martedì 29 dicembre 2015

QUER PASTICCIACCIO (BRUTTO) DE BRIAN W. ALDISS

Questa recensione è stata scritta il 28 settembre 2011 e rivista completamente il 29 dicembre 2015


Avete presente quei pasticci disegnati dai bimbi troppo piccoli pieni di righe, pastelli, pennarelli, macchie, buchi e caccole?
C’è un fico d’india immenso che ha conquistato la Terra.
Gli umani sono alti 35 cm.
I vulcani ipnotizzano gli esseri viventi e li mangiano.
Enormi vegetali viaggiano per lo spazio su ancor più grandi ragnatele.
Le piante sono tutte assassine.
La spiaggia è Terra di Nessuno.
Nella Terra del Crepuscolo un pesce gigante è il più grande saggio del mondo.
Esistono uomini pescatori collegati con una coda a palme imponenti.
I vegetali hanno forma di volatili.
La luna è piena d’ossigeno.
Le megatermiti sono amiche degli umani.
Ci sono fiori giganteschi che si uniscono e attraversano i mari per migrare.
I gatti vivono con le megatermiti in un tunnel sotto un castello in rovina.
È abbastanza per stimolare la vostra curiosità?
Sinceramente sono ancora un po’ stordito da questo “Il lungo meriggio della Terra”, Brian W. Aldiss ci è o ci fa?
E Asimov con tutta la sua psicostoria, i suoi imperi galattici, le sue città super evolute e i robot che fine ha fatto?
Tutto buttato nel cesso.
Tra 4 miliardi e mezzo d’anni (tanto ci impiegherà ancora il sole ad avvicinarsi alla sua fine) saremo solo inutili cacchette (quasi) senza cervello alte qualche pollice destinate a farci comandare da un fungo.
Che tristezza.
O no?
Mah.

PS: Al di là dei vari esseri giganteschi, enormi, imponenti ed immensi, il libro risente della sua originale pubblicazione in 5 puntate con diverse ripetizioni e altrettante contraddizioni da parte di Aldiss, che ci mette pure del suo con una prosa a dir poco discutibile e diversi interventi in prima persona per provare a spiegare ciò che sta raccontando.
La copertina dell'edizione in possesso è tra le più ignoranti e meno sensate che io abbia mai visto (e si che compro Urania): non centra assolutamente nulla con ciò che viene raccontato, ma proprio niente niente. NIENTE.

HOTHOUSE o THE LONG AFTERNOON OF EARTH- IL LUNGO MERIGGIO DELLA TERRA
ANNO:1962
AUTORE: Brian W. Aldiss
GENERE: Fantascienza
VOTO: 5

venerdì 18 dicembre 2015

FIGLI D'ARTE



Non penso sia semplice essere figlio d'arte.
Si è vero, le strade sono spalancate, conosci la gente giusta , il lancio nel mondo editoriale-musicale-filmografico è già praticamente fatto senza il minimo sforzo e il tuo primo libro-cd-film venderà comunque un sacco sull'onda della curiosità della gente, ma poi?
Quanto credete possa essere facile vivere da figlio di Bob Dylan, De Sica, Camus? Giudicati non in base alle proprie qualità come chiunque altro, ma rispetto alla bravura dei propri genitori e parenti che sono stati mostri sacri nel proprio campo, vincitori di tonnellate di premi che la stampa solitamente non confronta con nessuno per troppa inarrivabilità.
Epperò tu sei il figlio, vorrai mica evitarti un: “Il dono della scrittura evidentemente non si trasmette da padre a figlio”, “Negli anni '60 suo padre rivoluzionò la musica, oggi lui a malapena la comprende”, “Sarebbe un grande regista se si riuscisse a non pensare per un attimo a tutto ciò che fece suo padre nell'epoca del blablablablabla”.
In un mondo ideale anche questa recensione non inizierebbe con tutta questa premessa, si parlerebbe del romanzo di Joe Hill, autore trentacinquenne alle prese con la sua prima opera e della sua somiglianza con certe cose di Stephen King degli anni '80, anzi meglio, di Richard Bachman.
La scatola a forma di cuore non è un capolavoro, ma è il classico libro che si fa divorare in quattro giorni assillati dalla domanda che tutti i libri del genere dovrebbero inculcare nella testa di ogni lettore: come andrà a finire?
Si, i protagonisti sono macchiette (il Jude Ozzyosbournesco su tutti), la maledizione sa di un po' troppo sentita e anche sullo stile scorrevole a volte verrebbe voglia di discutere: manca di profondità, ma anche dell'asciuttezza necessaria a creare tensione (quella presente in Bachman per intenderci) e quindi?
E quindi il primo romanzo del figlio di Stephen King (eddai fatemelo dire almeno una volta!) è semplicemente e solamente uno scritto sufficiente, niente di memorabile, ma neanche qualcosa per cui lo si possa accusare di chissà quali raccomandazioni.
D'altronde, se proprio vogliamo dirla tutta, il padre sfondò veramente il mercato solo dal secondo romanzo in poi e lo stupendo film di De Palma (Carrie) lo aiutò non poco a farsi conoscere dal grandissimo pubblico quindi aspettiamo fiduciosi, convinti che il mezzo flop di un Harry Potter con le corna sia solo un dimenticabile incidente di percorso.

HEART-SHAPED BOX- LA SCATOLA A FORMA DI CUORE
ANNO: 2007
AUTORE: Joe Hill
GENERE: Horror
VOTO: 6



lunedì 23 novembre 2015

IL GENIO, LE IDEE

Questa recensione è stata scritta il 16 aprile 2012 e completamente rivista il 23 novembre 2015


Non smetterò mai di declamare il mio odio per i racconti.
Certo nella mia (pur breve) carriera di lettore ci sono stati racconti che mi hanno affascinato, spaventato, emozionato e divertito, ma un libro di racconti, in particolare una raccolta assolutamente eterogenea di questi (ovvero non legati da un filo conduttore), mi ha sempre lasciato un po’ con l’amaro in bocca.
Storie bellissime bruciate in quattro pagine, trame ridicole non adatte ad un romanzo riciclate malamente per riempire poco spazio, avventure inutili usate da tappabuchi.
E così pian piano le raccolte presenti in libreria, comprate perché ritenute assolutamente straordinarie o semplicemente scritte da un autore amato, hanno cominciato ad assumere la medesima funzione delle avventure inutili. Non ho voglia di scervellarmi sul romanzo da 600 pagine che sto leggendo? Racconto. Sono in macchina e ho cinque minuti liberi in cui aspetto qualcuno? Racconto. Ho appena finito un romanzo, non ho ancora stranamente sonno e non sono in vena di iniziarne un altro all’una di notte? Racconto.
La mia libreria di Anobii (il social più morto che vivo che comunque mi piace sempre più di tutte le altre vaccate del momento) dice che Sessanta racconti di Dino Buzzati l’ho iniziato il 6 gennaio e terminato a marzo inoltrato: 3 mesi di lettura a spizzichi e bocconi per un totale di 500 e passa pagine sono tanti, se ne renderebbe conto anche il gorilla del Crodino, ma non sono troppi se si considera che il libro in questione raccoglie insieme una quantità folle di capolavori e semicapolavori che meriterebbero di esser letti nell’arco di una vita.
Perché si, Sessanta racconti diventa oggi (ma molto probabilmente lo era già diventato il 6 gennaio con la lettura de “I sette messaggeri”) la mia raccolta preferita e uno dei libri più belli che io abbia mai letto.
Il libro di Buzzati (summa da lui composta di altre tre raccolte più un’altra ventina di scritti) è sorpresa, spavento, meraviglia, terrore, fascino, stile, idee, idee, idee.
Se un buon scrittore di fantascienza (lasciam perdere i mediocri) avesse oggi la metà delle idee e dello stile di Buzzati (il libro è del 1958, ci tengo a dirlo) sarebbe considerato un genio senza se e senza ma.
Non voglio star qui a elencare racconti su racconti su racconti perché molto probabilmente finirei per citarne 57-58 su 60 se non tutti quanti, ma una semplice sbirciatina al primo (I sette messaggeri) e all’ultimo (La corazzata Tod) dovrebbero bastare ad un lettore medio di fantasy, fantascienza, Poe, Lovecraft ed affini a leccarsi le dita fino a consumarsele, altro che Fonzies.
Sessanta racconti è un capolavoro.
E io amo Dino Buzzati.
 
SESSANTA RACCONTI
ANNO: 1958
AUTORE: Dino Buzzati
GENERE: Racconti
VOTO: 10
 

giovedì 12 novembre 2015

GIOCHIAMO A CHI CE L'HA PIÙ LUNGO


 
Nel 1990 R.A. Salvatore, l'autore statunitense de il Dilemma di Drizzt, aveva 31 anni e scriveva come un ragazzino di 16 che non si è dimenticato dei battibecchi con gli amichetti della sua infanzia.
GIANFILIPPO: La mia mamma fa un lavoro bellissimo!
SALVATORE: La mia uno ancora più bello.
GIANFILIPPO: La mia lavora alla NASA.
SALVATORE: La mia fa l'astronauta.
GIANFILIPPO: Allora la mia è andata su Marte.
SALVATORE: La mia ha visto gli alieni.
GIANFILIPPO: La mia li ha visti due volte e ci ha anche parlato.
SALVATORE (tutto rosso in viso e arrabbiatissimo): Allora la mia ci ha parlato e poi ne ha uccisi 4 e poi con il suo cannone spaziale ha distrutto tutto il pianeta ed è tornata volando senza l'astronave perché lei vola e poi ha anche catturato un cane alieno e adesso lo tengo in casa ed è verde e viola e mangia il ferro!
GIANFILIPPO:...............
Ecco immaginatevi un uomo del genere a scrivere un fantasy.
Pensatelo seduto lì alla sua scrivania che si fa venire una, due, tre, cento, mille idee e decide che il suo dev'essere un fantasy assolutamente diverso da tutto e da tutti.
Gli elfi sono buoni e pacifici e vivono nei boschi?
Bene, io li faccio cattivi, scuri, infidi, traditori e sotterranei.
Gli elfi hanno una vista eccezionale?
I miei hanno gli infrarossi quindi vedono anche al buio e comunicano per lo più a gesti.
Gli elfi sono eccellenti combattenti?
I miei sono i migliori tra i migliori, temutissimi da tutti e il mio protagonista è il non plus ultra degli Elfi Oscuri, nessuno può sconfiggere le sue eccezionali scimitarre (e io vi tedierò con le loro descrizioni imbarazzanti per tutta la durata del libro) e ha gli occhi color lavanda!
Si, COLOR LAVANDA! E adesso provate a scrivere qualcosa di meglio!
Il dilemma di Drizzt è il fantasy per eccellenza, come tutti quelli che non apprezzano il genere senza averlo mai letto se lo immaginano e come ogni appassionato di elfi, orchi, maghi e nani che ami la bella scrittura teme che possa essere: grandi idee (talvolta al limite dell'assurdo) gettate in cespugli di ortiche pieni di cacche di cane.
Il primo libro della Trilogia degli Elfi Oscuri (un'altra trilogia iniziata, voglio morire...) è talmente denso di particolari, nuove razze, nuovi mondi e storie parallele appena accennate che nelle prime 50 pagine viene davvero voglia di lanciarlo in quei cespugli, frastornato dall'incapacità di comprendere tre parole su quattro di quel che viene raccontato.
La vicenda comincia ad essere davvero chiara intorno a pagina 60 e nel giro di altre 40 pagine si è già arrivati a comprendere il finale-non finale di questa prima parte, cosa assolutamente deprecabile per qualsiasi genere ma a cui gli amanti di Brooks, Goodkind, Jordan & co. dovrebbero essere avvezzi.
Tra l'illuminazione e il finale rimangono un 200 pagine di battaglie descritte in malo modo, ripetizioni disturbanti (tanto per dire, il nome Zak viene ripetuto 20 volte in due pagine) e tanta tanta fantasia che permette al romanzo di arrivare ad una risicata sufficienza, o forse no.
Certo, se a sentire le altre recensioni questo è il migliore del lotto c'è da mettersi le mani nei capelli.
La speranza è che Salvatore (autore tra il '90 e oggi di un'altra cinquantina di libri ambientati più o meno nello stesso universo fantastico) abbia imparato qualcosa negli anni e si sa, chi vive sperando, muore nelle ortiche.

