di sparagli perché ormai è finita con quel bell’ Alien che gli gironzola in pancia?
Insomma a vedere questo videogame (ops è un film, scusate!) viene solo nostalgia del buon vecchio e claustrofobico Alien e persino di quell’ action movie con Schwarzy protagonista che le menava a tutti!
Ci si chiede perché mai Ewen Bremner (Spud in Trainspotting) abbia recitato in una tale schifezza, ci si chiede cosa avevano i giornali italiani da esaltarsi se Raul Bova era stato chiamato ad Hollywood per girare una simile indecenza, ci si chiede se Paul W. S. Anderson ha il cervello di un dodicenne per girare certe oscenità (oltre al meraviglioso Mortal Kombat!) e soprattutto ci si chiede perché mai sta per uscire un seguito di tutto ciò di cui è già disponibile il trailer qui sotto!
REGIA: Paul W.S. Anderson
ANNO: 2004
GENERE: Fantascienza, Horror, Azione
VOTO: 3
CONSIGLIATO A CHI: vuole vedere l’ ennesima trasposizione terribile da fumetto (Leo se sai qualcosa del fumetto aiutami tu e dimmi che almeno quello è decente!)
QUANTO è ORIGINALE: 0. Di storie così ce ne sono milioni e di scontri tra mostri era già uscito “Freddy vs Jason” nel 2003 che almeno non si prendeva troppo sul serio!

martedì 23 ottobre 2007

UN LIBRO UN FILM_ THE LAST MAN ON THE EARTH- L’ ULTIMO UOMO DELLA TERRA


Per leggere la recensione del libro da cui è tratta questa pellicola cliccare qui.

All’ inizio non ci credevo.
Ho aspettato per più di un’ ora che il film cadesse in qualche errore palese, in qualche modo che facesse cilecca e invece nulla.
Questa è una trasposizione di “Io sono leggenda” perfetta.
E non lo dico perché ho amato il libro alla follia o chissà che altro.
Anzi.
Il mio amore per il romanzo mi ha portato a dubitare fino all’ ultimo in tutto ciò e mai mio errore fu più grande.
“L’ ultimo uomo della Terra” (per quanto molti dizionari si ostinino a chiamarlo “L’ ultimo uomo sulla Terra" il titolo all’ inizio della pellicola è chiarissimo a riguardo) è, come detto, la prima trasposizione di “Io sono leggenda” sullo schermo ed ha attraversato difficoltà di ogni genere per la sua produzione.
Se inizialmente la Hammer doveva essere la produttrice della pellicola nel 1957 con una sceneggiatura scritta direttamente da Richard Matheson, molti problemi insorsero a causa della censura del tempo che vedeva troppa violenza nello script e il prodotto venne lasciato in stallo fino al 1964, anno in cui lo scrittore si decise a vendere i diritti ad un certo Robert Lippert che convocò addirittura tale Fritz Lang alla regia. Il rifiuto del grande regista portò a una serie di vicissitudini che videro infine la nascita di una produzione italo- americana con la regia assegnata a due nomi pressoché sconosciuti: Ubaldo Ragona (con ben tre film sconosciutissimi all’ attivo) per la versione italiana e Sidney Salkow per quella internazionale.
Ma bando alle ciance e ai particolari storiografici e veniamo al succo: perché mai innamorarsi di un film girato a Roma (e non nella Los Angeles del libro) con 3 lire e un cast di 10 attori al massimo?
Voglio darvi tre motivazioni che escludano la storia, da me ampiamente narrata nella recensione di “Io sono leggenda” di Matheson (e va bene! Se proprio non avete neanche la voglia di scendere un pochettino con il cursore del mouse si tratta di un epidemia che contagia il mondo vampirizzandolo ad esclusione del protagonista Robert Neville che se la dovrà vedere con tutti! Mamma mia che pigrizia però!).
La prima riguarda il modo in cui il romanzo è stato trasposto.
Al di la dell’ ambientazione (è più che palese che quei palazzoni osceni nelle prime immagini non siano Los Angeles) “L’ ultimo uomo della Terra” riesce in quello in cui la maggior parte delle trasposizioni fallisce: mantiene lo spirito e il ritmo del libro.
La prima parte vede Robert (per questioni che io non conosco il suo cognome non è Neville come nel libro ma Morgan) di notte segregato in una casa assediata dai vampiri mentre beve whisky e ascolta jazz (e non musica classica come nel libro, ma l’ effetto se vogliamo è ancora migliore) e di giorno in giro a piantare paletti nel cuore dei mostri (con un’ affascinante sovrapposizione delle immagini che vedono il nostro sulla sua auto e nel frattempo intento a impalare le creature, a indicare una quotidianità niente affatto normale)
La seconda parte mette in scena un lungo flashback di Robert che ci permette di vedere gli ultimi giorni di un mondo morente e il suo addio prima alla figlia e poi alla moglie (davvero bella la scena finale in cui Morgan si vede ritornare in casa Kathy ridotta ad uno zombie con lo stacco della telecamera che ci riporta al presente)
Infine una terza e quarta parte vedono l’ ingresso in scena prima di un cagnolino (di solito non amo i barboncini ma qui fa una tenerezza infinita!) che si rivelerà infetto ed infine di una misteriosa donna scampata per miracolo al virus letale.
La storia originale di Matheson è sostanzialmente immutata eppure anche per il lettore il film si rivela grande in ogni passaggio (non come certe scopiazzature da libro paro paro come “Il codice da Vinci” che voglio evitare di commentare anche per la bassezza del prodotto iniziale): la sceneggiatura riesce a tenere alta l’ attenzione e alla morte inevitabile del cagnolino.. si mi sono commosso (che vergogna, credo che solo io posso commuovermi con un film del genere..).
La seconda motivazione è “La notte dei morti viventi”.
Mi spiego.
Quando ho visto il capolavoro di Romero (perché di capolavoro si tratta) non ho pensato che Romero avesse creato dal nulla tutto quanto ma l’ idea mi ha sempre accarezzato la mente.
E invece.
E invece “L’ ultimo uomo della Terra” anticipa di ben 4 anni il film di Romero e porta in scena il tema principale che il maestro dell’ horror moderno saprà far suo: la visione di una società ottusa incapace di comprendere la propria mostruosità e l’ accusa verso un diverso che poi tanto mostruoso non è se confrontato a noi.
In questo senso è esplicativo il fatto che Morgan non si renda conto fino all’ ultimo che, quello che lui pensava come un dovere (l’ uccisione di tutti i vampiri), altro non è che omicidio in serie.
Ma il film di Ragona fa di più: mostra come questa condizione di mostruosità non volontaria possa muoversi in poco tempo da una parte all’ altra e riguardi essenzialmente la società dominante (non posso dirvi di più per non svelarvi il finale ma capirete).
C’ è poi da segnalare l’ aspetto puramente visivo molto simile al film di Romero: i vampiri qui rappresentati sono praticamente identici agli zombie de “La notte dei morti viventi”: lenti e goffi eppure implacabili. Due scene vengono addirittura copiate con la carta carbone da Romero: quella nel cimitero che vede Robert fuggire tra i vampiri ciondolanti (vi ricorda per caso l’ incipit di qualche altro film?) e quella delle braccia che si intrufolano all’ interno dell’ abitazione oltre ad un finale non proprio identico ma.. non posso dire assolutamente nulla!
Infine la terza motivazione: Vincent Price nei panni di Robert Neville.
Avete presente quell’ uomo un po’ grosso con degli inimitabili baffetti che girò una serie impressionante di b-movie per Roger Corman (oltre alla parte del cattivone nel film Disney “Basil l’ investigatopo"): proprio lui.
Nella sua recitazione imponente, teatrale, quasi al limite della farsa, io l’ ho amato con tutto il mio cuore. E che importa se molti critici l’ hanno definito inadeguato per la parte o grossolano nei metodi: come si fa a non amare un personaggio del genere? Uno che pensa di essere a teatro quando cattura la telecamera e in un lungo primo piano tenta di mostrarci un uomo in preda alla pazzia che trasforma le sue risate in pianto! Uno che ad ogni frase pronunciata sembra debba decantare le lodi di chissà quale paradiso con quel fare così.. imponente. Uno così non può non essere amato, capace di tenere un film a galla praticamente da solo.
Gli altri attori tra cui un Giacomo (!?) Rossi Stuart padre del più famoso Kim e Franca Bettoja moglie di Ugo Tognazzi fanno il loro dovere in un film che davvero vorrei rivedere più considerato in un mondo in cui qualcuno è capace di urlare al capolavoro per un certo Resident Evil (davvero, non sto scherzando!).
Insomma in attesa del remake del remake (un altro film venne tratto da “Io sono Leggenda” nel 1971 con Charlton Heston come protagonista) di una storia tratta da un libro (ah si che Hollywood ne ha di idee innovative, certo! E io sono Babbo Natale!) con un muscolosissimo Will Smith come protagonista (spero non si trasformi in un nuovo “I, Robot” altrimenti lo vado a prendere di persona a quel muscolone!) godetevi questa piccola perla di cinema, senza stare tanto ad interrogarvi sul perché attori come Vincent Price non ce ne siano più e per quale motivo quegli essere vestiti di nero che arrivano alla fine assomigliano tanto a dei Fascisti.
Questa volta oltre al solito trailer originale vi offro qualcosa di più: la possibilità di vedere l' intero film GRATUITAMENTE in lingua originale cliccando qui.
Non c' è nulla di illegale tranquilli. Tutto ciò è possibile perchè i diritti della pellicola sono scaduti e ora sono di pubblico dominio. Non perdetevi la possibilità di vedere il mitico Vincent Price in lingua originale in un film straordinario!
REGIA: Ubaldo Ragona, Sidney Salkow
ANNO: 1964
GENERE: Horror
VOTO: 9, 5 (so di essere generoso ma il mio amore per questa storia è infinito)
CONSIGLIATO A CHI: vuole vedere da dove ha acchiappato un po’ di idee il buon Romero
QUANTO è SIMBOLICO IL FINALE: 10