HOMELAND
ANNO: 1990
AUTORE: R.A. Salvatore
GENERE: Fantasy
VOTO: 5+

PS:  Rivedendo la copertina in questo momento mi dovrei fare due domande sulla mia salute mentale il giorno in cui decisi di iniziarlo...

martedì 27 ottobre 2015

SULLA (PRESUNTA) FORZA DEL CAMBIAMENTO

 
Quando a 16 anni mi avvicinai lentamente al rock degli anni '90 mi colpirono due gruppi in particolare: Oasis e Blur.
Non che fosse una cosa strana, all'epoca il mondo, l'Italia, la provincia si divideva (abbastanza assurdamente a pensarci ora) tra i fan dei fratelli Gallagher e quelli di Damon Albarn e Co. (sisi Graham Coxon è importante e blablabla, chissenefrega, un giorno ne parleremo).
Lo dico subito: io parteggiavo per i Blur.
Mi sembravano più freschi e innovativi e, al di là delle varie scopiazzature dei Gallagher (all'epoca era un miracolo se conoscevo i Beatles), mi sembrava soprattutto che Damon Albarn avesse il coraggio di cambiare.
Insomma, per quanto non ne capissi veramente un cazzo, 13 pareva un album di un gruppo completamente diverso da quello di The Great Escape (che all'epoca adoravo) e in Think Tank il mutamento era ancora più accentuato.
Amavo i gruppi che non si ripetevano mai (quel pazzo di Neil Young è ancora oggi uno dei miei idoli) e gli Oasis erano l'esatto opposto.
Ascoltato il primo incredibile Definitely Maybe mi sembrava di sentire sempre le stesse 10-12 canzoni: voce strascicata, chitarroni, ballatoni...due palle che in Be Here Now duravano più di 70 minuti, decisamente troppo.
Poi crebbi (ah il passato remoto che torna a galla quando leggi autori toscani...), la faida Blur-Oasis si spense abbastanza velocemente così come era stata montata dalla stampa britannica e io cominciai ad ascoltare tutt'altro, fregandomene altamente dello scioglimento o quasi di entrambi i gruppi, ma sempre attento a chi riusciva a non ripetersi.
Oggi, passati più di 10 anni, mi ritrovo a sentire per radio o nei miei raccoltoni di mp3 qualche canzone di Blur e Oasis e, pur con fastidio, devo ammettere che i classici degli Oasis sono invecchiati meglio di quelli dei Blur.
Si, il cambiamento, si, il coraggio di affrontare nuove sfide e la forza di ripresentarsi con un nuovo album in un'epoca che non è più la loro (l'ultimo The Magic Whip datato aprile 2015), ma Wonderwall rimarrà un classico senza tempo mentre Beetlebum può essere solo una canzone figlia degli anni '90.
Tutto questo sproloquio musicale-nostalgico per dire cosa?
Che forse Fabio Genovesi qualche limite come scrittore ce l'ha.
I suoi personaggi dalla parlata fin troppo semplice (in Esche vive era Fiorenzo, qui è Mario), quelli troppo attaccati al Rock (ancora Fiorenzo confrontato a Nello), quelli che finita l'università hanno perso completamente la bussola (là Tiziana, qui Renato) e quelli che, nonostante tutto l'autocontrollo imposto, vengono presi da passioni troppo forti (nuovamente Tiziana confrontata a Roberta). Gli incipit nostalgici ambientati in un passato che non è più e i finali non finali con i personaggi lasciati a correre da soli.
Ma io non ho più 16 anni e se tu scrittore hai uno stile immutato che ti permette di scrivere una nuova storia dove, cambiando l'ordine degli addendi, il risultato fantastico non cambia, beh, a me piaci comunque.
Basta che alla prossima non mi presenti un Be Here Now.

VERSILIA ROCK CITY
ANNO: 2008
AUTORE: Fabio Genovesi
GENERE: Romanzo di formazione (senza adolescenti)
VOTO: 8,5


martedì 6 ottobre 2015

SCIENTIFICITÀ E UMORISMO DI MERDA



Ho visto qualsiasi cazzata nei film di fantascienza.
Dagli alieni cattivi a quelli buoni, dagli asteroidi che vengono fatti saltare per aria da personaggi eroici a quelli che mettono finalmente fine alla vita sulla Terra, dai cloni alle navicelle impazzite, dai viaggi nel tempo a quelli nello spazio oltre la velocità della luce, dagli alieni che cambiano sesso a quelli che cambiano forma e blablablabla.
Potrei andare avanti per ore ad annoiarvi di vaccate fantascientifiche che non stanno né in cielo né in Terra, di idee assurde che nessuna persona sana di mente avrebbe partorito e a cui comunque sono stato dietro, sforzandomi di calarmi nell'irrealtà della situazione pur di gustarmi quel film (o quel libro).
Non ho mai fatto caso più di tanto alla provata scientificità di una vicenda perché per me non è quella a rendere importante una storia di fantascienza. Per quale motivo avrebbero aggiunto il suffisso fanta? Dove sta la fantasia in un libro di Arthur C. Clarke in cui ad ogni minimo spostamento nello spazio-tempo ci si affanna a spiegare come sia potuto scientificamente accadere? E soprattutto: a cosa serve la sospensione dell'incredulità?
Date le premesse di cui sopra, The Martian non avrebbe dovuto piacermi.
E invece.
E invece mi ha fatto letteralmente cagare.
Presentato come uno dei film fantascientifici più rigorosamente scientifici degli ultimi anni, con budget faraonico, regista delle grandi occasioni (nonostante Scott sia bollito da troppi anni a questa parte e chi non ci crede si guardi Exodus- Dei e Re e stia zitto per sempre) e cast di tutto rispetto, The Martian parte subito con il botto con una scena iniziale che fa davvero sperare per il meglio.
C'è adrenalina, c'è una grande fotografia e una scena vagamente confusa in cui si capisce ben poco di cosa sta esattamente accadendo a chi, ma è tutto voluto. Dopo la partenza della navicella da Marte (siamo nei primissimi minuti) la vicenda comincia davvero a delinearsi e, incredibile a dirsi, si cominciano a vedere le prime crepe: i personaggi sulla Terra.
Non c'è uomo non astronauta in questo film di terra rossa e patate coltivate in modo biologico (ci arriveremo) che non vi sembrerà un'idiota o una macchietta: c'è il supermegacapo della Nasa col tono profondo di voce che decide tutto lui, ma si fa mettere i piedi in testa da chiunque, c'è Boromir che per una volta non muore perché proprio non gli è possibile morire mentre non fa nulla per tutto il film, c'è un giappu-americano ciccione che dà sempre i tempi di consegna del suo lavoro come se fosse un italiano, viene quindi ripreso dal capo e si corregge dicendo che ce la farà anche nella metà della metà del tempo perché tanto evidentemente ha licenziato gli italiani e ha assunto dei cinesi che lavorano giorno e notte, c'è una donna bionda che sta al computer e nota cose sugli schermi (solo lei in mezzo a centinaia di altri subumani di cui si vedono solo i capelli) e un nero a cui è riuscito bene il ruolo dello schiavo un paio d'anni fa e non si sa come si è ritrovato qui a fare il direttore della missione su Marte che però, ancora troppo preso dal ruolo dello schiavo, si diverte ad avere illuminazioni e scarabocchiare quadri del pianeta rosso che trova in giro per gli uffici.













E L'Oscar per chi sta meglio seduto con la bocca aperta va a....

E poi c'è lui: il nero simpatico.
Quello che se fossimo stati negli anni '80 di sicuro ci trovavi Eddie Murphy a ridere come un semo, ma siccome siamo nel 2015 e ai neri simpatici nei film non ci crede più neanche Eddy Murphy stesso, ci hanno messo uno qualsiasi di cui non voglio neanche andare a vedere il nome, lo chiameremo nero simpatico.
Si da il caso che da qualche anno a questa parte vadano di moda i nerd, non che abbia qualcosa in contrario per carità, io lo sono fin troppo, ma la cosa sembra ormai un po' sfuggita di mano: dalla moda alle serie tv tutto è simpaticamente ed insopportabilmente nerd.
Quindi il nero simpatico è anche nerd, ma essendo un nero simpatico è anche strafatto (di caffeina o altro, non lo sapremo mai con esattezza) e alla prima occasione lo vediamo entrare in scena come i peggiori personaggi dei più brutti film di fantascienza anni '90 che vi vengono in mente. Il nero simpatico dorme, inciampa, si mette al computer, beve il caffè, finisce il caffè, vuole altro caffè, inciampa di nuovo, cade, si mette al supercomputerone della Nasa che è proprio proprio grande grande e con un portatile risolve un problema incredibile che migliaia di Nasisti erano ormai con le cervella fuse a forza di ragionarci. Non contento va dal capo che ha la voce sempre più grossa, lo piglia per il culo e con un bicchiere vuoto gli dimostra la sua grande teoria a cui nessuno è arrivato nel giro di mesi e mesi. Ovviamente tutto in simpatia tra versi insopportabili e scenette che neanche Benny Hill all'ospizio.