domenica 21 ottobre 2007

I AM LEGEND- IO SONO LEGGENDA_ IL LIBRO


“Io sono leggenda” è un capolavoro.
L’ ho pensato subito dopo la mia prima lettura.
E lo penso ora, dopo averlo letto una seconda volta, messo in dubbio da un parere che lo definiva un libro normalissimo.
“Io non ci sto”, come disse un giorno un certo Oscar Luigi Scalfaro, ma questa è un’ altra storia.
“I am legend”, scritto da Richard Matheson nel 1954, narra le vicende di un uomo rimasto solo sulla faccia di una Terra ormai invasa dai vampiri (molto simili a zombie però).
Se si trattasse solo di questo farei comunque un inchino di fronte allo scrittore, capace di anticipare di anni quell’ invasione di morti viventi che avrà tanto successo nel 1968 con George Romero.
Ma non si tratta solo di questo.
“Io sono leggenda” non è solo un buon romanzetto dell’ orrore da leggere in tre giorni, è molto di più e, a differenza di molti scritti che hanno bisogno di un’ interpretazione molto forzata (se non a volte ridicola), ha la pretesa di esserlo.
Il libro di Matheson è un romanzo della paranoia, della solitudine, dell’ importanza dei punti di vista.
Non un romanzo dell’ orrore.
Richard prese spunto per la storia dopo aver visto un adattamento del “Dracula” di Stoker per il cinema a 17 anni. La domanda che si pose fu tanto semplice quanto inquietante: se un vampiro è così terrificante, come sarà un mondo intero popolato di vampiri?
Già, come sarà?
Il mondo abitato da Robert Neville, unico superstite al virus che ha infetto tutti gli uomini della Terra, non è propriamente un incubo.
O perlomeno, per Robert che ci ha fatto l’ abitudine (o crede di avercela fatta), è quasi un mondo come un altro.
Quasi.
Con la differenza che lui la notte non può uscire perché la sua casa è assediata da famelici vampiri e il giorno è occupato da una faticosa quanto snervante attività: piantare paletti di legno nel cuore ad ogni vampiro trovato per portarlo poi all’ enorme rogo che fu acceso all’ epoca dell’ inizio dell’ epidemia, quando il mondo aveva ancora una speranza e l’ unico modo per non far resuscitare i morti era stato trovato nel loro rogo.
Speranza.
Neville non ha speranze.
Dopo 5 mesi passati a sentire ogni notte il vicino vampirizzato Ben Cortman urlargli dall’ esterno della casa: “Vieni fuori Neville” , Robert non ha più alcuna speranza.
Non spera più di trovare un altro uomo, non spera in un miracolo divino, non spera nella morte naturale dei vampiri e nel più profondo del suo cuore non spera più neanche di sopravvivere.
Anzi, Robert ha una speranza: quella di morire per liberarsi di tutto ciò.
Il primo tema che Matheson affronta è anche quello che tiene insieme l’ intera narrazione: Robert affoga tutta la sua disperazione nell’ alcool nei primi capitoli, passa intere notti a pensare a sua figlia lasciata nel rogo per volere delle autorità e a sua moglie che, una volta seppellita, è tornata in “vita” per vedersi conficcare un paletto nel cuore da un marito ai limiti della pazzia.
Quella speranza che lo stesso Matheson, dopo anni passati a scrivere senza ricevere alcun riconoscimento (come disse lui stesso la narrativa a quel tempo gli aveva fruttato in tutto 500 dollari) aveva perso è riflettuta su di un uomo distrutto, incapace ormai di comprendere quanto sia anormale per un essere umano passare intere giornate a uccidere qualcuno che un tempo era stato suo simile.
La degradazione di una persona che ha visto morire il mondo è qualcosa a cui nessuno può abituarsi nonostante tutte le autoconvinzioni di Robert: egli vive in una casa dove ogni finestra o porta è sbarrata con assi di legno, la camera da letto è diventata la sede per la produzione dei paletti e le stanze sono ingombre di bicchieri rotti in preda all’ alcool e alla paranoia.
Già, la paranoia.
Quella paranoia che porta Neville nella seconda parte del libro all’ analisi del virus: che cosa ha vampirizzato il mondo? Perché l’ aglio è un deterrente per i vampiri? Davvero la croce può tenere lontano un non morto che in vita era Ebreo o Musulmano?
E soprattutto: ci sarà mai una cura per tutto questo?
La vita di Neville è orientata solo a questo: trovare una cura per tutti gli altri.
Nella sua testardaggine Robert non si rende conto della sua visione a senso unico se non alla fine: “Ora sono io l’ anormale. La normalità è un concetto di maggioranza, la norma di molti, e non la norma di uno solo”.
Punti di vista quindi.
Le parole scritte di Matheson diventano immagini davanti ai nostri occhi con una semplicità disarmante: vediamo un mondo alla fine dei suoi giorni popolato da pazzi che profetizzano l’ apocalisse e cercano la salvezza in una religione che non ha più alcun senso, vediamo Robert avvicinarsi al rogo per consegnare il corpo della piccola Kathy alle autorità di ghiaccio per poi disperarsi un secondo più tardi, vediamo un cane che sembra essere l’ unico sopravvissuto insieme a Neville leccare la mano del suo unico padrone dopo tanta diffidenza, vediamo una donna spuntare all’ orizzonte in pieno giorno e un Neville barbuto inseguirla per scoprire se davvero è possibile la rinascita di una nuova umanità.
Vediamo tutto senza renderci conto che la speranza di un mondo “normale” è solo la nostra, non ci si accorge che quelli di Neville sono omicidi a sangue freddo anzi, Matheson fa di tutto per farci sembrare Neville la vittima in un mondo in cui lui è rimasto l’ unico vero “normale”.
Richard ci mostra un protagonista che non riesce neanche a tenere a bada i suoi istinti sessuali: le posizioni oscene delle “donne” che assediano la sua casa sono un incubo se confrontate alle pietre lanciate contro le sue finestre da vampiri infuriati il cui rumore può essere coperto da un buon disco di musica classica. In questo il libro può essere accostato in modo palese a “Tre millimetri al giorno”, scritto nel 1956, per il tema della solitudine e della perdita dei propri “poteri” all’ interno di un mondo diverso: in qualche modo anche Robert Neville rimpicciolisce all’ interno di una società che si allarga fino a dissolversi davanti ai suoi occhi.
Terribile condanna alla diffidenza verso il diverso (capirete solo leggendo) e metafora di un mondo che vede solo quello che vuole vedere (negli anni ‘50 iniziava la cosiddetta guerra fredda e entrambe le posizioni guardavano alla loro parte come a quella nel giusto autoconvincendosi sempre di più), “Io sono leggenda” è si un romanzo dell’ orrore, ma dell’ orrore che attraversa la società.
Romero ne “La notte dei morti viventi” riprenderà il tema sostituendo ai vampiri di Matheson degli zombi molto simili per comportamento e fisico e Stephen King nel 2006 omaggerà ancora di più il suo maestro con “Cell” storia di pochi sopravvissuti a un epidemia che ha reso il mondo zombiesco.
Danny Boyle con “28 giorni dopo” non farà altro che riprendere il tema e modernizzarlo (qui ciò che più è sviluppato è l’ ottusità delle autorità nei confronti dei pochi superstiti).
Ma prima di Romero, prima di Boyle, prima di King, c’ era Matheson.
Nel 1964 e nel 1971 saranno tratti due film da “Io sono Leggenda”: “L’ ultimo uomo sulla Terra” con Vincent Price e “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra” con Charlton Heston (“Ben Hur” e “Il pianeta delle scimmie per dirne due!).
Mi sto apprestando a vedere il primo, vi saprò dire.
Nel frattempo sta per uscire l’ ennesima trasposizione cinematografica con Will Smith protagonista che spero non diventi un film d’ azione alla “Io robot” (avrò occasione di parlare anche di questa pellicola un giorno ma se avete letto qualcosa di Asimov e avete visto il film potete già farvi un’ idea del mio pensiero).
Si.
Matheson può benissimo affermare di essere divenuto leggenda.
AUTORE: Richard Matheson
ANNO: 1954
GENERE: horror (sociale?!)
VOTO: 10
CONSIGLIATO A CHI: vuole leggere un classico dell’ horror purtroppo poco rinomato.
QUANTO è SPIAZZANTE IL FINALE: 10