Oh si è nerd, guardate quanto è nerd quando si mette in piedi sul letto con la scala per andare a scarabocchiare là in alto! ed è pure scientifico, lo scrive pure... SCIENCE!


Ma ritorniamo su Marte.
A milioni di chilometri di distanza e a un'ora circa dalle vicende del nero simpatico (che grazie a Dio compare solo dopo la prima metà del film), dove ci sarà sempre e solo Matt Damon, un botanico astronauta della Nasa.
Un botanico.
Matt Damon si estrae del metallo dalla pancia e si cuce, Matt Damon mangia e ragiona, Matt Damon disseppelisce vecchie navicelle spaziali, Matt Damon costruisce cose, Matt Damon guida, caga e dorme, Matt Damon ha le intuizioni e Matt Damon crea l'acqua. Poi non contento Matt Damon trova delle patate sottovuoto lasciate lì per il giorno del Ringraziamento (boh...), le pianta, ci mette della cacca umana liofilizzata come concime e le fa crescere.
Nel frattempo Matt Damon (lo chiameremo d'ora in poi McGyver perché mi sembra più giusto) ascolta dell'orrenda discomusic e non si perde mai d'animo nemmeno nelle sfighe più tremende, arrivando ad urlare per ben tre volte “God” quando qualcosa andrà talmente storto da esser ormai più di là che di qua.
Quindi Santo McGyver si riprende dalla batosta perché lui è un vero americano intelligente che risolve tutto con il suo megacervello (altro che computer Nasa e neri simpatici) e riesce, con una superdieta a base di caccapatate e medicine come condimento, ad andare avanti ancora per un'altra ora di film.
E gli astronauti ex compagni di Mc? No, non me li sono dimenticati.
Gli amici stronzi che lo hanno abbandonato per sbaglio hanno una parte fondamentale nel film e incredibilmente paiono anche i personaggi meglio scritti dell'intera sceneggiatura: parlano come persone dotate di un cervello, si muovono senza inciampare e ragionano quasi normalmente. Tolto un momento di follia generale in cui la canzone Starman di David Bowie dà il via ad una serie di scenette dementi riguardanti l'intero cast (mi vedo anche Scott divertito mentre si mangia le caccole nascondendosi dietro la camera mentre a me viene un ictus per la rabbia), i loro rimangono i momenti migliori di un film che fa della scientificità e dell'umorismo di merda il suo punto forte.
Non mancheranno poi:
  • personaggi dalla voce profonda che dicono guardando in camera: “a meno che qualcosa non vada storto”, cambio scena e disastro totale;
  • Computer con lo schermo spesso mezzo metro al servizio della Nasa;
  • Michael Peña, insopportabile anche se interpretasse un personaggio muto;
  • Cinesi con segreti militari che, dopo 10 secondi di indecisione, ostentano il loro “volemose bene” come neanche la Ferilli quando pubblicizza i divani;
  • finali con gente che vola come Iron Man.
The Martian vorrebbe mettere l'intelligenza umana e il ragionamento davanti a quel coraggio e quell'eroismo insano alla base di tutti i capisaldi della fantascienza degli anni '90 (Indipendence Day, tanto per dirne uno) e finisce per sembrare invece un Armageddon fuori tempo massimo, con situazioni e personaggi tipicamente Novantiani che fanno da sfondo a un McGyver dello spazio, come non se ne vedevano da S.O.S. Naufragio nello spazio del 1964.
E insomma si, The Martian mi ha fatto veramente cagare.
E il problema è che non ho nemmeno le patate da coltivare.
 




THE MARTIAN – SOPRAVVISSUTO_THE MARTIAN
REGIA: Ridley Scott
ANNO: 2015
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4,5

venerdì 25 settembre 2015

BUIO TOTALE

Questa recensione è stata scritta il 20 febbraio 2012 e rivista completamente il 25 settembre 2015


Chiariamo subito: le prime 150 pagine di Notturno sono tra le peggiori pirlate fantascientifiche che io abbia mai letto, visto e immaginato.
Non per colpa di chissà quale traduzione orripilante (vedi Urania), taglio becero (vedi Urania) o edizione con le pagine di carta igienica gialla che si staccano dalla copertina mentre leggi (vedi… Urania).
Semplicemente la prima lunga parte intitolata “Crepuscolo” è l’antilibro, “Il manuale per come non scrivere un libro di fantascienza”, il “Plan 9 From Outer Space” della narrativa fantascientifica.
Lasciate perdere la questione “racconto allungato” che lo riguarda (operazione già fin troppo discutibile), quel che non va in Notturno è qualcosa di molto più grave della famosa “buona idea sfruttata male”.
“Crepuscolo” (e in larga parte l’intero tomo) è a tutti gli effetti un concentrato di banali errori dilettantistici che ti potresti aspettare dal signor Pinco Pallo alle prese con il suo primo romanzo, non da due scrittori di fantascienza affermati di cui uno è considerato (a ragione) uno dei Padri fondatori.
Qui si parla di 150 pagine colme di personaggi insignificanti che parlano e si muovono come marionette scassate su di una scenografia fatta con la cartapesta e il vinavil stile “recita di Natale all’asilo” (nemmeno all’oratorio), una scenografia che talvolta traballa a tal punto da far venire serissimi dubbi al lettore sui suoi presunti scrittori.
Uomini, questi ultimi, che si premurano in una breve introduzione di chiarire che non verranno usate strane parole inventate per questo pianeta alieno, ma che, dopo poche pagine, si ritrovano a scrivere di un bar dove vengono serviti cocktail impronunciabili ispirati ai nomi dei cinque soli che illuminano questo immenso cartapestaio che è Kalgash.
Uomini che, con la finezza e la perizia di un bambino di 4 anni impegnato a disegnare il ritratto della propria mamma (solitamente un tondo con due puntini per gli occhi e una righetta per la bocca…aggiungiamoci un punto per il naso), costruiscono i personaggi dai nomi improbabili di un romanzo probabile solo (forse) sul piano scientifico.
Uno scritto che vorrebbe essere fantascientificamente sconvolgente ma che si mostra in realtà come un incrocio mal riuscito tra un apocalittico, un giallo (abbandonato a metà) e un post-apocalittico dove la tensione non ha un climax ascendente: semplicemente ad un certo punto esplode in picchi irreali per poi riaffondare al di sotto della Fossa delle Marianne.
“Crepuscolo” in particolare, ci tengo a ribadirlo, è una nota dolente fatta di banalità sconcertanti e svolte impreviste quanto l’uovo di Pasqua a Pasqua, ma l’intero romanzo soffre di un impianto narrativo costruito (perdonatemi l’eufemismo) con quel buco del corpo maschile che non è la narice o l’orecchio (e non parlo dell’ombelico).
Asimov e Silverberg saltano continuamente a piè pari interi passaggi di narrazione per poi farne un sunto mal riuscito nelle pagine successive e si ritrovano chissà come sul finale con un centinaio di cose da chiarire (Amgando?) che non verranno mai chiarite, con una decina di personaggi eliminati per pure esigenze di copione o semplicemente scomparsi, ma soprattutto con due protagonisti di cui non sanno che farsene.
Non anticiperò nulla, ma quale senso ha la svolta finale?
Non poteva qualche anima di buon cuore far presente al Basettone e a Silverberg che c’è una differenza sostanziale tra un finale aperto e un non finale tranciato a metà con la grazia di un’ascia male affilata?
Da cosa è dettata la scelta di Theremon e Siferra?
È come se domani, che ne so, Berlusconi diventasse segretario del Pd perché ha scoperto che i Comunisti non mangiano i bambini.
Vi sembra ragionevole?
Se si comprate Notturno, non ve ne pentirete.

PS: Evito di commentare gli ammiccamenti al lettore con la storia di un pianeta con un unico sole perché sono una brava persona e perché in fondo il paragrafo post apocalittico ambientato sull'autostrada qualche brivido me l'ha regalato.

NIGHTFALL- NOTTURNO
ANNO: 1990
AUTORE: I. Asimov, R. Silverberg
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4

mercoledì 9 settembre 2015

SUL FATTO DI ESSERE CARINI

 
"Carino" non è un bell'aggettivo.
Pensate alla ragazza carina della compagnia che avete conosciuto l'altra sera/l'altro anno/l'altro secolo, qualcuno se la ricorda? Si, vi ricordate quella figa e quella bruttissima, quella col cervello fino, quella col culo grosso e quell'altra che di grosse aveva solo le tette, ma quella carina chi era? Aveva un bel viso certo, ma un po' anonimo, aveva dei begli occhi, ma un po' slavati, non era grassa e non era neanche magra e si vestiva sicuramente meglio della tettona dalla scollatura imbarazzante, ma sembrava appena uscita dalla Benetton con il primo maglioncino tinta unita consigliato dalla commessa. Insomma era solo carina e ve la siete dimenticata.
Ora provate a ripensare all'ultima commedia romantica americana che avete visto al cinema. Vi siete fatti due mezze risate, avete pensato per un attimo "quello/a potrei essere io", avete immaginato la vostra vita come se viveste in un film Hollywoodiano quindi siete usciti dal cinema e avete detto: "Carino". E due giorni dopo ve lo siete scordato, trama, attori, titolo e persino quella battuta che vi era sembrata tanto carina.
Tra l'altro su Virgin Radio mentre tornavate c'era quella canzone che faceva..com'è che faceva? Ve la ricordavate fino a mezz'ora fa, eppure era così carina..boh, non importa, la ripasseranno.
Carina era la vostra compagna di classe alle superiori che ha trovato un ragazzo solo all'università (carino anche lui, sia chiaro).
Carina era quella maglietta che avete visto in quel negozio carino che ha chiuso due anni fa da cui non avete mai comprato nulla.
Carini erano quella cover, quelle scarpe, quell'auto, quella casa, quell'armadio, quel lenzuolo, quel gioco e tutto ciò che non avete mai avuto o comunque voluto davvero.
Insomma lo avrete capito: Mali minori è un libro carino.
Si lascia leggere con piacere e alcune delle brevissime storielle che lo compongono suscitano persino una risata, un'occhio lucido (ma non due) e un bel po' di immedesimazione che non fa mai male, ma è difficile spingersi oltre quel maledetto aggettivo di cui è pieno il mondo.
Carino, ed è presto dimenticato.