venerdì 19 ottobre 2007

ROB ROY


Un giorno lessi una recensione della cara Lilith su robocop e decisi di recuperarlo insieme ai suoi seguiti.
La regia del primo ed inimitabile era di un certo Verhoeven che alcuni anni dopo girò anche il sexy thriller Basic Instinct: recuperai anche quello insieme al suo (a quanto pare) osceno seguito firmato Michael Caton Jones.
Decisi di andare a vedere che aveva mai fatto questo Jones per produrre una tale schifezza (ma ancora non l’ ho visto quindi non vi so dire se ciò corrisponde davvero a realtà) e scoprii questo Rob Roy, datato 1995 con un cast di tutto rispetto: Liam Neeson, John Hurt e Tim Roth già bastarono per ingolosirmi mentre Jessica Lange e Brian Cox altro non fecero che completare l’ opera.
Ma la domanda che ci si pone a questo punto è: di cosa parla Rob Roy?
Il film narra le vicende di Robert Roy Mac Gregor (Liam Neeson), una sorta di Robin Hood scozzese realmente esistito nel diciottesimo secolo, che, proprio come quest’ ultimo, cerca di mantenersi indipendente e di creare una propria comunità felice in un mondo di duchi e marchesi corrotti e senza alcuno scrupolo.
La storia è presto detta: la richiesta di Rob Roy per un prestito al marchese John Graham di Montrose (John Hurt) da il via al piano dello scagnozzo del marchese (Tim Roth) che decide di rubare tutti i soldi e uccidere il migliore amico del Nostro che aveva l’ incarico di riceverli dalle mani di Killearn (Brian Cox) anch’ esso implicato nella vicenda.
La questione porterà all’ inevitabile conflitto tra Graham e Roy che si concluderà con un bellissimo duello di spada tra quest’ ultimo e l’ odioso Archibald Cunningham (scagnozzo del marchese).
La storia, molto classica e con un finale prevedibile, viene però svolta con maestria: la pellicola è volutamente lenta e non ha picchi di azione inutili, Jones tende a mostrare la bellezza di paesaggi davvero ineguagliabili (molto simili a quelli visti nel recente King Arthur) e fonda tutta la sua opera sulla bravura di attori che dimostrano di saperci fare anche con i ruoli in costume.
Certo fa impressione vedere Liam Neeson in kilt e con i capelli lunghi (a me ricorda un po’ il Kevin Costner di Waterworld), John Hurt (ma quanto è brutto?) tutto imparruccato e Tim Roth (allora appena uscito dallo strepitoso successo di Pulp Fiction) con vestitini rosa e movenze da checca (sia chiaro che non ci sono intenti razzisti nella mia affermazione!), ma ognuno qui fa la sua bella figura.
Neeson è davvero convincente nel ruolo del buono dall’ onore d’ acciaio e Roth riesce a farsi odiare fin dai primi 5 minuti senza risultare peraltro una detestabile macchietta (anche se siamo davvero al limite, ma è questa secondo me la sua grande capacità).
Jessica Lange infine se la cava egregiamente e mette in mostra ancora una volta tutta la sua bellezza e persino la sua sensualità in larghi gonnelloni da contadina che certo non aiutano!
L’ unico a mancare all’ appello è Sean Connery che rifiutò la parte del Duca di Argyll (che durante la vicenda aiuterà Rob Roy) ma sinceramente non se ne sente la mancanza.
La regia si muove molto bene tra squarci di vita quotidiana del clan di Roy e vita (senza morale) di corte e riesce nell’ intento in cui King Arthur ha fallito miseramente nonostante tutti i buoni propositi e l’ obiettivo decantato: il realismo.
Nessuna donna vestita con strisce di cuoio e battaglie epocali da “Signore degli anelli” ma “solo” inseguimenti (davvero ben fatto quello a danno di Mac Donald, amico di Roy) razzie, stupri (la scena fa star male per la crudeltà) e grandi duelli di spada tra cui l’ ultimo che viene ricordato come uno dei migliori nella storia del cinema (per realismo e tensione e non per movenze assurde a la "Matrix"!).
Insomma non ci si trova davanti al capolavoro o al film innovatore per eccellenza ma una bella visione la merita questo pellicola, per rivalutare un po’ il bistrattato Jones e per riscoprire un film che nell’ anno della sua uscita venne adombrato dal successo del contemporaneo Braveheart.
((Un grazie speciale a Lilith che mi fa conoscere film senza volerlo!))
REGIA: Michael Caton Jones
ANNO: 1995
GENERE: Storico
VOTO: 7, 5
CONSIGLIATO A CHI: è appassionato di film storici e non vuol star li a perdere tempo con Troy, King Arthur, Le Crociate o chissà che altro.
QUANTO VIENE VOGLIA DI PRENDERE A SCHIAFFI TIM ROTH E QUANTO FA VENIR IL VOLTASTOMACO LIAM NEESON CHE SI NASCONDE DENTRO UN BUE MORTO DA GIORNI: 10

mercoledì 17 ottobre 2007

MONSTER ON THE CAMPUS- RICERCHE DIABOLICHE


L’ ultimo film di fantascienza girato da Jack Arnold è datato 1958 e risulta forse il più sottovalutato dell’ intera carriera dello stesso nell’ ambito fantastico persino dal suo stesso autore che lo considera come il peggiore dei suoi figli, girato solo per rendere un favore all’ amico Joe Gershenson, a capo del settore musicale della Universal, e per obbedire a quest’ ultima che, come spiega il regista stesso in un’ intervista, imponeva alcuni film ai suoi 7 registi senza nessuna condizionale.
Nello stesso anno del debole “I figli dello spazio” con la produzione di Alland, il regista da il via all’ ultima fatica horror fantascientifica della casa di produzione prima di “Island Of Terror” del 1966.
Stine agli effetti speciali (anche in “Radiazioni bx distruzione uomo”) e Westmore al make up (praticamente nella quasi totalità delle pellicole di Arnold) assicurano una continuità con la produzione precedente del regista.
Lo script di David Duncan è considerato pessimo da Arnold che tenterà di risollevarlo in ogni modo.
Ci si trova questa volta in un campus universitario (come specificato dal titolo originale) e Donald Blake è un professore paleontologo che si dedica principalmente all’ evoluzione umana e animale.
Nel trasporto di un caelecantus (strano pesce che non ha subito nessuna evoluzione dalla sua nascita ed è quindi considerato un fossile vivente) Donald si ferisce ad una mano e comincia a sentirsi male.
La sua assistente Molly gli da un passaggio a casa ma, mentre telefona al pronto soccorso, viene aggredita da un essere misterioso che la telecamera non ci permette di vedere, se non per la mano molto pelosa.
Il giorno seguente la polizia trova il corpo senza vita di Molly (morta di paura) e sospetta di Blake, che nel frattempo si è ripreso e non ricorda più nulla della sera precedente, ma dopo poco egli viene scagionato e si attribuisce il delitto a un fantomatico nemico del professore a cui viene assegnata una guardia del corpo.
La giornata seguente prosegue senza nessun disturbo ma al calare della sera viene vista dal professore a da due suoi alunni una libellula gigante, che poco prima si era posata sul caelecantus.
Questo episodio e il fatto che un buon cane lupo si fosse trasformato in una bestia feroce dai lunghi canini aguzzi dopo aver leccato una sostanza fuoriuscita dal pesce primitivo il giorno precedente fanno insospettire Donald che inizia a comprendere chi sia in realtà il mostro che ha aggredito Molly.
Nel tentativo di svelare i suoi dubbi alle persone che lo circondano, il professore viene accusato di avere fantastiche visioni che nessuno può confermare e persino la sua fidanzata comincia ad avere dubbi sulla sua sanità mentale.
Spaventato da quello che potrebbe succedere in seguito a una sua ulteriore trasformazione, ma nel contempo attratto come uomo di scienza da una possibile straordinaria scoperta (qualsiasi essere a contatto con il plasma di questo caelecantus, esposto a raggi gamma per la migliore conservazione, potrebbe involversi fino alla sua forma originaria) Donald decide di prendersi un periodo di pausa in uno chalet di montagna per provare i suoi dubbi.
Il finale con una bella trasformazione dell’ uomo in bestia (in realtà uomo primitivo) è tutto da gustare e non manca di suspence, elemento totalmente dimenticato ne “I figli dello spazio”.
Ma veniamo ad un analisi più attenta.
Innanzitutto l’ ambientazione: dimenticato il deserto, protagonista di molte sue pellicole (“Destinazione terra”, “Tarantola”, “I figli dello spazio”), Arnold si dirige verso un campus universitario (anticipando di molto quella che sarà il trend dei film horror di fine ’70 inizio ’80) e in seguito sulle montagne che vengono viste come luoghi oscuri e affascinanti dove avvenimenti straordinari possono accadere senza che nessuno ne venga a conoscenza (e in questo caso la somiglianza con il deserto è molto forte).
Per quanto riguarda i temi classici affrontati da Arnold, invece, la pellicola sembra essere la chiusura di un cerchio aperto con “Destinazione Terra” ma prima di tutto vorrei far notare la telefonata di Donald al fantomatico dottor Moreau che risiede in Madagascar per risolvere i suoi problemi di trasformazione, chiaro riferimento a “L’ isola del dottor Moreau” dove quest’ ultimo tentava di trasformare gli animali in umanoidi (esattamente l’ opposto di quello che accade qui).
Per prima cosa si può notare come il tema della rivalità in amore sia totalmente ribaltato rispetto alle prime due pellicole (“Destinazione Terra” e “Il mostro della Laguna Nera”) che seguivano per lo più gli esempi dati da altri film di genere: se in questi ultimi erano infatti gli uomini ad essere in contrasto con altri per il “possesso” della bellezza di turno (anche se non ci sarebbe bisogno di virgolettarlo perché la visione delle donne in quegli anni nel cinema di questo genere era quasi sempre quella di un oggetto da avere, si veda King Kong che impugna la donna per indicare il suo amore), ora è la fidanzata di Blake ad avere una rivale in amore, la bella Molly, che sembra addirittura essere più vicina a lui rispetto alla fredda signora Townsend (il fatto che venga chiamata quasi sempre per cognome sembra indice di questa teoria).
Ancora più importanza è data invece al concetto di uomo- mostro che Arnold ha sempre cercato di trasmettere all’ interno delle sue pellicole.
Inizialmente in “Destinazione Terra” l’ alieno è visto come nemico distruttore ma si scopre sul finale il suo bisogno di aiuto che non ha saputo esprimere adeguatamente; ne “Il Mostro della Laguna Nera” e nel suo seguito “La vendetta del mostro” il gillman è inquadrato come un nemico ma si riesce a notare come in realtà sia l’ uomo l’ invasore di un terreno non suo; in “Tarantola” Arnold decide finalmente di mostrare l’ orrenda mutazione dell’ uomo in mostro per rendere finalmente esplicito il suo pensiero; ne “I figli dello spazio” è addirittura l’ uomo ad essere salvato dall’ alieno che, visto come ostile come al solito, salva l’ umanità dalla sua stessa mostruosità.
Siamo arrivati a “Ricerche diaboliche”. L’ uomo si trasforma nuovamente in mostro (come in “Tarantola”) ma questa volta la sua metamorfosi non è casuale: egli non è solo deturpato nell’ aspetto fisico ma anche la sua mente viene stravolta fino a diventare qualcosa di molto simile al gillman; i suoi pensieri non sono più quelli di un Homo sapiens sapiens ma quelli di un nostro antenato antichissimo che, proprio come il mostro della Laguna Nera si occupa solo della sua sopravvivenza e prova sentimenti primitivi verso l’ altro sesso.
In questo senso Arnold chiude un cerchio perché finalmente ci mostra come il gillman tanto odiato altro non è che una nostra proiezione del passato.
Il regista, poi, ci concede di proseguire con lui nella sua interpretazione della natura umana quando Blake si rende conto della sua trasformazione e decide di uccidere comunque il mostro perché rappresenta ancora un nemico (in questo senso viene richiamata la testardaggine dell’ uomo già sottolineata con “La vendetta del mostro” e “Il terrore sul mondo”).
L’ impossibilità o la difficoltà di esprimersi della creatura diversa (sia essa umana o meno) è un diretto corollario di questa equazione uomo-mostro.
Per quanto riguarda la regia, infine, Arnold riesce ancora una volta ad esprimere tutta la sua abilità nel genere: la creatura orribile non viene mai mostrata durante l’ intera pellicola e solo nel finale si assiste finalmente alla tanto attesa metamorfosi che risulta peraltro davvero ben fatta per l’ epoca.
Altro punto fisso di Jack è la visuale in soggettiva questa volta utilizzata per farci guardare attraverso gli occhi di un Donald in trasformazione (geniale la visuale sfocata che non ci fa comprendere se Blake ha le traveggole mentre vede la libellula che rimpicciolisce o è il suo corpo a subire la trasformazione).
Infine vorrei segnalare un momento particolare: quello della fuga della ragazza su per il pendio della montagna inseguita dal mostro, resa in maniera a mio modo magistrale per come è posizionata la telecamera: lontana, impassibile di fronte a una scena che sembra aver visto già troppe volte e di cui conosce il finale ma ancora capace di trasmetterci la tensione di una fuga insperata.
Già.
Troppe volte.
Probabilmente Arnold pensò a quello quando decise che non avrebbe più girato un film di fantascienza per il resto della carriera, pensò a quanti mostri aveva visto uscire dalle paludi, a quanti ragni giganti aveva dovuto affrontare, a quanti alieni mostruosi aveva sconfitto, pensò alla superficie di Metaluna e ai suoi abitanti troppo avanzati.
Probabilmente era semplicemente finito il suo tempo in un cinema di fantascienza che si apprestava al passo successivo: la fantascienza sociale degli anni ’60.
Probabilmente era quello.
Ma mi piace pensare che semplicemente Jack non aveva voglia i trasformarsi in un mostro.
Di bravura.
REGIA: Jack Arnold
ANNO: 1958
GENERE: Fantascienza, Horror
VOTO: 7
CONSIGLIATO A CHI: vuole assaporare l’ ultima opera fantascientifica del maestro della sci- fi anni ’50.
QUANTO AMO JACK ARNOLD: 10