MALI MINORI
ANNO: 2014
AUTORE: Simone Lenzi
GENERE: Racconti
VOTO: 6,5

mercoledì 26 agosto 2015

4 PINNE ALL'ORIZZONTE: I MARSUINI

Questa recensione è stata scritta il 23 maggio 2012 e rivista completamente il 26 agosto 2015

 
A rileggere il retro di copertina mi chiedo perché.
Navi che spariscono, giornalisti curiosi, pirateria, turbolenze atmosferiche...niente che mi ispiri fiducia.
I leggendari mostri marini? Si forse quelli possono anche andare, sono attrazioni da baraccone fantascientifico per bambini di 10 anni certo, ma fingiamo che il mio acquisto sia dovuto a questi simpatici mostri e non al meraviglioso titolo italiano: Dove sparivano le navi. Ah beh…potevano chiamarlo direttamente I mostri marini. Seconda pagina, titolo originale: The Sea Beasts.
Ora capisco tutto.
Gli Urania si dividono solitamente in tre categorie:
- I capolavori dei grandi maestri della fantascienza: stampati, ristampati e riristampati in diverse collane Uranianane addirittura con qualche aggiornamento alle scandalose prime traduzioni. Rappresentano un 20% delle uscite;
- I romanzi con idee geniali messe su carta da veri e propri cani della fantascienza (lasciamo stare la Letteratura), incapaci di mettere in fila 10 parole senza dar vita a veri e propri disastri letterari, capaci di far impallidire anche il neosindaco Moccia. Siamo sul 30%.
- Il resto delle grandi scelte della redazione di Urania (non vantatevi quindi di averne trovato e letto uno, non sono una rarità per quanto sia bello collezionare spazzatura) sono i libri come Dove sparivano le navi. Non capolavori. Non grandi idee. Semplicemente libri assolutamente, completamente, immancabilmente da usare, per esser fini, mentre si legge un altro Urania seduti in quello stanzino contenente la doccia. Sul water, che poi magari pensate al bidè o a qualche altro strano aggeggio che avete in bagno.
Dove sparivano le navi è cellulosa rubata alle piante inutilmente, è fantascienza senza scienza, ma anche senza fanta, è romanzo senza alcuna idea, né senso di esistere.
Il romanzo (raccontino) di Bertram Chandler vede comparire nell’ordine balene incazzuse, marsuini (non state a lambiccarvi il cervello per 3 giorni come ho fatto io, sono delfini) intelligenti, giornaliste acidelle che per l’occasione predicano il “sei l’ultimo uomo sulla Terra, quindi ti voglio”, marinai con problemi familiari che si risolvono in rapporti con giornaliste acidelle, macchinisti pelati che tengono sotto schiavitù 5 persone per settimane con una sola pistola, predicatori rimbecilliti che credono nella rinascita di Dio attraverso i marsuini, orche ancor più incazzuse e assassine delle balene e, last but not least, uomini-scimmia intelligenti.
Se non vi basta per starne alla larga pensate ad un delfino con in testa un elmetto sormontato da una spada.
E non voglio dire altro.
Perché alla fantaschifezze non c’è mai fine, ma alla mia pazienza si.

THE SEA BEASTS- DOVE SPARIVANO LE NAVI
ANNO: 1971
AUTORE: A. Bertram Chandler
GENERE: Fantascienza
VOTO: 2

venerdì 7 agosto 2015

NON RICORDARSI


 
Una volta, intorno ai 15 anni, ricordo di aver chiesto a mio fratello (gran lettore all'epoca, ben prima che io iniziassi anche solo vagamente ad appassionarmi alla faccenda) se avesse letto un tale libro. Non ricordo più il titolo, forse si trattava di qualcosa di Benni che mi era stato assegnato come "compito estivo" o forse era tutt'altro, non saprei e sinceramente non ha niente a che fare con ciò di cui vorrei scrivere quindi anche chissenefrega, figurarsi se vado a perdere righe e righe di recensione per dirvi qual era il titolo, che poi mi pare non fosse neanche per le vacanze estive, forse era solo un romanzo che mi ero ritrovato per le mani e quindi gli avevo chiesto se per caso lui l'avesse letto e...stop! Torniamo a noi.
Quel che conta di tutta questa storiella (era un tomo gigante di King?) fu la risposta che mi diede: "Si l'ho letto, ma non ricordo un granchè.." Ecco forse mio fratello non usò la parola granchè, in effetti a pensarci non credo di aver mai sentito nessuno usare molto la parola "granchè” e mi pare strano anche metterla per iscritto dato che word me la sottolinea pure in rosso (ah ma ti sbagli word delle mie palle, sul dizionario esiste e io mi ci riempio la bocca e le pagine di granchè! Granchè granchè, granchè!), comunque il succo era quello, non si ricordava di un libro che aveva letto.
All'epoca mi chiesi come fosse possibile.
Leggevo a dir tanto 4-5 libri l'anno, vaccate horror se la scuola non mi costringeva a prendere in mano Calvino o Benni (magari era di Calvino che gli avevo chiesto..), e mi sembrò semplicemente assurdo che non si ricordasse qualcosa che aveva sicuramente comprato di sua spontanea volontà (perché prima che lui cominciasse a comprar libri ricordo solo il volume coi funghi velenosi in casa) e letto (sorvoliamo sul fatto che io ho letto una decima parte dei libri da me comprati e conoscendo abbastanza mio fratello sono sicuro che anche lui sia afflitto dalla stessa malattia).
Pensai, e ancora adesso un po' ne son convinto nonostante la conclusione lontanissima di questa recensione-delirio, che fosse un modo scaltrissimo per liberarsi di me, non che avesse più 16 anni, ma già all'epoca ero un bel rompipalle se mi ci mettevo (e anche se stavo tranquillo) e non credo che lui avesse sempre voglia di ascoltarmi e annuire e provare a consigliarmi Ben Harper invece di sentire quella porcata di Peace Sells but who's Buying dei Megadeth (statene lontani, maledette enciclopedie musicali della Giunti coi loro consigli strampalati).
Poi arrivò la mia follia per i libri.
Passai da quei 4-5 romanzetti striminziti a 40-50 libri l'anno con dentro qualsiasi cosa mi capitasse per le mani, dal grande classicone sfracella-testicoli dell' '800 all'Urania tradotto male, da King a Yates, Steinbeck, Moore, Martin, Simmons, Barth e chi più ne ha più ne metta.
Per un anno o due, memore di quella risposta, tenni a mente più o meno tutto: forse non ricordavo per filo e per segno ogni cosa passata sotto gli occhi (tipo i libri di chimica o di matematica non ho mai saputo di cosa parlassero), ma conoscevo abbastanza bene tutti i romanzi in cui mi imbattevo.
Infine un giorno la mia mente sovraccarica di minchiate fantascientifiche da 4 soldi e grandi capolavori che quasi non capivo cominciò a vacillare, perdevo pezzi per strada e se mi chiedevi di quel primo romanzo di King letto 4 anni prima facevo davvero fatica anche solo a raccontarlo a grandissime linee. Mi resi conto solo allora che forse mio fratello quel giorno non voleva semplicemente che mi levassi di torno, forse, e dico forse, davvero non si ricordava di quel maledetto libro dal titolo dimenticato.
Per ovviare alla perdita di memoria da accumulo cominciai a scrivere le recensioni dei libri appena finiti finché la cosa non mi procurò più fastidio che piacere: in fondo non avevo un fratello minore a cui raccontarli quindi perché avrei dovuto scrivere tutta quella roba? Per me stesso? Perché in effetti alla fin fine mi divertiva farlo finché non diventava un obbligo?
Forse si.
Oggi, passata una quantità indecente di anni dalla mia prima recensione, mi rendo conto che ancora accumulo i libri finiti sul tavolo in attesa di una recensione, anche minuscola, per sapere di cosa parlano quando ormai li avrò dimenticati (e perché si, mi piace).
Oggi, e questo "oggi" non è in senso figurativo, ma è proprio oggi, 1 agosto 2015, mi ritrovo a scrivere di un libro letto due mesi fa di Steinbeck, un autore che amo follemente e di cui sto provando da anni a leggere tutto quel che ha scritto in ordine rigorosamente cronologico (perché sono matto, ma questo ormai dovrebbe esservi chiaro), senza ricordarmi quasi nulla di quel che stava sulle sue pagine.
Già dal primo racconto mi ero reso conto di avere di fronte una copia sbiadita dello scrittore grandioso di Furore e La valle dell'Eden, nemmeno all'altezza di quei primi piccoli passi che sono La santa rossa e I pascoli del cielo, ma oggi mi accorgo che La valle lunga è davvero ben poca cosa se, a distanza di poco meno di 60 giorni dalla sua lettura, non ricordo quasi nulla di quanto Steinbeck volesse dirmi.
Certo, "La Fuga" e "Il cavallino rosso" potrebbero stare benissimo a fianco di un capolavoro come "Uomini e topi", ma i restanti 12 racconti sembrano davvero essere messi li quasi per caso, raccolti senza un ordine ben preciso (com'era invece in I Pascoli del cielo) sperando in una forza d'insieme che neanche si intravede.
Su quello che viene definito da Steinbeck il suo terzo tentativo di racconto-dramma, Che splendida ardi, in chiusura del tomo, sarebbe meglio sorvolare per non cadere in giudizi impietosi: invecchiato male è la prima e unica cosa che mi viene in mente.
Avrei potuto dirvi molto più semplicemente che de "La valle lunga" ricordo solo i due racconti citati per la bellezza e "Che splendida ardi" per la bruttezza, ma forse nessuno avrebbe capito l'unica cosa che per me ha un senso di tutta questa recensione: quel che non ricordo è inutile (come quel cazzo di libro di cui chiesi a mio fratello).