lunedì 15 ottobre 2007

GLI ULTRACORPI: L' ORIGINALE ED IL REMAKE ANNO 2007

-INVASION OF THE BODY SNATCHER- L' INVASIONE DEGLI ULTRACORPI
-THE INVASION- INVASION




Può un classico del 1956 essere confrontato con il suo terzo (?!?) remake datato 2007?
Si può.
Lo dico io.
E tanto basta.
Due precisazioni per iniziare: ho avuto la fortuna di vedere l’ originale e il suo rifacimento di oggi nella stessa giornata quindi i miei pareri saranno dettati ovviamente anche da questa visione tanto ravvicinata; non ho ancora avuto occasione di visionare gli altri due remake della pellicola ma appena l’ avrò fatto mi riprometto di scriverne e forse di farne addirittura un confronto a quattro.
Un po’ di inutile storia quindi: “L’ invasione degli ultracorpi” nasce nel 1956 come riadattamento sullo schermo del romanzo di Jack Finney “The Body Snatchers” ad opera dello sceneggiatore Daniel Mainwaring e del regista Don Siegel (“Fuga da Alcatraz con il mitico Clint per dire uno dei più famosi).
Inizialmente il film si inserisce nel filone di quella sci- fi anni 50 che tanto piaceva ai ragazzini assidui frequentatori dei drive in americani ma ben presto si capisce che quella che rimarrà l’ unica incursione del regista nel genere aspira a diventare molto di più che una pellicola di mostri verdi venuti dallo spazio.
Molto molto di più!
Sono quasi sicuro che il 90% di voi conosce la trama di quello che ad oggi è considerato un vero e proprio classico (e non solo della fantascienza): il dottor Milles (Kevin Mc Carthy) arriva nella cittadina in cui risiede dopo un lungo viaggio e nota il comportamento assai strano di alcune persone che sembra diffondersi sempre più, come se si trattasse di un epidemia. Ben presto il dottore insieme alla sua bella Becky e alla coppia amica Jack e Teddy si rende conto che il comportamento anomalo non dipende da un semplice problema psicologico ma da un invasione aliena che sta annientando le emozioni in ogni umano per far posto a una società dove tutti sono uguali.
“Invasion” nasce nell’ anno del cinquantenario della pellicola originale e attraversa problemi di produzione di ogni genere: dopo essere stato completato ad opera del regista Hirschbiegel (“La caduta”) la produzione decide di chiamare i fratelli Wachowski e James Mc Teigue (“V per vendetta”) alla regia per dare un tono più vivace ad una pellicola troppo lenta (a parere della Warner Bros produttrice).
Il risultato è uno slittamento di ben un anno sulla data di uscita e un film che rimette in scena la stessa storia dell’ originale (ovvio è un remake!) ma con alcune modifiche: il protagonista diventa una psicologa femminile di nome Carol (Nicole Kidman) che, insieme al compagno Ben (un Daniel Craig allora non ancora 007) tenterà in tutti i modi di scappare all’ invasione per poter avvertire il mondo ma soprattutto per salvare il proprio figlioletto Oliver.
Voglio che sia chiara una cosa: ho provato a cercare dei lati positivi in “Invasion”, mi sono messo li con un foglio di carta diviso in due e ho iniziato ad appuntare tutti i pregi e i difetti delle due pellicole e alla fine, quando mi son ritrovato con la colonna dei pregi del film con la Kidman praticamente vuota mi son detto di trovarne almeno uno.
Ci ho pensato e ripensato, e ripensato ancora.
Ho messo a confronto la storia e il risultato come potete vedere sopra è di sostanziale pareggio.
Mi preme solo sottolineare come "L'invasione degli ultracorpi" non sia la prima storia che tratta di alieni che prendono il possesso di umani ignari: molto simile a proposito è "Destinazione Terra" di Jack Arnold dove gli umani presi si comportavano proprio come gi ultracorpati!
Ho messo a confronto gli attori e mi sono ritrovato a dover ammettere che la Kidman qui (come nella “Fabbrica delle mogli”) non centra davvero nulla: con la sua faccia da topina tutta tirata e il suo nasino che la fa sembrare sempre un po’ snob e capricciosa qui Nicole ci sta bene come la nutella sulla pasta. Certo può anche piacere ma poi provate a digerirla! Con tutte quelle espressioni da disperata sull’ orlo di una crisi di nervi, con tutto quel portamento da signora importante, con tutta quella puzza sotto il naso: mi dite che centra la Kidman in un film del genere?
Posso capire Craig, che non sai mai se è stato preso o no perché è capace di due sole espressioni (proprio come gli umani presi dagli Ultracorpi), ma perché mai han chiamato la Kidman? E soprattutto perché mai lei ha accettato un ruolo del genere.
Ma lasciamo stare e veniamo alla regia e alla sceneggiatura.
“L’ invasione degli ultracorpi” è diretto con mano ferma da Siegel che trasmette al film il suo stile di regia secco e preciso eppure così reale: il suo dono sta nel mostrarci i protagonisti da un angolazione tale dalla quale sembra sempre di assistere ad una scena reale più che a una finzione cinematografica.
I due momenti più alti a mio parere sono raggiunti con la soggettiva del baccello che vede entrare Milles dall’ altra parte della serra (anche se quest’ uso della soggettiva del mostro era stato già utilizzato prima da Jack Arnold in “Destinazione Terra”) e dal finale voluto dal regista (poi seguito da un ultima scena finale voluta dalla produzione) che vede il nostro dottore rivolgersi direttamente a noi attraverso la telecamera per avvisarci del pericolo che corriamo rompendo così ogni regola di classico cinema Hollywoodiano che si rispetti.
“Invasion” è senza dubbio minato da una scelta di produzione che non ha fatto altro che distruggere un film potenzialmente buono basato essenzialmente sulla psicologia dei suoi protagonisti con delle scene d’ azione e di orrore francamente inutili e se vogliamo di dubbio gusto.
Il risultato di questo mescolone senza pietà è una pellicola che non sa di carne ne pesce: se in un momento ci sembra di assistere ad un film profondo capace di analizzare i problemi della società americana oggi (si veda il dialogo a casa dei genitori di Ben, di Carole con il russo) il momento dopo si vedono facce avvolte da una sostanza gelatinosa schifosa, inseguimenti automobilistici ai limiti di “Driven” con Stallone (qui la mano dei Wachowski è pesante!) e soprattutto gente che vomita in faccia o nelle tazze ad altra gente.
Vomita?
Eh si!Vomita per diffondere il virus, logico no?
E con questo mi collego all’ ultima e più importante questione che voglio affrontare: il significato che le due pellicole vogliono trasmetterci e il modo in cui lo fanno.
Si sa bene che la pellicola di Don Siegel è stata portata ad esempio da molti come una delle migliori metafore sulla condizione dell’ America degli anni ’50: una nazione impaurita dal comunismo Russo (alla proposta di un ultracorpato di un mondo tranquillo, senza problemi, Milles risponde “Ma dove tutti sono uguali, povera umanità!”) e dalla caccia alle streghe di Mac Carthy (a tal proposito è significativa la vera e propria caccia che subiscono i due protagonisti visti come diversi in un mondo che deve allinearsi ad un solo pensiero).
Ma se lasciamo da parte questa metafora che Don Siegel e Kevin Mc Carthy non hanno mai voluto confermare ci ritroviamo davanti ad un secondo piano che parla della naturale diffidenza che l’ uomo prova verso il prossimo.
Una diffidenza che, proprio come l’ invasione degli ultracorpi, si allarga a macchia d’ olio: non ci si fida della propria famiglia (il bambino verso la madre), non ci si fida della società (la donna che accusa tutti sulla strada) e infine non ci si fida nemmeno delle istituzioni (Milles nel finale).
Una pellicola quindi che può essere analizzata su più livelli e che senza alcun dubbio riesce a non essere banale nei suoi messaggi più o meno impliciti.
Venendo a “Invasion” ciò che più mi ha colpito è stata l’ esagerazione e la voglia di rendere tutto molto più esplicito.
Sull’ esagerazione mi riferisco a due scene riprese direttamente dall’ originale: in una si vede Becky scendere in strada insieme a Milles con una faccia impassibile per provare a ingannare gli alieni ma un cane quasi preso sotto da una macchina le fa perdere tutta la sua aura di neutralità facendola scoprire; l’ altra è la fuga finale dagli ultracorpati che avviene nell’ originale di corsa attraverso le montagne e infine nascondendosi in una miniera.
In “Invasion” queste due scene (come molte altre) sono riprese e “attualizzate”: la perdita di neutralità di una donna che finge avviene di fronte al suicidio di una coppia che si butta giu da un palazzo mentre la fuga finale è un infinito inseguimento stradale che alla lunga stanca e si mostra decisamente ridicolo per tutta l’ irrealtà che lo definisce (provate a guardare il trailer e ve ne renderete conto! Stupidi Wachowski..).
È proprio questa voglia di esagerare, di rendere tutto molto attuale e molto cool ciò che infastidisce di più insieme a quel messaggio sulla diffidenza umana e sulla critica alla società americana: la pellicola deve rendere tutto esplicito (si veda il discorso, peraltro abbastanza riuscito, del Russo alla bella Carole sulla visione a senso unico di un’ America con i paraocchi) e molta della forza del messaggio originale si perde in ridicole scene buone solo a colpire il giovane spettatore.
Il fatto che gli infetti siano molto più riconoscibili rispetto all’ originale (dove si aveva sempre il dubbio che qualcuno stesse dall’ altra parte) e un finalone tutto americano (davvero offensivo nei confronti dell’ originale) non fanno altro che confermare tutto ciò!
Un mio amico che ha visto la pellicola insieme a me ha risposto a questa mia accusa facendomi notare come, in una società senza tabù, tutto è reso estremamente esplicito per raggiungere più persone possibili.
Sono più che d’ accordo.
Ci ho pensato e ripensato.
E sinceramente non ho trovato nessun motivo valido per consigliarvi questa pellicola.

L' INVASIONE DEGLI ULTRACORPI
REGIA: Don Siegel
ANNO: 1956
VOTO: 9

INVASION
REGIA: Oliver Hirschbiegel
ANNO: 2007
VOTO: 5

GENERE: Fantascienza
CONSIGLIATI A CHI: vuole vedere un classico della fantascienza e il suo terzo remake per rimanere delusi.
QUANTO è PRIVA DI IDEE HOLLYWOOD PER PRODURRE CERTE COSE: 10

venerdì 12 ottobre 2007

THE 11TH HOUR- L’ UNDICESIMA ORA



Siedo alla finestra della mia camera e osservo.
Vedo alberi riposare pigramente su colline tondeggianti.
Vedo l’ erba alta ondeggiare al minimo soffio di vento.
Vedo un cagnolino correre felice nel campo di mais che fu a caccia di qualcosa che molto probabilmente non prenderà.
Vedo un uccellino posarsi sul tetto a pochi metri da me alla ricerca di qualche briciolina.
Vedo il sole adagiarsi tra le colline e lo osservo diventare di fuoco.
Vedo la natura con tutti i suoi colori, le sue sfumature, la sua vita.
La ammiro mentre penso che un giorno, forse, non potrò più goderne perché quell’ automobile sul fondo della valle sta passando su un autostrada costruita sopra di lei.
Penso alla fortuna che ho avuto a poterne godere fino ad ora e divento triste al pensiero di un ragazzo che un giorno, forse, non potrà più fermarsi in mezzo ad una vigneto sul pendio della collina ad osservare uno splendido tramonto.
Penso alla stupidità dell’ uomo moderno.
Alla sua crudeltà.
Incapaci di ricambiare tutto quello che la natura ci ha donato senza chiedere nulla in cambio.
Incapaci di comprendere ciò di cui siamo parte e da cui siamo nati.
Ripenso alle immagini che ieri passavano sullo schermo davanti ai miei occhi: intere foreste fatte a pezzi, pesci pescati e ributtati in mare senza le pinne, ghiacciai ridotti a laghetti insignificanti, uragani che distruggono città intere.
Ripenso alla voce di Di Caprio che ci avvisa del pericolo e non faccio altro che chiedermi quanto ci vorrà ancora per giungere a una piena consapevolezza.
“Non c’ è più tempo. Siamo all’ undicesima ora” ci avvisa Leonardo e io sono li a chiedermi perché mai nessuno fa qualcosa.
Perché mai nessuno si rende conto che, molto probabilmente, gli unici a subire le conseguenze di tanta cattiveria e ignoranza saremo noi.
Perché la natura saprà risollevarsi, rinascere in altro modo mentre noi diventeremo stupidi fossili che nessuno si preoccuperà di studiare e la natura ci dimenticherà in fretta non avendo noi goduto neanche un millesimo di tutta questa grandiosa e meravigliosa storia naturale.
Vedo gente applaudire meno convinta del solito di fronte ad un documentario facilmente criticabile, essenzialmente un collage di immagini già viste (seppur meravigliose) e pareri di uomini di cultura illustri (tra cui Stephen Hawking) e mi chiedo se loro stanno facendo qualcosa.
Mi chiedo se riusciremo a salvarci o se riusciremo a portare con noi nella tomba anche la natura.
Io non voglio vivere su Metaluna.
E mentre il mio sguardo si perde ancora una volta tra le colline mi chiedo se un giorno mio figlio potrà godere di tutto ciò.
Sinceramente preoccupato.

Qui sotto potete trovare un rap ambientale di quel matto di Charris Ford che ieri era a Torino per cinemambiente essendo lui uno degli inventori del motore che funziona ad olio di patatine fritte e che ha girato il piccolo documentario che ha introdotto "The 11th Hour" ed il trailer di quest' ultimo (assolutamente da vedere!).

Per il blogactionday, una giornata in cui tutti i blogger compreso il tuo potranno unirsi per trattare un unica tematica come l' ambiente cliccate qui.
Per maggiori informazioni su Cinemambiente, il festival cinematografico gratuito sull’ ambiente in corso in questi giorni a Torino cliccate qui.
Per informazioni sulle iniziative dei produttori del simpatico minidocumentario sulla possibilità di creare automobili che vadano ad olio di patatine fritte di Howard Donner con protagonista Charris Ford e Daryl Hannah cliccate qui.
Per informazioni su Greencross Italia (associazione ambientale fondata da Mickhail Gorbaciov) cliccate qui.

REGIA: Leonardo Di Caprio
ANNO: 2007
GENERE: Documentario
VOTO: 8 (perché l’ impegno c’ è e si vede)
CONSIGLIATO A CHI: Vuole vedere a che livello di degrado siamo arrivati ed iniziare a preoccuparsi.
QUANTO SIAMO NELLA MERDA FINO AL COLLO: 10