THE LONG VALLEY- LA VALLE LUNGA
AUTORE: John Steinbeck
ANNO: 1938
GENERE: Racconti
VOTO: 5

martedì 28 luglio 2015

DI PROMESSE CHE CADONO A PEZZI



C'è qualcosa che non va in Vernon God Little.
Non è l'incipit. Dbc Pierre parte come un Ciao truccato degli anni '90 e nel giro di 50 pagine ha già bruciato tutti i posti di blocco: famiglia, coetanei, comunità, polizia e stato del Texas, niente viene risparmiato dalla sua penna giovane e caustica.
Vernon God Little sopravvive all'interno di una società talmente annoiata e decadente da rendere un massacro a là "Columbine High School" un motivo di arricchimento per tutti gli abitanti del piccolo paese e l'autore inglese, attraverso gli occhi dell'emarginato adolescente, ci fa comprendere tutta la follia di un mondo occidentale completamente alla deriva.
Quando la spinta iniziale sembra esaurirsi, l'autore, come in un qualsiasi episodio di Fast & Furious, svela i serbatoi con il Nos e si sposta a velocità doppia in un Messico fatto di luoghi comuni, ma anche di tanta speranza per un ragazzo la cui confusa innocenza continua a far sorridere anche dopo 200 pagine, nonostante qualche esagerazione di troppo.
A questo punto Pierre sembra perdere contatto con il romanzo di formazione inizialmente promesso: ci si sposta prima in ambito giudiziario e poi definitivamente nel dramma più puro: la scrittura perde mordente (per quanto la cosa sia giustificata a livello narrativo, non la si comprende) e il Ciao perde velocità fino a smontarsi in mille pezzi, troppo usurato per poter fare anche solo un metro in più.
Siamo all'epilogo e nonostante le aspettative tradite quasi ci si adatta ad un finale del genere: forse è giusto che vada così, in un mondo così sbagliato non potrebbe finire altrimenti e il tocco di reality infilato a forza sembra quasi voler infastidire e allungare il brodo involontariamente.
E quando ormai ti stai già bevendo le tue lacrime amare lo vedi arrivare di corsa da lontano, grosso, muscoloso e mai stanco, il Deus Ex Machina prende al volo il Ciao e lo lancia oltre la linea d'arrivo sfasciandolo del tutto, facendogli perdere anche quell'ultimo guizzo di bellezza nostalgica pur di fargli vincere una gara ormai persa.
La disonestà, ecco che cosa non va.

VERNON GOD LITTLE
AUTORE: Dbc Pierre
ANNO: 2003
GENERE: Romanzo di formazione
VOTO: 5

giovedì 16 luglio 2015

LACIO DROM


 
Era il primo o il secondo anno di università quello in cui, al milionesimo viaggio in treno tra Alessandria e Torino, vidi per la prima volta una stradina che costeggiava il 90% dei binari tra la cittadina in cui tutti vorrebbero essere milanesi e quella che i milanesi li piglia per il culo.
Decisi che dovevo percorrerla a piedi.
Non che avessi qualche motivo in particolare per farlo o la mia vita stesse andando particolarmente male (a quale ragazzo sano di mente potrebbe andar male la vita al primo anno di università?), semplicemente mi andava.
Passò un'estate, due, tre, quattrocinqueseisette e anche otto e alla nona (no, facciamo alla decima) finalmente e vergognosamente mi decisi: misi lo zaino in spalla e arrivai a metà percorso prima di abbandonarmi allo sconforto e tornare a casa con un risentimento verso me stesso che faticai a mandare giù per mesi interi.
Averci messo un'eternità a decidermi e aver abbandonato a metà strada un percorso di soli 90 km mi fa incazzare, vergognare e anche un po' ridere a dire la verità. Ma davvero poco a dirla tutta.
Passa un altro anno e la camminata non è dimenticata, ma messa in un angolino nascosto, al buio, dove posso dimenticarla con piacere, quasi senza accorgermene.
Poi pochi giorni fa in libreria, insieme all'unico vero grande amico rimasto dai tempi dell'università, quello che anche se non lo vedi per due anni sei capace di parlare ancora per 3 ore come se non fosse passato un giorno dai tempi in cui la musica, il cinema, gli USA e i grandi sogni erano tutto, andiamo verso lo scaffale della narrativa di viaggio. Ne siamo appassionati entrambi e il grande on the road negli Stati Uniti di cui entrambi vaneggiavamo all'università alla fine lui è riuscito a farlo. Beato lui, coglione io.
L'uomo che fece il giro del mondo a piedi è il libro che attira la nostra attenzione quasi subito: in fondo siamo ancora gli stessi pirla sognatori di allora, con un lavoro che ci fa più o meno schifo ma ci consente di vivere e una voglia di andarsene da questo stato farlocco che ancora adesso conteniamo senza sapere bene il perché.
Passano due, tre giorni, il tempo di finire lo Stephen King più recente e mi butto sul racconto di Dave Kunst e del suo giro intorno al mondo iniziato nel 1970 con il fratello John.
Ed è subito voglia di rimettersi in viaggio.
Il libro di Kunst non è assolutamente un libro perfetto, risente della visione USAcentrica del suo autore (sul finale si parla addirittura di una classifica immaginaria stilata dai sue fratelli su quanto fossero arretrati gli stati attraversati rispetto alla loro nazione d'origine) e del passaggio di ben 45 anni dall'impresa che entrò direttamente nel guinness dei primati (ad oggi non sono nemmeno dieci le persone ad aver circumnavigato il mondo a piedi, ma ai tempi Dave fu il primo e solo), ma è uno dei pochi resoconti di viaggio letti nella mia vita capace di tenerti incollato alla pagina senza troppe iperboli e grandi insegnamenti di vita.
Kunst (insieme al giornalista e scrittore Clinton Trowbridge) non segue una linea retta fatta di date e avvenimenti, ma sembra lasciarsi andare ad un flusso di ricordi che riempiono le pagine con naturalezza, senza annoiare e senza nemmeno accelerare troppo quel viaggio che ha occupato quattro lunghissimi anni della sua vita.
Si sente nelle sue parole quella sorta di nostalgia e orgoglio che traspare solo dalle voci di chi è riuscito a compiere il proprio sogno nella vita: quello del camminatore del Minnesota, arrivato quasi all'improvviso in un giorno qualunque di una normalissima vita di provincia, era di compiere il giro del mondo a piedi e, nonostante una serie di imprevisti a dir poco spaventosi (compresa la morte del fratello a metà percorso raccontata nel primo capitolo) e un'attrezzatura che oggi farebbe ridere letteralmente i polli (scordatevi scarpe da ginnastica, abbigliamento tecnico, tende iperleggere, bevande iperenergetiche o chissà che altro, qui si parla di scarpe da passeggio, un cappello a tesa larga, camicia da Indiana Jones, Coca Cola e un carro trainato da un mulo), lui ci è riuscito.
E io ancora non ho percorso quei 90 km.

PS: Il libro è edito da Edizioni dei cammini, una casa editrice fondata piuttosto recentemente che, come da nome, si dedica al camminare. Fatti i complimenti per l'idea, le splendide copertine e l'impaginazione (non scontati), mi rimane solo un piccolo rimprovero per alcuni refusi letteralmente da urlo: un "havrebbe" da manicomio è quello che mi è rimasto più impresso, ma l'augurio è quello di avere tanti lunghissimi anni in cui migliorare anche in queste piccole cose. Si meritano tutta la fortuna possibile, per l'idea sicuramente, ma anche per il coraggio avuto nel metterla in pratica in questi tempi bui per l'Italia libraria e non solo.

THE MAN WHO WALKED AROUND THE WORLD: A TRUE STORY- L'UOMO CHE FECE IL GIRO DEL MONDO A PIEDI
AUTORE: Dave Kunst
ANNO:2015
GENERE: Biografia
VOTO: 7,5


domenica 14 giugno 2015

RIGURGITI GIURASSICI


 
Avrei voluto scrivere una recensione nostalgica che iniziava con la prima volta in cui vidi Jurassic Park. Era il 1993, io avevo 7 anni e la gente in coda al cinema era talmente tanta da sfociare fuori dalle porte e allargarsi sulla strada adiacente fino a bloccarla completamente.
Ci ho provato e riprovato almeno quattro volte, ma la cosa non ha funzionato: una volta non c'è abbastanza effetto nostalgia e un'altra sembra di leggere l'incipit di un romanzetto rosa dell' '800, alla quinta comprendo che non è quello il punto.
Sto pensando a quanto mi ha fatto incazzare Jurassic World.
Vorrei pensare a Jurassic Park, all'infanzia, ai cinema di città di un tempo con 700 poltrone tutte follemente occupate e alla gente seduta sui gradini al centro, ma sinceramente non ci riesco.
Penso a Jurassic World.
Rivedo davanti ai miei occhi i commenti positivi sul film letti in rete e le videorecensioni entusiastiche che spuntano come funghi e mi chiedo se per caso non hanno sbagliato sala.
Magari credono di essere andati a vedere Jurassic World e sono finiti nella sala di Mad Max a sbavare su deserti apocalittici e chitarristi indemoniati.
O forse avevano bisogno di far prendere aria alle corde vocali e han pensato di parlare bene dell'ultimo film giurassico senza saper esattamente cosa stavano dicendo. Consiglio dei gargarismi in bagno col colluttorio se proprio non avete di meglio da fare.
Perché la verità è che non voglio credere che a qualcuno sia piaciuto questo obbrobrio.
Jurassic World (e non Jurassik World, come ho visto scritto da più parti...) è il trionfo degli sceneggiatori idioti di Hollywood.
Quelli che riprendono in mano un'idea di 20 anni fa perché hanno buchi neri al posto del cervello.
Quelli che fanno correre le donne sui tacchi per chilometri perché vuoi mica metter le scarpe da ginnastica ad una fica come Bryce Dallas Howard.
Quelli che scrivono di cattivi dallo spessore pari ad un foglio di carta carbone e, non contenti, li fanno morire appena diventano un filo più interessanti perché tanto sono cattivi e i cattivi devono morire (mica come i bambini, i bambini sono buoni e si salvano. SEMPRE).
Quelli che scrivono trame viste, riviste e straviste e se per caso qualcuno glielo fa notare rispondono che sono omaggi, citazioni, richiami.
Cazzate.
La verità è che Jurassic World è un film senza idee se non quella grandiosa (e vecchia di 25 anni) di avere un parco pieno zeppo di dinosauri. E, per una volta, di visitatori.
Non è un caso che le scene migliori siano proprio quelle che riguardano le attrazioni. Fa sorridere vedere bambini in groppa a piccoli triceratopi e i vaghi accenni alle escursioni in canoa in mezzo alla palude giurassica o le tanto spoilerate girosfere fanno effettivamente sognare come se si fosse ancora nel 1993.
Solo che siamo nel 2015 e Colin Trevorrow e Derek Connolly non sono Steven Spielberg, David Koepp e Michael Crichton.
Vorrebbero esserlo certo, ci mettono i bambini, le inquadrature-meraviglia e tanta tanta tanta cgi fatta talmente tanto bene da non riconoscere gli animatronics dagli effetti computerizzati, solo che non lo sono.
E si vede.
C'era davvero bisogno di disegnare un dinosauro nuovo di pacca (giustificato persino con uno spiegone che neanche i cattivi peggiori di 007) per stupire un pubblico ormai abituato ai dinosauri “classici”? Con le centinaia (se non migliaia) di specie ormai scientificamente riconosciute era il caso di creare un mostro tipicamente Hollywoodiano che si comporta come l'imitazione pacchiana del Predator che lottava contro Schwarzenegger negli anni '80? Si, pacchiana. Perché almeno Predator era un alieno e aveva tutti le sue ragioni per essere brutto e invisibile, ma che ragione ha l'Indominous di avere questi unghioni ridicoli? Per lasciare i segni sui muri? Ma che è? Un graffitaro?
E dell'innamoramento stratelefonato e wozzappato dei protagonisti dopo cinque minuti di film ne vogliamo parlare?
E la colonna sonora di Michael Giacchino che nei momenti più sbagliati si diverte a riprendere il tema originale come farebbe il peggior dj paraculo di provincia? Per tanto così chiamiamo un vocalist e facciamogli urlare: “LA VOGLIAMO LASCIARE UNA LACRIMUCCIA QUI? ILLUMINAAAAAA!”
Jurassic World vorrebbe essere un seguito vero e proprio del primo e unico meraviglioso film di Spielberg e non è che una pallida imitazione che non ha capito nulla di quel che funzionava in quel film.
Non gli scontri Godzilleschi tra T-Rex e Indominous che si tirano testate e morsi manco fossimo davanti alla tv con Giacomo Ciccio Valenti che commenta il wrestling, non i raptor più o meno addomesticati che fanno le faccine e collaborano con gli altri dinosauri (no comment su questo che mi vien voglia di urlare) e nemmeno le corse in moto a capo di un branco di velociraptor (e hanno avuto pure il coraggio di metterlo in un trailer...).
Jurassic Park era pura meraviglia.
Quella delle attrazioni di cui ho parlato precedentemente, quella che poteva esserci nella prima scena del mosasauro se non fosse stata spoilerata selvaggiamente dai trailer o quella che può farti risvegliare alla fine del film con protagonista il T-Rex.
Meraviglia.
Spielberg pensaci tu.