giovedì 11 ottobre 2007

THE SPACE CHILDREN- I FIGLI DELLO SPAZIO


Siamo nel 1958.
Jack Arnold reduce da almeno 3 successi straordinari (“Il mostro della Laguna Nera”, “Tarantola” e il fantastico “Radiazioni Bx distruzione uomo”) si butta su una storia di Tom Filer per la sua ultima collaborazione con il produttore William Alland.
Dopo aver visitato il mondo dell’ alieno in Terra (il mostro della laguna) per ben due volte, aver assistito allo sbarco di alieni in difficoltà scambiati per minacciosi invasori (“Destinazione Terra”), essere andato nello spazio per salvare i metaluniani attaccati da Zargon (“Cittadino dello spazio”), aver combattuto contro un insetto reso mostruoso dall’ uomo (“Tarantola”), questa volta il regista (e i protagonisti di questo film) se la dovrà vedere con un essere venuto dallo spazio la cui forma ormai non ha più nulla a che fare con uomini o animali.
La storia ha inizio per l’ ennesima volta (dopo “Destinazione Terra” e “Tarantola”) nel deserto ma questa volta ci si trova al limitare di esso con il mare.
I protagonisti sono, come si comprende fin dal titolo e dalle prime immagini, i bambini le cui facce appaiono una dopo l’ altra su uno sfondo di luminose stelle.
In poche parole i genitori di Bill e Ken si sono appena trasferiti in una sorta di campeggio provvisorio, luogo dove il padre (un passabile Adam Williams) ha trovato un nuovo impiego come collaboratore per la creazione e il lancio di un satellite- bomba che, una volta nello spazio, potrà essere usato come arma di difesa- attacco contro ogni Paese del mondo.
I ragazzi arrivati sul posto notano subito una luce e un suono provenire dallo spazio e insieme agli altri bambini conosciuti da poco si recano in una grotta nascosta nella quale trovano una sorta di uovo- cervello illuminato che sembra ipnotizzarli tutti.
Da questo momento in poi i ragazzini tenteranno in tutti i modi di difendere la “creatura” dotata di strani poteri in grado di fermare chiunque voglia distruggerla e capace, forse, di bloccare persino il lancio del missile.
Ho sempre affermato nelle mie recensioni come le pellicole di Arnold (e quasi tutte quelle di fantascienza di quegli anni con piacevoli eccezioni) siano destinate prevalentemente ad un pubblico di ragazzini.
In questo caso il regista fece ancora di più: creò un film per SOLI adolescenti dove i protagonisti sarebbero stati loro stessi, idea non certo innovativa (basti vedere “Gli invasori spaziali” del 1953) ma senza dubbio sviluppata in modo personale.
Se negli altri film di questo genere i ragazzini venivano visti come eroi in grado di comprendere il pericolo ben prima degli adulti in modo da poterli avvertire, questa volta il tutto è sviluppato più finemente.
Innanzitutto l’ alieno: tralasciando la sua forma che ormai non ha più nessun collegamento con quella umana (ma già si era visto qualcosa di questo genere ne “La meteora infernale” di John Sherwood basato su una storia dello stesso Arnold e nel contemporaneo “The Blob”), esso appare inizialmente come una creatura crudele capace di schiavizzare dei bambini per raggiungere i suoi scopi e persino di uccidere uno dei genitori per impedire che il piano vada a monte. Ma se si toglie un po’ di polvere dalla superficie si può vedere come il rapporto alieno- umani non sia così semplice: i bambini sono senza dubbio schiavi ma sembrano esserlo volontariamente in una sorta di rivincita che vuol far comprendere agli adulti la miopia e ottusità nei loro confronti mentre l’ alieno non è così crudele come sembra in quanto le sue azioni sono dettate dalla necessità di proteggere gli adolescenti da un mondo che non li comprende; persino l’ uccisione di un genitore (non a caso l’ ubriacone violento Joe Gamble padre del ragazzo più spaventato dalla cosa scesa dallo spazio) non viene vista dal figlio come una grave perdita che sprona la madre a non piangere per un essere che non ha mai saputo dare la protezione che doveva alla sua famiglia.
In secondo luogo il rapporto che i ragazzini hanno con i loro genitori: se inizialmente essi sono tutti dei bravi bambini obbedienti, dalla venuta della creatura si trasformano e alle insistenti pressioni di Anne (la bella ma inutile Peggy Webber) che si chiede cosa sia successo, il figlio Bill le dice di sedersi insieme al marito sul letto in modo che lui e il fratello possano spiegargli tutto. Un inversione di ruoli quindi, che simboleggia la maturità dei ragazzini nei confronti di adulti che giocano ancora a fare le guerre come se fossero piccoli bambini dispettosi e che non si rendono nemmeno conto di quel che fanno come dimostrato dal dottore presente nel campo che, in una sorta di giustificazione per il lancio del missile di fronte alla creatura, dice che lui ha "lavorato una vita per tenere al sicuro i bambini" senza rendersi conto che quella bomba rappresenta un pericolo per migliaia di altre vite umane.
Insomma una pellicola particolare: se da un lato Jack Arnold riesce bene nell’ intento di farci comprendere il parallelo tra infanzia e alienità (in fondo i ragazzi non sono altro che alieni incompresi in questo mondo troppo adulto), dall’ altro il regista non ha niente tra le mani per spaventare o almeno tenere in tensione lo spettatore come nelle altre sue pellicole anche se il suo stile registico e i suoi dialoghi filosofo-scientifici rimangono.
Il solito gioco del tenere nascosta la creatura fino agli ultimi minuti per un climax conclusivo ben riuscito questa volta non può funzionare perché non esiste uno scontro finale e Arnold cerca di giocarsi le carte migliori all’ inizio, fino alla rivelazione dell’ alieno ai genitori.
Il seguito appare un po’ troppo moscio e il finale, invece che puntare in alto, sembra quasi voler essere un messaggio sussurrato, stanco, proprio come Arnold che, dopo “Ricerche diaboliche” dello stesso anno, lascerà definitivamente la regia di film fantascientifici per dedicarsi essenzialmente alla tv e a qualche film di poco successo.
REGIA: Jack Arnold
ANNO: 1958
GENERE: Fantascienza
VOTO: 6
CONSIGLIATO A CHI: Vuole proprio vedersi tutto Jack Arnold altrimenti passate ad altro.
QUANTO è DI PROFILO PIù BASSO RISPETTO ALLE ALTRE PELLICOLE DI ARNOLD: 8

martedì 9 ottobre 2007

THE GREAT MOUSE DETECTIVE- BASIL L' INVESTIGATOPO


No.
Non sono impazzito.
Semplicemente ho deciso che a 21 anni suonati non potevo non aver visto ancora moltissimi dei classici Disney.
Quelli che quando parli con gli amici ti dicono: “Ma vaaa figurati se non hai visto Biancaneve almeno una volta!”
Quelli che quando vedi “Shrek terzo” devi chiedere a quello a fianco chi è Cenerentola perché non la sai riconoscere.
Quelli che quando senti una canzoncina stupida pensi a dove l’ hai già sentita e poi ti accorgi che era in “Pinocchio” ma tu non hai mai visto “Pinocchio”.
E io ogni volta a spiegare che da bambino non avevo le cassette Disney come tutti i bambini, guardavo le registrazioni di Ken Shiro, dell’ Uomo Tigre, di Holly e Benji, di Alf (il cartone animato non il film) oltre alle innumerevoli repliche di tutti i film d’ azione possibili e immaginabili (Schwarzenegger, Stallone, Van Damme, Seagal e compagnia bella).
E no: non sono cresciuto male come qualcuno ogni volta mi dice, non sono diventato un ragazzo che pensa di far esplodere le persone toccando i suoi punti di pressione segreti, non ho mai provato la mossa dell’ Uomo Tigre e non ho mai creduto di essere un Cyborg venuto dal futuro per annientare l’ umanità.
Semplicemente ho deciso che era ora di guardare i classici Disney, per curiosità, per cultura, per poter rispondere finalmente a tuti che si, anch’ io l’ ho visto “Basil l’ investigatopo”.
Se vi state chiedendo perché mai sono partito da un film tra i meno conosciuti dell’ intera produzione vi dico subito che l’ idea di un topo investigatore che vive sotto la casa di Sherlock Holmes mi attirava assai e il fatto che le sequenze canterine fossero molt inferiori rispetto al solito ha aiutato non poco.
La storia, come molte delle classiche fiabe Disney, riprende personaggi o personalità famose e li trasporta su animali antropomorfizzati: in questo caso Basil è lo Sherlock della situazione, David Topson è Watson e il malvagio Rattigan altro non è che l’ alter ego del genio del male Moriarty.
Ovviamente, se qualcuno non l’ avesse capito, si parla di topi.
In breve “Basil l’ investigatopo” è il racconto della prima missione insieme per Basil e Topson, alla ricerca del padre della piccola Olivia, rapito da Vampirello (un pipistrello ovviamente!) per conto di Rattigan che ha intenzione di conquistare il potere sul mondo (dei topi) eliminando la regina (dei topi) Moustarda.
Ci sono due cose che mi hanno davvero colpito in tutto questo ambaradan di topi (e tre!) e investigatori.
Una è senza dubbio la grande capacità di imbastire una storia molto semplice capace di colpire anche lo spettatore adulto con tutti i suoi riferimenti ad un mondo (quello di Sherlock Holmes) che viene dipinto con gran dovizia di particolari senza lasciare nulla al caso. Basil prende il nome dall’ attore Basil Rathbone (interprete di ben 14 film nei panni dell’ investigatore più famoso al mondo e qui doppiatore del protagonista), il personaggio della regina è ricalcato sull’ immagine che noi tutti abbiamo di una classica regina inglese dell’ ‘800 mentre il malvagio Rattigan è, a mio parere, uno dei cattivoni meglio riusciti: oscuro, teatrale e molto ottocentesco senza dubbio richiama alla mente quel Vincent Price che gli donò la voce e che definì Rattigan il personaggio da lui interpretato preferito.
L’ altra è la meravigliosa grafica. In un mondo in cui la Dreamworks e la Disney fanno a gara per produrre cartoni animati che assomiglino sempre più alla realtà, è una gioia per gli occhi vedere questi disegni in 2d passarti davanti agli occhi in tutti i loro meravigliosi particolari (ditemi se lo studio di Basil non è fantastico!) e il finale con la lotta tra gli ingranaggi del Big Ben realizzato quasi totalmente in computer graphic (una delle prime scene realizzate dalla Disney con questa innovativa tecnica) è semplicemente superlativo.
Curioso il fatto che la pellicola sia uscita inizialmente nel 1986 con il titolo di “Basil Of Baker Street” ma non abbia ottenuto grande successo così la casa di produzione decise di rimetterlo in commercio nel 1992 come “The Great Mouse Detective” conquistando grandi consensi.
Insomma “Basil l’ investigatopo” prodotto nel periodo di crisi più nera della Disney degli anni ’80 (in quel periodo altri film come “Alla ricerca della valle incantata” o “Asterix” cominciarono ad essere seri concorrenti nel campo dell’ animazione) dimostra di essere ancora un gran prodotto a distanza di più di 20 anni dalla sua uscita e riesce nell’ obiettivo che molti film d’ animazione oggi hanno perso: essere un buon cartone animato per bambini, senza sfottò a vecchi personaggi e senza battute incomprensibili ad un pubblico infantile (tutt’ al più alcune possono essere meglio comprese da un adulto ma risulteranno comunque divertenti per un bimbo).
Sarà un discorso antiquato e tutto quello che volete ma di cartoni così, per quanto io ami Shrek e compagnia bella, ce ne vorrebbero ancora.
REGIA: Ron Clements, Burny Mattinson, David Michener, John Musker
ANNO: 1986
GENERE: Animazione
VOTO: 8
CONSIGLIATO A CHI: vuole vedere un classico Disney con alcuni momenti musicali in meno rispetto al solito
QUANTO SONO DIVERSI I CARTONI ANIMATI OGGI: 9