JURASSIC WORLD
REGIA: Colin Trevorrow
ANNO: 2015
GENERE: Fantascienza
VOTO: 5

lunedì 8 giugno 2015

È LA STORIA, NON COLUI CHE LA RACCONTA.




Dimentico spesso quanto King possa essere avvinghiante.
Anche dopo aver letto qualcosa come una trentina di romanzi e un paio di raccolte di racconti, ogni volta che prendo in mano un suo libro il pensiero è sempre lo stesso: questa volta non ci riuscirai.
Non riuscirai a tenermi sveglio la notte come feci con It a 16 anni, sette ore a leggere col lumicino pur di levarmi di dosso gli incubi che mi assalivano ogni volta che chiudevo occhio o andavo in cantina a prendere una bottiglia di vino per mio padre.
Non riuscirai a farmi portare in giro nei posti più improbabili e scomodi (sul tram, in spiaggia, a casa della fidanzatina) un libro della mole de L'ombra dello scorpione in versione integrale (per chi non lo sapesse più di 1000 pagine scritte in caratteri simpaticamente microscopici nella sua versione """tascabile""") pur di non lasciare da soli i miei eroi durante la fine del mondo.
Non riuscirai a tenermi un giorno intero inchiodato a letto credendo di essere nel Miglio Verde nella speranza che John Coffey si salvi.
E non riuscirai nemmeno a farmi leggere un racconto dietro l'altro ripetendomi continuamente "Ancora uno piccolo e poi la smetto..."
E invece no.
A 68 anni King, in piena crisi bulimica da scrittore compulsivo (ormai pubblica almeno due romanzi l'anno più una raccolta di racconti, qualcosa che a ben pensarci dovrebbe ispirare uno dei suoi horror), è ancora capace di prendermi di peso e portarmi in un altro mondo senza nemmeno tanti sforzi. Gli bastano due capitoli nostalgici sull'ennesima infanzia passata nel Maine, questa volta all'interno di una felice e numerosa famigliola religiosa, ed eccomi li a portarmi a spasso Revival dappertutto. In edizione rigida. Con 470 pagine. Al lavoro, in macchina, nel tascone dei pantaloni corti mentre vado in giro. Insomma, di nuovo.
Non dirò che Revival è un capolavoro.
Sono anni che, pur non leggendo tutto quel che King pubblica (per stargli dietro dovrei leggere solo più lui, e non mi va ancora di diventare pazzo), il Re dell'horror non scrive un vero e proprio capolavoro; forse i tempi di It, L'ombra dello scorpione, Pet Sematary, Cuori in Atlantide, Stagioni diverse e Il miglio verde sono passati per sempre o forse semplicemente sono io ad essere diventato troppo esigente.
Niente capolavori quindi, ma libri più o meno buoni a seconda delle stagioni.
Duma Key, tanto per dirne uno recente, ma non recentissimo, era una mezza ciofeca nonostante la buona idea di partenza. Pareva il libro di uno scrittore anziano che vive su un'isola scema del Pacifico, col cappellino di paglia in testa e poche gioiose idee che gli rimbalzano nel cervello rugoso senza saper dove andare. Non il massimo, ecco.
22/11/63 invece era un buon romanzo. Con una parte centrale decisamente inferiore all'incipit e al finale (uno dei pochi riusciti nella lungherrima carriera e quindi già solo da ricordare per quello), ma comunque molto buono.
E poi c'è Revival.
Che è meglio di 22/11/63 e quasi allo stesso livello di quel Cuori in Atlantide che metto tranquillamente tra i migliori.
Perché c'è un'ottima idea di partenza, ma soprattutto perché c'è uno sviluppo degno del King degli anni migliori. Si parte da uno dei pezzi forti del nostro (l'infanzia, un'età magica che solo lui sa descrivere così meravigliosamente), per attraversare poi la vita intera del protagonista per spizzichi e bocconi. Un assaggio di adolescenza, un salto nei 40, un ritorno ai 30 e poi via via lentamente verso i 50 e infine i 60. Revival pare più una biografia che un romanzo qualsiasi e arriva al succo soltanto nelle ultimissime pagine, prendendosela con calma sugli aspetti della vita più reali e accelerando su quelli più soprannaturali, quasi a voler far sembrare questi ultimi lampi e tuoni che irrompono nella nostra esistenza di sole e nubi.
Con gli anni King sembra aver abbandonato ormai del tutto ogni orpello che non abbia a che fare con la vera e propria storia che sta raccontando e quindi la narrazione prosegue ancora più spedita del solito, fino ad arrivare al finale burrascoso che tutti attendono.
Che non è un brutto finale.
Mi piace scrivere recensioni e, di conseguenza, mi piace leggerne. Sarei un coglione a non farlo. E sarei anche un pirla che pretende di essere letto senza leggere niente di quel che gli altri scrivono. Questo per dire che ho letto ben più di una recensione che parlava di una seconda metà del libro deludente e soprattutto del solito finale imbarazzante a là King. E per una volta, o forse per l'ennesima, non sono d'accordo.
Il finale soprannaturale di Revival, esattamente come quello di 22/11/63, è fatto di poche pagine. Pochi brevi accenni ad un orrore che l'occhio umano non può sopportare e che lo scrittore del Maine, a quasi 70 anni, riesce ancora a descrivere incutendo terrore. É vero che il romanzo sembra accumulare dettagli su dettagli per poi smontarsi in poche semplici righe, ma è anche vero che qui, come in 22/11/63 e come nel 90% dei romanzi del Nostro, quello che davvero conta è il finale che viene dopo, quello che riguarda la vita vera. Quella di un uomo dell'età di Stephen stesso che è passato non casualmente attraverso la droga, la musica rock e la morte di molti dei suoi cari (e indirettamente anche attraverso un incidente automobilistico, cosa che King non dimentica mai di inserire nei suoi romanzi da 15 anni a questa parte), per arrivare ad un'anzianità fatta di tanti ricordi.
Stupendi, brutti, belli e orrendi.
Ma tutti profondamente Kinghiani.
E quindi urliamolo ancora una volta.
W il Re.
W colui che la racconta.

REVIVAL
AUTORE: Stephen King
ANNO: 2014
GENERE: Horror, Drammatico
VOTO: 8

domenica 31 maggio 2015

HORROR IPERREALISTA

Questa recensione è stata scritta l'11 ottobre 2011 e rivista completamente il 31 maggio 2015


 
Se fossi un ragazzo che rilegge i libri, in questo momento sarei di nuovo a pagina 1 di Revolutionary Road.
Mi farei riavvolgere dal lento e agile fluire di parole di Yates, mi reimmergerei nel sobborgo americano da “Edward mani di forbice” in cui si trasferiscono i suoi protagonisti, mi intrufolerei di nuovo tra le vite piatte dei Wheeler per trovarvi indizi per niente nascosti della tragedia imminente.
Revolutionary Road è il libro che consiglieresti a tutti, ma finisci per non consigliare a nessuno.
Mi spaventerebbe sentir di persone che ne parlano come di un libro in cui non accade nulla, di altre che proprio non lo capiscono, di altre ancora schierate dalla parte di April, di Frank o dei Campbell.
Mi terrorizzerebbe pensare di essere l’unico a spaventarsi per un libro simile, a inquietarsi al punto da domandarsi quanto Frank o quanta April c’è dentro di me.
Voglio rimanere in un paesello di periferia a svolgere “il lavoro più cretino che ci sia?”
Voglio fuggire in Europa senza nessuna sicurezza sul futuro, ma con tanta potenziale libertà?
Ed è un Givings quel mio amico incapace di non mascherare tutto sotto un sorriso idiota? O è un Campbell che si costringe a lavorare come un mulo e ad essere efficiente per illudersi di essere ancora abile a qualcosa? O ancora è un Givings Junior, pazzo ma in grado di squarciare il velo di una realtà illusa ed illusoria?
Revolutionary Road, pur con tutti i suoi 50 anni sulle spalle, è talmente iperrealistico da essere spaventoso, come quelle foto di famiglia in cui tutti i parenti sorridono, ma tu sai che di li ad un mese uno di loro sarà morto, consumato da un orribile cancro o trovato appeso ad un cappio nella vasca da bagno.

PS: Avendo visto il film tratto dall’opera cinque anni fa, ed avendo provato le stesse sensazioni che mi ha dato Yates, posso tranquillamente dire che la trasposizione di Mendes con Di Caprio e la Winslet (perfetti) è a dir poco stupenda. La scrittura di Yates è cinematografica con tutti i suoi cambi di piano, le sue zoomate e i suoi piani lunghi, ma solo un regista e uno sceneggiatore con una gran sensibilità e due grandi attori a disposizione (oltre ad ottimi comprimari come Kathy Bathes) poteva mettere su schermo in modo così credibile e vero un’opera simile.

PPS: ancora una volta un plauso all’edizione Minimum Fax, collana: I quindici. Dopo “L’opera galleggiante” di Barth è questo il secondo libro della stessa collana che possiedo e oltre ad avere un formato oggettivamente bello (cosa che ho imparato ad apprezzare dopo anni e anni di tascabili stampati su carta igienica) contiene all’interno 4 o 5 speciali davvero gustosi sull’opera e sull’autore.

REVOLUTIONARY ROAD
AUTORE: Richard Yates
ANNO: 1961
GENERE: Drammatico, Letteratura americana
VOTO: 10


giovedì 21 maggio 2015

WILL FERRELL NON FA RIDERE


 
Cose che mi fanno ridere: i Griffin, Seth Rogen, Edgar Wright, i Fucktotum.
Cose che non mi fanno ridere: Big Bang Theory, Will Ferrell, Zelig, Douglas Adams.
Ora che sapete tutto ciò siete pronti a leggere.
Un attimo, no, se Will Ferrell ti ha fatto ridere, ti fa ridere o pensi che ti potrà far ridere in futuro puoi anche fermarti qui. Io e te, te che ridi per quest'uomo qui sotto, non andremo mai d'accordo, quindi tanto vale che la smetti pure di leggere, di seguirmi e, se vogliamo proprio dirla tutta, anche di andare al cinema. Sei una brutta persona, è ora che qualcuno te lo dica.


Eccoci, possiamo cominciare.
Venere sulla conchiglia è considerato dai più come uno dei libri fondamentali da leggere per chi è appassionato di fantascienza. Non che il romanzetto di Philip Jose Farmer (nella mia edizione Urania del 1720 rilegato in cartaculo ancora sotto pseudonimo Kilgore Trout) sia stato una pedina fondamentale per la creazione di nuovi mondi (Dune), per le visioni future (Asimov) o per la quantità di idee messe giù in fretta, furia e droga e poi scopiazzate da tutti (Philip K. Dick), è che semplicemente è considerato un punto di svolta.
Si ma riguardo a cosa per Dio?
Un attimo di calma.
Prendete un superclassico della fantascienza come Dune e andate a leggervi le parti che riguardano la religione o il sesso: vi ritroverete sotto gli occhi tanti e tali giri di parole da farvi venire il mal di testa, la nausea e anche un po' di mal di pancia. Siamo sicuri che Herbert vivesse sul nostro mondo per pensare anche solo alla metà delle follie che va descrivendo per tutto il romanzo e i suoi seguiti riguardo i due argomenti citati?
E avete mai trovato una scena d'amore che non sia una fregnaccia da romanzetto rosa fatta di sguardi e candide carezze in Asimov?
E in Whyndam non vi sembra che manchi solo una donnina che dice “Mio eroe!!!” cadendo fra le braccia del suo amato? (Si, lo so, i suoi libri femministi e blablabla, ma non sto parlando di quello).
Ecco qual è la svolta di Philip Jose Farmer nel 1974: introdurre il sesso e la religione nella fantascienza e senza nessuna remora fare del grasso e grosso umorismo su di essi, fregandosene del lettore medio del genere (ancora legato all'immaginario lucido e muscoloso di Conan) e anche del buon costume dell'epoca.
Solo che c'è un problema: Venere sulla conchiglia non fa ridere, per niente direi.
E vorrebbe farlo purtroppo.
Lo scrittore americano assomiglia molto di più a Douglas Adams che ai Griffin e fa di tutto per pasticciare una storia che, sulla carta, potrebbe anche sembrare interessante.
Non starò a parlarvi dei viaggi del Vagabondo Spaziale e dei suoi incontri con alieni a forma di piramide e dirigibile (sigh) o della volta in cui si è fatto piantare una coda sul sedere per poi ritrovarsi a far sesso in modi bizzarri con la Regina del pianeta (ehm...) perché il riassunto potrebbe essere più lungo del romanzo stesso. Vi basti sapere che Venere sulla conchiglia è un pasticcio di miniavventure che non si accontenta di volervi far ridere nei modi più beceri (a volte sembra di leggere le freddure che andavano tanto di moda in quegli anni), ma vuole anche farvi riflettere sui problemi della società di allora (che poi, a dirla tutta, sono gli stessi di quella attuale). Ci saranno chiari riferimenti alla stupidità degli uomini rispetto alle donne e monarchi idioti, Dei che vanno a prendersi il caffè e non tornano più indietro e razze che puliscono l'universo dai loro microbi. E ovviamente ci sarà sesso per tutti i gusti.
Solo che non riderete.
A meno che non vi piaccia Will Ferrell.

 
VENERE SULLA CONCHIGLIA
AUTORE: Philip Jose Farmer
ANNO: 1974
GENERE: Fantascienza
VOTO: 4,5

martedì 28 aprile 2015

PAPÀ CASTORO RACCONTACI UNA STORIA!

Questa recensione è stata scritta originariamente il 28 ottobre 2011 e rivista completamente il 27 marzo 2015
 
Mi avvicino a Corona con entusiasmo: quel montanaro visto qualche volta in tv mi ispira simpatia e saggezza, mi racconta una vita di altri tempi e di altri luoghi, mi suggerisce natura e libertà.
Trovato un suo libretto usato ad un prezzo ridicolo, lo prendo al volo e lo metto a decantare in libreria per qualche mese fino al giorno in cui decido che è venuto il suo momento.
Sarà ancora capace il mio intuito librario (mi suggeriscono acquisto compulsivo) di stupirmi?
Da Mauro Corona scrittore mi aspetto uno stile asciutto ma incantatore, voglio consigli e strigliate sull’abuso della natura, pretendo grandi insegnamenti.
Quel che mi ritrovo nelle prime 100 pagine sono raccontini di quinta elementare scritti da un uomo che sembra aver vissuto per 100 anni nella sua valle: ci sono personaggi che appaiono e scompaiono nel giro di mezza paginetta, tanti accenni ad una gioventù da bimbo di montagna e soprattutto punti, virgole e “e” come se piovesse. Dove sono scomparsi i “punti e virgola” e i due punti e le subordinate? E i grandi insegnamenti?
Proseguo a singhiozzi; per una persona che odia i romanzi a episodi e le grandi raccolte di racconti, queste storielle da 1 pagina e mezza sono una tortura infinita: “C’è Tizio, c’è Caio, Tizio e Caio hanno fatto questo e quello”.
Poi pian piano lo scrittore ertano sembra finalmente ingranare la marcia, i racconti si fanno più lunghi, le storie più vicine, più reali, più sagge e più “Papàcastoresche”.
Le ultime 100 pagine scorrono via come l’olio tra racconti di scalate fallite e cave di marmo abitate da dannati di pietra.
L’impressione finale è quella di un oratore straordinario limitato dalla sua stessa concezione dello scrivere: “Scrivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro”.
Saggezza, alcool, umiltà, natura, ingenuità, montagna e giovinezza.
Vorrei solo più sostanza.
Ci proverò ancora, Corona sa farsi voler bene.

NEL LEGNO E NELLA PIETRA
AUTORE: Mauro Corona
ANNO: 2003
GENERE: Racconti, autobiografico
VOTO: 6

giovedì 16 aprile 2015

UN MARE DI RICORDI



Se L'ultima estate al bagno Delfino fosse solo un romanzo di formazione lo amerei a prescindere, ma siccome è un romanzo di formazione ambientato in un paesino di mare italiano semplicemente lo adoro.
Ci sarebbero troppi risvolti biografici da scodellare per comprendere questo mio amore incondizionato, ma l'unica cosa che davvero conta è che i miei amici, i miei veri amici, quelli con cui ho vissuto i momenti più esilaranti, imbarazzanti, ubriacanti, amoreggianti, anti, anti, anti, sono quelli che da sempre ritrovo al mare, nella stessa spiaggia da più di 15 anni.
La mia prima cotta, il mio primo amore, la mia prima sbronza, il mio primo bagno di notte, il mio più grande rimpianto, la mia prima stronzata, il mio migliore amico, fatevi venire in mente qualsiasi cosa può segnare la vita di un non più troppo ragazzo e io l'avrò fatta lì, in quel desolato paese ligure di mare in cui torno ogni estate.
Nonostante L'ultima estate al bagno Delfino sia ambientato in una zona che conosco poco o nulla, una località balneare non meglio precisata della riviera romagnola, tutto quello che Panzavolta racconta sembra riferirsi ai luoghi e alle avventure della mia gioventù.
Certo, forse non mi è mai capitato di veder finire in una simile tragedia uno scherzo da ragazzini incoscienti (nonostante più d'uno avrebbe potuto finire anche peggio a ripensarci) e le nostre partitelle coi bagni vicini o le compagnie “avversarie” possono essere finite al massimo in una piccola rissa da spiaggia, ma il clima che lo scrittore romagnolo ricrea nelle pagine del romanzo è esattamente quello che ho vissuto durante la mia adolescenza.
Il finale brusco che Claudio dà alle vicende adolescenziali dei ragazzi è quello che ormai ho imparato a conoscere bene in questo tipo di romanzi, un finale che io per fortuna non ho conosciuto andando incontro ad un lento sfumare di quegli anni che stanno facendo spazio a quello che ne L'ultima estate al bagno Delfino è una vita adulta colma di nostalgia e sensi di colpa mai espressi.
Maledetti libri verità.