domenica 7 ottobre 2007

THE MONOLITH MONSTERS- LA METEORA INFERNALE


Davvero una gran bella sorpresa.
Avete presente quei film da cui non vi aspettate nulla e tutto ad un tratto vi ritrovate a pensare a quanto siete stati sciocchi a non avere avuto fiducia in loro prima?
Bene.
Questo è uno di quei film e per me è stato tutto quello che “Il quinto elemento” non è stato: una gran bella sorpresa (certo lo era stato anche il film di Besson, ma in negativo).
“La meteora infernale” nasce da una storia di Jack Arnold e Robert Fresco (come "Tarantola") nel 1957 (anno in cui Arnold girò il più famoso “Radiazioni bx distruzione uomo”) e viene portato sullo schermo da John Sherwood, suo assistente in molti altri film e regista nel 1956 del terzo episodio con protagonista il gillman (“Il terrore sul mondo”).
Il mio dubbio era nato appunto dalla regia di Sherwood: la sua prova non troppo brillante nel terzo seguito de “Il mostro della laguna nera” mi stava dissuadendo dalla visione di quello che si può considerare a tutti gli effetti parte dell’ opera di Jack Arnold.
E che parte!
Prima di “The Blob” e “I figli dello Spazio” (entrambi del 1958, il secondo firmato da Arnold), “La meteora infernale” mette in campo uno degli alieni più atipici mai apparsi sullo schermo fino a quel momento: un minerale.
No.
Non vi sto prendendo in giro.
E neanche Arnold voleva farlo.
Una meteora si avvicina alla telecamera dopo una veduta della Terra dallo spazio e si assiste a uno spettacolare impatto direttamente ripescato da quel gioiellino di “Destinazione Terra” (per il parere di Carpenter su questa immagine leggete fino alla fine la recensione!): così ha inizio la storia del minerale più minaccioso mai apparso sullo schermo.
Un uomo scende dalla sua vettura e mette una pietra nera sotto la ruota per non far indietreggiare l’ auto. Una volta esaminato il luogo Ben (un geologo della zona) raccoglie incuriosito il sasso nero usato come cuneo e lo porta in laboratorio per analizzarlo.
È l’ inizio dell’ invasione.
Nello studio una boccetta cade accidentalmente sulla pietra che inizia a fumare; il giorno seguente il collega di lavoro trova Ben ritto come un sasso (è il caso di dirlo) e inequivocabilmente morto mentre tutt’ attorno sono sparsi centinaia di piccole pietroline nere identiche a quella trovata dal malcapitato (chiedo perdono per le infinite ripetizioni!).
Entra in scena Dave interpretato dal buon Grant Williams (fresco del successo di “Radiazioni bx distruzione uomo”), anche lui geologo, che inizia ad esaminare la pietra dopo un altro caso simile a quello di Ben con protagonista una bambina e la sua famiglia.
La scoperta è tanto eccezionale quanto orribile: lo strano minerale a contatto con l’ acqua cresce a dismisura fino a formare veri e propri monoliti neri che, raggiunta un’ altezza impressionante, crollano a terra sbriciolandosi in migliaia di pezzi procurando la distruzione di tutto l’ ambiente circostante.
La spiegazione pseudo scientifica tipica dei film di Arnold non si fa attendere: il monolite assorbe il silicio dal terreno e con l’ acqua fermenta mentre la pietrificazione degli umani è dovuta anch’ essa all’ assorbimento del silice che, a quanto sembra, serve a mantenere la pelle umana flessibile (sarà davvero così? Chissà perché ho seri dubbi!).
Quel che accade di qui in poi è pura azione da sci-fi anni ‘50: mentre Dave scopre che l’ acqua salata può fermare la crescita del minerale un meteorologo annuncia in maniera quantomeno bizzarra (in uno dei rari momenti comici volontari nei film fantascientifici di Arnold) che di li a poco un violento temporale investirà l’ intera zona.
Come si salveranno i nostri eroi?
Questo non posso dirvelo ma vi assicuro che il finale del film mantiene le promesse, con un’ inondazione straordinaria e una tensione che riesce a mantenersi su livelli più che buoni.
Che dire?
Innanzitutto un applauso (e non solo uno se si considera il budget risibile di cui godette la pellicola) va agli effetti speciali; oltre alla sopraccitata inondazione finale, da notare è la crescita dei sassi ottenuta con un trucco tanto banale quanto geniale: uno zoom (usato anche nel contemporaneo “Radiazioni bx distruzione uomo”) e un piccolo movimento di camera bastano a farci apparire dei minuscoli modellini statici come degli spaventosi monoliti in grado di crescere a dismisura.
Da notare poi il grande trucco marmoreo degli attori utilizzato anche dal contemporaneo “Prigionieri dell’ eternità” e il deserto.
Già.
Sempre lui. Il deserto.
Ancora una volta protagonista di una pellicola di Arnold.
Quel deserto che ha visto atterrare gli alieni di “Destinazione Terra” e camminare sulla sua superficie la gigantesca tarantola questa volta è protagonista di una pellicola in cui una parte di esso (per quanto alieno, il monolite è comunque un minerale) si rivolta all’ uomo e al suo sfruttamento.
Un deserto che, come ci spiega Dave (e qui sembra davvero di sentir parlare Jack Arnold), “è miniera di cose misteriose” anche se “ci sono cose che ancora non abbiamo capito, ma dubito ci sia qualcosa di nuovo”.
Sarebbe facile ricondurre “La meteora infernale” al clima politico di quegli anni, paragonare la meteora alla minaccia incombente di una guerra fredda che sembra ormai pronta per scoppiare ma per questa volta voglio farne a meno: godetevi questo film in tutta la sua tensione, in tutti i suoi effetti speciali, in tutti i suoi interpreti più o meno macchiettistici e chiedetevi se un film come Tremors non deve a questa pellicola almeno la metà del suo successo.
Godetevelo perché John Sherwood morirà nel 1959 per una banalissima polmonite dopo una lunga carriera di aiuto regista e la direzione di soli 3 film incluso questo (gli altri due sono “Il terrore sul mondo” e “Il marchio del bruto”) mentre Arnold nel 1958 metterà la parola fine alla sua carriera nel mondo della fantascienza.
Godetevi l' inizio della pellicola, il trailer è irrecuperabile su internet, ma John Carpenter definì così l' impatto della meteora che vide per la prima volta in "Destinazione Terra" e che fu ripresa pari pari qui:
"La prima inquadratura che io ricordo è un campo lungo di un panorama desertico. La macchina da presa sta panoramicando orizzontalmente su una meteora che dal cielo precipita verso la Terra. La seconda inquadratura è della meteora che sta venendo dritta verso la telecamera ed esplode. Nel 1953 quella meteora uscì fuori dall schermo ed esplose sulla mia faccia. Abbandonai mia madre e schizzai fuori nel corridoio per la paura. Ma quella volta... io mi innamorai del cinema"
REGIA: John Sherwood
ANNO: 1957
GENERE: Fantascienza, Horror
VOTO: 7
CONSIGLIATO A CHI: vuol divertirsi davanti a un film di sci-fi senza troppe pretese.
QUANTO PUò ESSERE PARAGONATO A "TARANTOLA", ANCH’ ESSO SCRITTO DA ARNOLD: 9