L'ULTIMA ESTATE AL BAGNO DELFINO
AUTORE: Claudio Panzavolta
ANNO: 2014
GENERE: Romanzo di formazione
VOTO: 8

venerdì 20 marzo 2015

NUOVE ADOLESCENZE


Un romanzo di formazione, più di un libro di fantascienza, più di una biografia, più di una saga familiare, è come viene scritto.
Insomma, diciamoci la verità, il passaggio dall'adolescenza alla vita adulta di un ragazzo (o di un gruppo di ragazzi) avviene nel 99% dei casi librari con la morte di un amico. Si, d'accordo, non sono tutti così e c'è chi parla della fuga dalla società e c'è chi parla del rapporto coi parenti e c'è anche chi racconta semplicemente della vita di tutti i giorni di un sedicenne, ma in generale c'è la morte di mezzo, perché la morte fa crescere e chiunque non se ne sia ancora accorto molto probabilmente non ha ancora superato i 16 anni.
E quindi, una volta che conosco in anticipo ciò che sto per leggere, per quale motivo dovrei riprendere in mano un altro libro simile?
Perché un romanzo di formazione ti può riportare a comprendere cose che ti sono sfuggite a quell'età o che ti sono passate davanti senza che nemmeno te ne accorgessi e soprattutto perché un ottimo romanzo di questo genere è capace di riportarti davvero indietro nel tempo, nella tua testa di cazzo da sedicenne con i tuoi vestiti brutti, la parlata gggiovane e il comportamento del peggior minchione che tu abbia mai conosciuto: te stesso a 16 anni.
Se sei adulto.
Se sei adolescente invece può farti sentire a casa e meno solo al mondo e farti comprendere ciò che alla tua età non puoi capire da solo e che nessun adulto verrà a dirti in faccia. Cosa esattamente? Non chiedetelo a me.
Solo che è difficile trovare un buon romanzo di formazione.
Avendone letti tanti posso tranquillamente dire che troppi sono romanzi adulti per adulti con insegnamenti da adulti che si mascherano da formazione con la stessa scaltrezza con cui tu da bambino ti vestivi da pirata: ti mettevi la bandana e il copriocchio e sotto avevi i jeans e le Nike. Potevi anche far credere ad un bambino della tua età che eri un vero pirata così come lui era un buon Batman coi suoi pettorali di plastica da uomo pipistrello, però dai, siamo seri, eri anche un bel bimbetto, ma non eri un pirata. E men che meno lui era Batman, con quegli occhialetti tondi dalle lenti spesse tre dita e il caschetto che neanche Nino D'Angelo ai tempi d'oro.
Invece Esche vive è un vero pirata, pardon un vero libro di formazione.
Scritto da una persona che sa come si sente e si esprime un diciannovenne del 2015, pur con tutti i regionalismi del caso, ma soprattutto da un uomo che è consapevole di cosa sono i trent'anni oggi, una sorta di adolescenza tirata troppo per le lunghe, incapaci di dare le stesse emozioni dei sedici anni eppure ancora troppo lontani da quella vita adulta che spaventa con il suo gretto materialismo e i suoi sogni infranti.
Forse Genovesi non riesce ad entrare nella testa di tre generazioni diverse (Mirko il Campioncino, ancora in fase preadolescenziale, spesso sembra un personaggio fin troppo forzato), ma la scrittura ingenua di un diciannovenne e quella brillante e ancora piena di speranza di una trentenne bastano per mettere Esche vive tra i migliori romanzi di formazione che io abbia letto.
Genovesi parla di quella provincialità che sicuramente piacerà di più a chi il paesino di campagna l'ha vissuto, ma che non può non colpire tutti quei sedicenni (ed ex sedicenni) che in fondo si sentono soli e incompresi anche all'interno della grande città.
Delusioni, personaggi da paese, amori adolescenziali, traumi infantili, adulti ossessionati, vecchi con la testa dura, band di metallo duro, amori intergenerazionali, ma soprattutto tanta, tanta, tantissima speranza.
Perché in fondo il romanzo di formazione è come viene scritto, ma se non sai cosa raccontare puoi anche smettere subito.

ESCHE VIVE
AUTORE: Fabio Genovesi
ANNO: 2013
GENERE: Romanzo di formazione
VOTO: 8,5

mercoledì 11 marzo 2015

LA CASERMA IN CUCINA


In mezzo a chef stellati ridotti a far la pubblicità delle patatine, napoletani grandi e grossi che rimettono in sesto ristoranti che il giorno dopo ci vai e sono uguali a prima, inglesi che cucinano un bel piatto di pasta al sugo "all'italiana" piazzandoci sopra le due temutissime polpette e altri inglesi che sbraitano e gesticolano manco fossero a Little Italy, c'è Anthony Bourdain, un cuoco americano non proprio qualsiasi, ma quasi, che ha passato metà della sua vita a bere e a drogarsi e l'altra metà a bere e cucinare.
Bourdain è il classico cuoco che non vorresti vedere in cucina a cucinare la tua bistecca: te lo immagini lì con la sigaretta in bocca, più impegnato a controllare quanto whisky gli rimane nella bottiglia che ad osservare la giusta cottura del tuo manzo.
E lui in Kitchen Confidential lo ammette: le cucine, quelle vere, quelle dei ristoranti di fascia medio-alta (per quelle basse guardatevi qualche puntata farlocca di Cucine da incubo USA) in pieno centro a New York con 300 coperti e prezzi non proprio alla mano sono un vero e proprio macello. Ci sono insulti, sguatteri sudamericani mal pagati, sangue, fumo, alcool, risse e persino sesso.
Dimenticatevi dell'ordine e della pulizia del banco di lavoro imposto dai grandi talent culinari o dei falsi ordini brutali sbraitati da quell'ex giocatore di calcio pluristellato, il mondo descritto da Bourdain è qualcosa di più simile ad una caserma in cui il bullismo e il nonnismo sono la regola a cui non si può sfuggire.
La vita dell'ex chef del Les Halles (ora completamente impegnato in tv e nella scrittura di libri) è un sogno americano un po' distorto che passa dall'essere un figlio di papà e quindi un ribelle al fallimento, dal fallimento alla risalita e quindi di nuovo al fallimento, all'alcool, alla droga, ad un nuovo fallimento e ad un altra risalita fino a questo libro.
Kitchen Confidential è breve, ma intenso e ha il merito di essere stato scritto nel 2000, poco prima dell'esplosione della cucina in tv, sui libri, sui fumetti e ovunque voi possiate posare lo sguardo.
Forse non è esattamente il genere di libro che invoglia a voler fare il cuoco e sicuramente non è il manuale che vi insegnerà come cucinare il tuorlo d'uovo marinato a là Cracco, ma il romanzo-biografia di Bourdain è un libro genuino, scritto da un sanguigno col sangue.
E io sinceramente non chiedo altro.
 
KITCHEN CONFIDENTIAL
AUTORE: Anthony Bourdain
ANNO: 2000
GENERE: Biografia, Cucina
VOTO: 8

venerdì 27 febbraio 2015

NOSTALGIA PORTAMI VIA

Questa recensione è stata scritta originariamente il 31 gennaio 2012 e rivista completamente il 27 febbraio 2015

 

22/11/63 è pieno di incongruenze, difetti e ripetizioni.
Ci sono le incongruenze legate al viaggio nel tempo. Quello di King è di un tipo abbastanza particolare: si può tornare indietro nel tempo attraverso una "bollicina temporale" (termine orrendo usato sul finale), far tutto quel che si vuole per il tempo che si vuole e tornare in un presente in cui sono passati solo due minuti dalla partenza, ma su cui l’effetto farfalla ha avuto i suoi esiti (nefasti o meno). E perché si possono portare oggetti di qua e di là nel tempo senza nessuna conseguenza? Boh. E come ha fatto Al ad avere i suoi primi vecchi dollari del ’58 da spendere nel passato? Boh. E perché, nonostante venga ribadito una cinquantina di volte che il "buco temporale" è fragile poichè frutto di una serie di coincidenze, la buca del coniglio rimane sempre al suo posto qualsiasi cosa Jake combini nel ’58? Boh.
E via dicendo.
Ci sono i difetti nel corpo (parecchio grasso) del romanzo. Era necessario autocitarsi così palesemente nelle prime 200 pagine? Una volta esaurito il suo compito di “causa primaria della follia di Lee Oswald” a cosa serve tirare in ballo per la milionesima volta la madre di Oswald facendola apparire come una sorta di mostro Kinghiano capace di ringiovanire nutrendosi del pianto di una bimba per poi non nominarla più? E del sonaglino rosso di June Oswald cosa dovremmo pensare dopo tutte quelle punzecchiature? E soprattutto: se scrivi un romanzo sulla possibilità di salvare Kennedy, perché le conseguenze del gesto sono riassunte in 5 e dico 5, pur goduriosissime, pagine stiracchiate?
E ancora via dicendo.
Ci sono le ripetizioni. “Il gradino rotto di casa Oswald”. Ok… “Il gradino rotto di casa Oswald”. Ok… “Il gradino rotto di casa Oswald”. Ok… “Il gradino rotto di..” ma baaasta! “L’effetto farfalla”. Oh certo.. “L’effetto farfalla”. Si beh l’hai detto due pagine fa.. “L’effetto farfalla”. Mi prendi per il culo? “L’effetto farfalla”. Dio questo ha l’Alzheimer…
E via stradicendo.
Dunque 22/11/63 è un libro perfetto? No, per niente.
Può essere paragonato a tre capolavori Kinghiani (con l'h o senza h?) come “Stagioni diverse”, “Il miglio verde” o "Cuori in Atlantide"? Nemmeno per sogno.
Ma 22/11/63 rimane un buonissimo romanzo.
Messo su carta da un uomo a cui negli ultimi anni sembrano mancare un po’ le idee (un interquel, che brutta parola, de La torre nera, un sequel di Shining, o, come in questo caso o in quello di The Dome e Blaze, un’idea ripresa dal passato remoto), ma il cui mestiere e la volontà non si discutono.
Scritto da un King che forse considera i suoi lettori abbastanza rincoglioniti da dovergli ripetere 10 volte anche l'informazione più elementare, ma che sicuramente non gli manca di rispetto con lavori mastodontici di scrittura e di ricerca (si veda la postfazione) come in questo caso.
È un Re autocitazionista quasi fin alla nausea quello di 22/11/63 (anche se la mia idea rimane quella di un autore che, arrivato ad una certa età, stia tentando di dare un senso di unità alla sua vastissima opera), capace di accettare i consigli del figlio scrittore (e il finale ne guadagna, se avete letto la prima bozza del finale di King sul suo sito) e ormai sempre più nostalgicamente legato ad un passato pieno di difetti, ma comunque migliore. Una nostalgia che, per una volta, non riguarda l’età preadolescenziale e il suo seguito, ma quell’età adulta che King molte volte ha faticato a descrivere (si veda la parte “adulta” di It, nettamente inferiore a quella fanciullesca). Che il segreto risieda nel lento allontanamento da quegli anni vissuti in prima persona?
Niente più insegnamenti, prediche, morali: lo Stephen King del 2011 è pura storia, perché in fondo il fedele lettore lo sa che è la storia che conta, solo quella.
E che sia pure d’amore, in fondo uno scrittore multimilionario sposato da 41 anni con la stessa donna ne saprà qualcosa più di me no?
E che sia pure d'amore, in fondo uno scrittore multimilionario...ops scusate, pensavo di essere Stephen King...

11/22/63- 22/11/63
AUTORE: Stephen King
ANNO: 2011
GENERE: Fantastico
VOTO: 7,5